mercoledì 30 maggio 2007

Fiel Garvie: "Caught Laughing" (Words On Music, 2006)

















 capita che una domenica pomeriggio non hai voglia di uscire perchè il tempo è brutto eppoi non c'è niente da fare. capita che qualche giorno prima hai recuperato una raccolta che si intitola Mistery and Misery Dreamgazer Mix in cui sono raggruppati sognatori musicali più o meno conosciuti. epic45, cocteau twins, mellowdrone, the prids. 50 perle che vibrano, solitarie, nella camera, fra le mura. capita, anche, che ti viene voglia di scoprire i gruppi che non conosci, succede anche che ti imbatti in qualcosa di speciale. ecco, quel qualcosa di speciale me l'hanno regalato questi fiel garvie.

ovviamente fino a poche ore fa non sapevo nemmeno che esistessero ma appena ho messo su il disco in questione è stata semplice folgorazione.

le canzoni sono un non ben identificabile incrocio fra classicismi corali, voce femminile leggermente scabrosa, flussi di amore confluiti in musica. ed eccole qua, nove canzoni, che fremono, suonano veloci e scappano via, che la voglia di rimettere il disco da capo è fortissima. pare che il progetto sia sotto le mani della cantante, anche compositrice, dal nome Anne Reekie.

Special Rate si imbastisce con l'apporto di una tastiera sospesa a mezz'aria, con un suono delizioso, una melodia che ti si stampa in testa e carezza i sensi. Poi, le chitarre, intrecciate sapientemente, non paiono nemmeno vere da tanto sono splendenti, un tatto che dei piccoli esordienti possono conferire. Ed solo la prima.

Estimate è, se vogliamo, pure migliore. leggermente più complessa, si scioglie liquida fra rimbalzi ritmici e laceranti fraseggi di cello, toccando vette di bellezza, con l'accompagnamento, questa volta, di uno sfrigolio digitale, appena accennato, prezioso e decisivo.

La successiva The Palace Lights accentua la componente elettronica, innestando una batteria elettronica che batte colpi ravvicinati ma pur sempre delicati, la tastiera, sempre splendida, sprizza colori in forma di note. ed ancora, la voce, questa volta ricoperta da riverberi al limite dello shoegaze, assale l'ascoltatore, fino al finale: un fiorire di strumenti che paiono cesellare una festa in piazza.

Daylight ha un piglio cadenzato con più calma, si concede delle pause colme di emozione, il suo elemento portante è un organo che pare un drone modulato con varie frequenze fino alla conclusione secca e improvvisa.

Airsong ha un tono particolare e inqualificabile, si lascia andare con stratificazioni cromatiche soffuse. Lascia senza fiato il canto, che pare alla stregua di una confessione, contorniata da uno xilofono, alcuni gemiti lontani, una batteria scomposta detta un ordine pacato ma al tempo stesso pieno di vitalità.

Shy Away incrocia i già citati cocteau twins con contrappunti vocali e strumentali di finezza dorata, All of You mette in risalto il piano, per altro già presente nei precedenti episodi, e difatti si candida a pezzo più etereo e misterioso, con un un piccolo suono in sottofondo, poi sostituito da uno sfrigolio elettronico onirico. Il violino, strappa melodie e le ricompone con un metodo aggraziato.

Off And On Again si affida a pochi accordi di chitarra, una vaga solennità ricopre i suoni metallici che risiedono un po' ovunque, si riesce ad emulare con personalità ossessioni provenienti da una band lontana ma mai così vicina, i cranes. ed è proprio qui, in questa traccia, che maggiormente emerge la capacità cantautoriale fuori dalla norma di anne, una musa solitaria, che per diversi tratti, riprende le abitudini di un'altra stellina, dot allison.

We Wish, il commiato, un toccante quadretto appena schizzato, lascia alla mente ricordi di una realtà musicale ormai lasciata alle spalle, sempre pronta a spuntar fuori per forgiare nuovi suoni per nuove generazioni. nuove emozioni per nuove menti, nuovi amori per cuori rinnovati.

un piccolo gioiello, il cui recupero, è un dovere morale di qualsiasi appassionato del dream-pop e di tutto ciò che è sognante.

sabato 19 maggio 2007

Feist: "The Reminder" (Interscope, 2007)



















Quattro anni d’attesa sono tanti, un capolavoro di cantautorato femminile come “Let It Die” meritava un successore, e puntualmente, l’arrivo del 2007 ci regala il nuovo lavoro di Leisle Feist.

Per chi ha lasciato lacrime ed emozioni sulle note di “When I Was A Young Girl”, ed ha trovato in “Mushaboom” l’ispirazione per sviare dal dolore, la nuova manciata di canzoni rinnoverà questi valori, lasciando intatte le colorazioni decise che screziavano il suo predecessore.

L’ascolto porta alla mente sensazioni rinnovate, una voce limpida e deliziosamente soffusa come in passato, trame melodiche che si alternano in uno schizofrenico quadro ritmico che ha le sembianze di un temporale intervallato da pause di tenera calma.

Il delicato inizio di “So Sorry” si distingue per un’intimità disarmante, che spoglia l’artista da ogni possibile limite espressivo, regalando una perla acustica dalle perfette dimensioni arrotondate. Già a questo livello si nota il grande lavoro di introspezione musicale e testuale che si svilupperà ulteriormente via via, con lo scorrere delle tracce.

“I Feel It All” si lancia in un pop forsennato dalle sembianze mutanti, con un ritmo a tratti irresistibile, capace di divertire la mente più svagata e intrattenere chi cerca qualcosa più in una canzone. Lo xilofono, coadiuvato da altre percussioni, riesce a cesellare una melodia che a tratti si ripete, senza mai stancare. E poi, la voce, personale e vivacissima, si alterna fra momenti movimentati e attimi più posati.

L’andamento di “My Moon My Man”, un crescendo pieno di balzi, si nasconde dietro le sembianze di una ballata rock antica, la scheletrica “The Park” tocca dei picchi emotivi brillanti come delle chiazze di luce tremolanti. Attimi che repentinamente capovolgono un’esistenza si concentrano in un episodio egualmente essenziale al precedente. “The Water” raccoglie la sua anima nelle parole, costringe i soggetti vulnerabili a far elemosina di rassicurazioni. Ravviva ad intervalli un piano suonato con note che paiono raggi di sole mattutini.

Il gioco cromatico altalenante prosegue, proponendo un altro centro pop. “Sea Lion Woman” punta sulla faccia senza paure della musica di Feist. Bagliori che un attimo parevano cadere, ora riflettono con forza.

“Past In Present” si esemplifica autonomamente dal titolo. Elementi passati che si intrecciano con nuove influenze ramificate in un presente rigoglioso. Il piglio cantautoriale, che sempre ha contraddistinto l’artista, strizza l’occhio a delle radici country, dando sfogo in un frangente tutt’altro che disprezzabile; ma anzi, perfettamente compiuto e coerente.

Buffi singulti amorosi tramutati in musica, con il tremolio di una linea elettronica, avvolgono la mente come la nebbia più fitta (“The Limit To Your Love”), una divertente filastrocca (“One Two Three Four”) detta il tempo del ballo di un arcobaleno nel cielo.

“Brandy Alexander” ricorda vagamente la già citata “When I Was A Young Girl”, contenuta nell’album “Let It Die”, per la vaga malinconia che emana e le sottile assonanze di ritmo. La voce sdoppiata, posta in coda, si colloca perfettamente e marchia a fuoco un sicuro successo.

Gli ultimi tre episodi si distinguono ognuno per motivi differenti. “Intuition” riprende ciò che aveva lasciato “The Water” in termini di essenzialità, “Honey Honey” sperimenta inedite linee elettroniche di base, risultando molto ben riuscita, anche con l’apporto di un’arpa celestiale. Il commiato, “How My Hearth Behaves”, scava fosse in cui si viene avvolti dal vuoto, senza capire dov’è la fine della melodia.

Assaliti da un senso di solitudine e tristezza, rimaniamo sorpresi dalla forza di questa opera. La conferma di un’artista che ancora incarna uno spirito musicale puro e vivido, sempre sul punto di implodere, capace di donare contrasti empatici, al pari della luna che, la notte, scivola leggera sulle onde.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Asobi Seksu: "Citrus" (Fire Friendly Recordings, 2006)



L’estetica shoegaze nell’ultimo decennio ha perlustrato diversi settori del panorama indie, quel riff tanto celestiale quanto angosciosamente noise è sbucato un po’ da tutti i pori, al punto da rigettare nel calderone tutti i suoi arditi  progenitori, come da buona consuetudine ciclica dei circuiti alternative di mezzo mondo.

Il riassorbimento “sognante” dell’ondata nostalgica di natura shoegaze-iana ha coinvolto prima i lidi del rock fino a dislocarsi gradualmente verso altre sponde: dall’electro-clash all’odierna cotta techno, stabilendo man mano una nuova metamorfosi nella più celebre contemplazione podistica del rock; in sostanza, è cresciuta la volontà di (ri)alzare lo sguardo verso l’alto attraverso melodiche dream-pop di collaudata propulsione.

In Oriente tale predisposizione non poteva che mietere nuovi e accanitissimi seguaci, sia per l’attrazione storica verso ogni forma di digressione celestiale, sia per le simpatie mai nascoste dell’universo sonoro propriamente jappo verso il modello gaze-iano.

"Citrus" è un po’ il piccolo "Treasure" di questa nuova trasposizione tecnica.

“Pink Cloud Tracing Paper” delinea in toto l’accorpamento smanioso dei singoli strumenti nella strutturazione media delle dodici tracce, accattivandolo come il vecchio lupo del bosco: l’ugola d’argento di Yuki Chikudate è in progressiva alternanza alle avance granitiche del basso, l’attitudine è sempre quella di deturpare la sfumatura d’accompagnamento con accordi lievemente tediosi, sovrapponendola al cantato paradisiaco attraverso un equo numero di decibel (“New Years”); nulla di nuovo sotto il sole, tutto già sentito, eppure l’incanto è sempre dietro l’angolo.

Il punto di forza degli Asobi Seksu è la variazione melodica in costante aggiornamento, un manierismo garbato, orientaleggiante, che struttura ogni singolo pezzo.

Niente è lasciato al caso, le svariate esplosioni di chitarra che si susseguono nella parte centrale della quasi totalità dei pezzi non hanno metodiche autoreferenziali, ma perseguono un incastro ben preciso all’interno del puzzle.

"Citrus" è zeppo di canzoni/caramelle capaci di addolcire gli animi, basti riascoltare fino alla saturazione completa “Thursday” per dare una svolta all’apatia di turno, all’intoppo del momento, alla noia del caso. Fantasiose contrazioni ritmiche si schiantano con forza quasi sferzante, con un tocco gentile (“Strawberries”), un piglio più ragionato, ma mai domo, ricopre ogni frangente di “Strings”, ancora ricolma di rumore tagliente. La capacità di personalizzare suoni ormai canonizzati, come già accennato in precedenza, è un valore aggiunto di questa band, le canzoni scorrono dirette, sincere, la banalità rifugge e non c’è ombra di ripetizioni. Perché se la cavalcata elettrica di “Red Sea”, con un finale sicuramente apprezzato dai fanatici del noise-rock, si colloca al limite del genere (lo shoegaze, s’era capito, no?), il pop sognante à-la The Glee Club (i fratelli sfortunati dei Cocteau Twins) di “Goodbye” crea interessanti collegamenti con la gloriosa ondata di cesellatori provenienti dal paradiso che perversavano nella realtà indipendente più o meno 15 anni fa.

Uno xilofono, celestiale nel suo suono tintinnante, si defila, arricchendo quella perla che è la seguente “Lions and Tigers”, ancora capace di incastrare nelle sue interiora suoni appena metabolizzati. Destabilizzazioni solenni sanno di vuoto e pienezza contemporaneamente, con un fare toccante (“Nefi+Girly”); svanisce lasciando una traccia quasi deflagrante la penultima, onirica, “Exotic Animal Paradise”. Il gelido senso d’angoscia che opprimeva l’ascoltatore scompare, come un soffio di vento scandaglia un mucchio di foglie, e conduce alla fine: una piccola goccia di spensieratezza (“Mizu Asobi”) spezza la melodia, e accompagna al silenzio.

Quei giorni lunghi e tristi che si creano attorno a una primavera incerta, si adattano quasi senza volerlo a un pugno di confessioni così sincero, i pensieri fluttuano, si disperdono, aderiscono a filastrocche mascherate da canzoni, decadenti come una chiara notte di luna.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Ppaoli