martedì 14 dicembre 2010

Darkstar: "North" (Hyperdub, 2010)



Per cosa potrà essere ricordato il 2010 negli anni a venire? Il ritorno prepotente di certe sonorità pop, profondamente plasmate da effettistica elettronica, è un indizio decisivo. Due eventi come gli esordi di Twin Shadow e The Hundred In The Hands sono esempi lampanti. Pur con le caratteristiche che li contraddistinguono, i due dischi hanno riesumato gli albori del synth-pop senza sfigurare o peccare in calligrafia, ma veleggiando su livelli di eccellenza sotto tutti i punti di vista. L'opera prima dei Darkstar si inserisce in questo contesto con prepotenza e risalto quanto meno equiparabile. Nonostante il lancio del disco assicurasse rivoluzioni in ambito dubstep, oltre a fantomatiche promesse di innovazione, “North” non è altro se non un bell'album di canzoni electro-pop. Spesso generare un'attesa smodata per un album può risultare controproducente, tuttavia la band sembra non averne risentito.

Un trio la cui genesi è un incontro londinese fra James Young e Aideen Whaley, ai quali nel 2010 s'è aggiunto il cantante James Buttery. Malinconico, ombroso, deturpato. Il suono non acquista un tono peculiare, ma assume progressivamente sfumature delicate, tonalità mai sgargianti, piuttosto opache. Una descrizione così netta e precisa rispecchia in modo pertinente il contesto in cui sono nate queste canzoni: Londra, città luminosa e tetra, folgorante e opprimente al tempo stesso, colma di caos e distrazioni. Mistici intrecci fra electro-wave (chi si ricorda di “Heat”?), electro-pop, commoventi linee pianistiche e un timido rantolo vocale.

L'opulenza di certe linee di synth risplende in un gioco di luci scurissime (foschi riflessi per “In The Wings”, atmosfere funeree in “Two Chords”, l'intro “In The Wings”), mentre l'assenza della voce non toglie un grammo di fascino a una musica stentorea (la marcetta zoppicante “Aidy's Girl Is A Computer”, la saturazione di bassi in “Ostkruez”). Dove un'ipotesi di ritmo vivacizza una cadenza tiepida (i complessi intrecci timbrici di “Gold”, le fredde folate di drum machine nella title track), l'opposto consta di placidi minimalismi (la lenta progressione di “Deadness”). La conclusione, ancor più trascinata e senza sussulti ritmici, conduce verso una versione profondamente personale e passionale del pop elettronico.

“Dear Heartbeat” e “When It's Gone” sono la perfetta chiosa per un album tagliente, ardente, manifesto di un rimestio di idee tale da generare attesa e trepidazione. Pur non essendo esattamente ciò di cui si chiacchierava, "North" mette in mostra una malia irresistibile, vette di lirismo autunnale e una forza interiore da scovare. Un perfetto sigillo da riesumare in solitudine, fra nebbie e pensieri polverosi.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 9 dicembre 2010

Matthew Herbert: "Recomposed - Mahler Symphony X" (Deutsche Grammophon, 2010)



A distanza di due anni, la Deutsche Grammophon torna sul luogo del delitto. Dopo il Bolero di Ravel (e altre composizioni) affidato al duo Carl Craig & Moritz Von Oswald con risultati eclatanti, questa volta tocca a Matthew Herbert rimaneggiare le partiture del compositore ceco Gustav Mahler. Herbert, dopo l'accoppiata “One Club”-”One One”, conclude il 2010 con questa avventura, al solito, molto ambiziosa.

Ascoltando il lavoro del britannico la prima cosa che balza all'orecchio è il toccante rispetto con cui mette le mani in un ambito così lontano dalle sue abituali frequentazioni. Nonostante l'esperienza maturata con la Matthew Herbert Big Band in materia di contaminazione fra generi lontanissimi, questa volta le sue capacità di arrangiatore e sopratutto il suo gusto vengono messi a dura prova. Mentre nel caso di Ravel e Mussorgsky l'operato era profondo e strutturale, raggiungendo vette di techno angelica e diluita, qui lo strumento utilizzato è il cesello. Infatti, l'abilità di Herbert giace nei piccoli interstizi, nella lieve distorsione dei toni, nel saper donare quel tocco di modernità a melodie profondamente radicate in un'epoca lontana. Non c'è una rivisitazione totale o uno stravolgimento, il segreto in questo caso è nascosto, fascinosamente misterioso, quasi impercettibile. L'intuizione del musicista sta nel condividere il genio con l'ascoltatore, il quale deve cogliere i rimaneggiamenti moderni attraverso un ascolto minuzioso. Altro particolare di tipo prettamente informativo riguarda la suddivisione in tracce: nonostante la registrazione sia unica e indivisibile, per motivi di pubblicazione su cd è stato necessario spezzare l'opera in nove movimenti.

La quiete dei primi passaggi è un abisso di classicità ammorbata, nel quale ricomposizioni ectoplasmiche prendono corpo per poi scomparire in un tripudio di squarci possenti. Tuttavia, con il passare dei minuti, l'andamento si fa più screziato, le oasi di silenzio e i rimbombi sono frequenti, le esplosioni di volume sono accentuate con tocco da gentiluomo. Il settimo movimento tocca il culmine di questa ascesa con un tourbillon di suoni accecante. L'inizio quieto ed etereo scorre impercettibilmente attraverso un'improvvisa cascata di ritmi e pulsazioni techno da lasciar basiti tanto è efficace e d'impatto. Un flusso disturbante, come un nastro in reverse impazzito, viene ripetutamente percosso da una sessione ritmica senza tregua. Capolavoro di trasfigurazione? Certo è che pochi artisti possono permettersi una cosa simile. Il meritato riposo si concretizza con le serafiche congiunzioni delle ultime due partiture, ombrose e oscure sinfonie decadenti.

La serie "Recomposed" offre spunti di discussione e stimoli inediti grazie a una proposta che può dividere o far discutere. Gli incalcolabili meriti in termine di ricerca e divulgazione sono attribuibili all'iniziativa della Deutsche Grammophon, che commissiona personalmente all'artista l'operazione e non viceversa. C'è da augurarsi che questo esperimento venga eseguito più e più volte anche in futuro; tale tipo di azzardi un po' blasfemi sono il sale della sperimentazione, e senza sperimentazione la musica potrebbe ridursi a un cumulo di stanca routine.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 6 dicembre 2010

D_rradio & Lianne Hall : "Making Spaces" (Sentence, 2010)



Britannici, provenienti da fulgida carriera a cavallo fra ambient e IDM, i D_rradio tentano una via inedita nell'incontro con la vocalist Lianne Hall. Un incrocio insolito quello fra l'autrice di un folk-rock decisamente classico e una formazione dedita a una sperimentazione elettronica talvolta ostica. Tuttavia, spesso la combinazione più inusuale conduce verso direzioni piacevoli. “Making Spaces” è infatti un album pop delizioso, frizzante, spesso inappuntabile. La qualità delle canzoni è mediamente buona, a tratti perfino eccellente.

Le componenti decisive nella riuscita di questo disco sono essenzialmente due: lo stato di grazia della cantante e la varietà delle soluzioni compositive. Sia che siamo davanti a bozzetti folk-pop appena screziati da polvere elettronica luccicante (frattaglie metalliche in “Dressing Up”, docilità e candore lo-fi per “Full On”) sia che ci approcciamo agli episodi più corposi (i ritmi eterei di “Underwater”, il refrain convulso in “Stormy Weather” e “Berling Winter”), la consapevolezza è quella di avere fra le mani materiale di qualità lampante. L'ugola di Liane Hall non è semplice decoro ma una partecipazione sentita, piena di passione, vigorosa. Le sue estensioni, il colore dei suoi acuti, la capacità di adattarsi fra toni lievi e squillanti è sorprendente. Chi ha adorato le magie dei migliori Laika non può rimanere indifferente davanti a questa voce.

Quando il ritmo si fa da parte rimanendo dormiente fra le quinte, ne escono fuori timidi quadretti ambient-pop che sanno di miracolo (“The Moral At The End” sembra una b-side dei dimenticati Antenne, le magiche intrusioni di chitarra nella title-track), fra cui si intromettono mid-tempo folk ben congegniati (la finale “Spring”, il beat azzeccato di “Up”).

Incapaci di trovare un difetto a un disco pregevole, nebuloso, che ben si adatta alle stagioni invernali, decretiamo la completa riuscita di un sodalizio inaspettato ma seducente. Convinti che la collaborazione possa proseguire con risultati perfino migliori di questi, assegniamo a “Making Spaces” un giudizio ben al di là della normalità in ambito electro-pop. Da scoprire e consumare con avida scrupolosità.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 28 novembre 2010

Killing Joke: "Absolute Dissent" (The Spinefarm Records, 2010)



I quattro cavalieri dell’apocalisse sono tornati. A ventotto anni dall’ultimo cataclisma rock in line-up completa, orfani del rimpianto Paul Raven - deceduto nel 2007 ed egregiamente sostituito dal bassista/produttore originale Martin "Youth" Glover - Coleman e soci scelgono, tanto per cambiare, il dissenso come fonte primaria delle loro ispirazioni. È un dissenso ovviamente assoluto, che non offre sconti, palesato alla stregua dei tempi perduti pur non disdegnando in alcuni momenti un approccio meno catartico.

Dal punto di vista strettamente produttivo, quello dei Killing Joke è davvero un ritorno in grande stile. Perché “Absolute Dissent” mostra tutto ciò che la band inglese ha raccolto in questi anni nei vari festival continentali, o meglio un coagulo di sconquassi hard-rock, derive delle scorie punk, metal e heavye heavy e finanche pulsazioni disco à-la Martin Gore (“European Super State”).

La miscela stilistica è senza dubbio nel complesso gradevole, considerata soprattutto la saggia alternanza stilistica dei pezzi. Ciononostante, i quattro sembrano crogiolarsi un po’ troppo nella propria insurrezione, pur non mancando quell’apprezzabile volontà di non sfigurare al lento ma inesorabile trascorrere del tempo. Eppure, lo scherzo sembra aver perso parte della sua letalità. Non a caso, il risultato è decisamente più convincente nei pochi momenti in cui la truppa pare allontanarsi dal primitivismo vandalico insito nel proprio dna musicale. Così, gli assalti frontali quali la stessa title track, la cruda “The Great Cull”, l‘irrequieta “Fresh Fever Frome The Skies” e la devastante “This World Hell” rispolverano quel catastrofismo alienato mai spentosi nell’animo di Coleman, senza tuttavia pungere più di tanto. L’assenza di partiture industrial realmente incisive, di inserti elettrici mistificatori e bassi dub in pompa magna (eccezion fatta per “Ghost Of Ladbroke Grove”) evidenzia da un lato un’ardita ma innocua compostezza thrash, dall’altro lato una ridotta istintività punk, frutto di una maggiore consapevolezza dei propri mezzi.

Il disco si nutre delle scorie punk, metal e heavy già accennate con efficace virulenza, mostrando tuttavia una preoccupante monotonia compositiva. L'impatto iniziale del disco, tutt'altro che anonimo, tende via via a scemare; la sensazione è quella di sentire la ripetizione di un canovaccio logoro e sfinito. Non c'è mistificazione, non c'è il tormento dark, non ci sono impennate o frangenti che di discostano; il pugno di ferro utilizzato alla fine si frantuma in mille piccoli pezzi. Star ad analizzare traccia per traccia, cercando di scovare anche un solo un motivo d'interesse è decisamente troppo anche per i Killing Joke. Stima, rispetto e mitizzazione non riescono a sobbarcarsi il peso necessario per oscurare le lacune di “Absolute Dissent”.

Le conclusioni potrebbero comprendere una banale bacchettata sulle mani nei riguardi di un ritorno stanco e superato, tuttavia riconosciamo al gruppo quantomeno una dignità di fondo ben evidente. Il disco non supera mai la sufficenza d'ufficio, ma non sprofonda in abissi di dubbio gusto, mantenendo quanto meno uno stile nel proporre una musica non eccelsa. Consigliato solo a fan e nostalgici della chitarra pesante.

(6)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Shed: "The Traveller" (Ostgut Ton, 2010)



Ci eravamo lasciati con Shed in un 2008 dominato dall'evento dubstep, stanchi e spossati da un trend che andava già autodistruggendosi, a causa del progressivo smarrimento di un obiettivo (forse) mai più ritrovato.

Renè Pawlowitz, in arte Shed, non si limita a cavalcare la scia ma la stravolge, mescolando gli elementi, spazzando via qualunquismi e luoghi comuni del genere, capace com'è di gestire una miriade di influenze senza risultare presuntuoso. Mentre in altri ambiti si provano continui numeri a effetto per ravvivare un interesse scemato, qui la soluzione di continuità con il passato è spontanea e necessaria. “The Traveller” è la naturale evoluzione dell'esordio, poiché le due opere vivono di un'osmosi reciproca che giova a entrambe grazie a un perfetto completamento delle rispettive peculiarità.

Il suono magmatico e opulento della musica di Shed è toccato dalla grazia di una passione che esula dai confini della normale amministrazione. Un suono techno così variegato, atavico, perfino viscerale, è generato per forza di cose da una mente profondamente calata nelle atmosfere che riesce a creare. Tanti sono gli elementi che contribuiscono ad avvicinare Shed a maestri come Carl Craig o Drexciya: il colore di suoni sempre più frizzanti e mai statici, la varietà dei ritmi, il campionario di melodie. Che a prevalere sia il lato più disteso e avviluppato o quello sfrenato e primordiale, la sensazione è quella di ascoltare qualcosa di realmente speciale.

Fra danze urbane nelle quali il battito perde la via del controllo (la morbosa “Keep Time”, i fraseggi da club di “My R-Class”, la struttura ritmica geniale di “Atmo - Action”), si inseriscono gemme a metà fra techno e ambient (la nebbia che avvolge “The Bot”, la leggiadria dei synth di “44a (Hard Wax Forever)”, la brumosa title track). L'intuizione cruciale per comprendere appieno un'opera come questa non consiste nel decifrare quale tendenza sia più accentuata, bensì nella capacità di cogliere particolari spesso decisivi. L'accoppiata “Mayday”-”No Way!” ne è un esempio: i due pezzi sono saturi di interstizi minuscoli, ricolmi di suoni impercettibili, battiti e timbri minuziosamente tagliuzzati e giustapposti con una precisione da vero perfezionista. Questa caratteristica, tratto distintivo di tutto “The Traveller”, richiede un ascolto attento e meticoloso. Trovato lo spazio per un'inconsueta saturazione dei synth (le accecanti fluorescenze di “Hdrtm”, le scale melodiche fascinose nella conclusiva “Leave Things”), l'album pone l'ultimo tassello con “Hello Bleep!”, un miracoloso alternarsi fra tastieroni ingombranti e un bagaglio ritmico impossibile da districare.

Confermando il parere ampiamente formulato per “Shedding The Past”, il microcosmo sonoro che Shed sta creando negli anni assomiglia a un progetto a lungo termine, che potrà condurre verso nuove, inimmaginabili sorprese. Vista la sostanziale perfezione di "The Traveller", i margini per un ulteriore miglioramento sembrano addirittura angusti, tuttavia continuando a scavare più a fondo nell'anima geniale di questo ragazzo si è certi di poter scoprire sempre qualcosa di davvero emozionante.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 21 novembre 2010

Olga Kouklaki: "Getalife" (The Perfect Kiss, 2008)



Era il 2006 e in una torrida estate usciva l'esordio omonimo dei Poni Hoax. Il disco conteneva il singolo bomba "Budapest", poi remixato più volte nel corso degli anni. In quella canzone la voce, vorticosa e piena di fascino, era di Olga Kouklaki.
All'incirica due anni dopo la bella fanciulla:



Torna in pista con un album nuovo di zecca, esordio e fantastico compendio di synth-pop imbastardito e teso. Senza concessioni ad una sola melodia banale, l'opera veleggia con classe in mezzo a un tripudio di beat elettronici magici. C'è il robot-pop di Kraftwerk, ci sono chitarrismi wave, c'è il trip-hop acido dei Massive Attack più arditi, si sente l'eco di una sensibilità da pista di cui l'artista va sicuramente fiera.

Fra singoli assassini ed afferatezze elettroniche (la splendida title-track, il techno-pop di "How Do You Feel"), trovano spazio strumentali adatti per una colonna sonora cyber-punk (l'eterea "Melted Torch", i rantoli vocali di "Calling You"), strutture complicatissime (riconoscere un pattern in "Be4 The Night Ends" è davvero arduo per chiunque) ed episodi di vero horror-pop ("Call Me Liar" è un abisso profondissimo). Il margine per ulteriori esperimenti non è esaurito, anzi, il riciclo dell'ispirazione porta nuova linfa; ascoltare altri esempi di perfezione techno-pop in "Right Shot" ma sopratutto "Her Own Right".

Non un momento di pausa (in mezzo c'è la silente "Ballade" e le saturazioni atmosferiche di "Afissos") fin quando ci accorgiamo della fine con la placida ballata "Pick Up Your Pieces".

Mi viene davvero difficile parlare di capolavoro, tuttavia le cose fuori posto in "Getalife" sono quasi impercettibili, mentre i lati positivi mettono, uno dopo l'altro, insieme i pezzi per un qualcosa di seriamente indimenticabile.

Da recuperare anche l'esordio dei Poni Hoax, che oltre al singolo già citato contiene dei pezzi irresistibili. Oltre a questo, sullo stesso filone mi viene da assimilare in modo quasi naturale l'esordio di Costanza, "Sonic Diary". Scoperta e lanciata da Tricky.

Mock & Toof: "Tuning Echoes" (Tiny Sticks Records, 2010)



Duncan Stump (Mock) e Nick Woolfson (Toof) sono due producer inglesi nel pieno della propria creatività elettronica. Già transitati per la Dfa di James Murphy mediante una serie di remix più o meno occasionali, questi due abili manipolatori del groove hanno ben pensato di esordire per un’etichetta propria, sguazzando liberi da qualsiasi potenziale classificazione o influenza esterna. Il loro parto, “Tuning Echoes”, è eversivo, solare, generoso, capace di meritare un posto in prima fila tra le uscite electro-pop più significative dell’anno.

I riferimenti, talmente chiari, quanto insignificanti ai nostri timpani, mostrano fin da subito una smodata passione per sua maestà Byrne e tutto il synth-pop inglese dei primi Ottanta dal ricamo tropicale facile, a partire dal Matt Johnson più etnico. “Tunig Echoes” è un disco in cui ogni singola traccia ha una sua seducente mutazione, ora giocattolo (“Mr Frown”) - alla stregua di un Super Mario che punta dritto al record di turno - ora purissima fluorescenza balearica punk-funk propria dei Talking Heads più assennati. Ma non solo. Nelle testoline mature di questi signori predomina un’aura magica irta di ricami e battiti organizzati con estro, a cui seguono improbabili pulsazioni plasticose inscenanti improvvisi thriller cibernetici (“Lovehearts”). Tuttavia, si evince un utilizzo analogico dei vari arnesi da intrattenimento sublimati in un iceberg di tastieroni circolari ad alta temperatura (“P2160”), quasi un omaggio all’eleganza e alla classe intrinseca del modello di riferimento.

La perfezione delle melodie pop a volte è sinceramente abbagliante (la malia di “Farewell To Wendo”, gli intricati controtempi di “Move Along” ), fra richiami disco e tropicalisti (le sciabolate scheletriche in “Shoeshine Boogie”, il beat di chitarra anni 70 di “The Key”) ed episodi più classici ma non per questo meno efficaci (la dolcissima “From Kashima”, synth-pop arioso per “Underwater”, rifrazioni robot-pop in “Norman's Eyes”). In questo ricco calderone scoppiettante trovano posto anche due strumentali dal fascino irresistibile (la lenta e serafica “Take Me Home” si contrappone ai frizzanti ritmi di “Day Ken Died”), a testimonianza di quanta energia e sforzo compositivo siano stati profusi per rendere il meno possibile ovvio e risaputo lo scorrere del disco.

Fresco, senza momenti morti, vivido, “Tuning Echoes” non perde mai un'occasione per piazzare la scelta giusta. Siamo di fronte a un'opera eterogenea, capace di esprimere l'animo dei propri autori, il quale si rivela in tutto il suo splendore fin dall'iniziale “Farewell To Wendo”, singolo il cui posto sarebbe in cima a tutte le classifiche. Non stiamo parlando di un capolavoro per una questione di millesimi.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

lunedì 15 novembre 2010

Gel-Sol: "K8ema" (Psychonavigation, 2010)



Solo superficialmente assimilabile allo stuolo di artisti archiviabili sotto l'etichetta IDM, Andre Reichel annovera una carriera di un certo rilievo. Componente dimissionario degli interessanti 302 Acid (chi si ricorda il loro splendido “Even Calls”?), negli anni ha continuato a pubblicare nuovi lavori con i due moniker a lui associati: Gel-Sol e Kid For Tomorrow. Se con il secondo ha esordito quest'anno con il brillante “Nequa” (prima un solo Ep nel 2007), il primo pseudonimo è attivo dal 2004. Fin da “Gel-Sol 1104” il suo stile è stato contraddistinto da un approccio interdisciplinare, sempre pronto a influenzare il suo background principale con intromissioni di ogni genere. Un mistico frullato di dark-ambient, IDM, isolazionismo, improvvisazione e un tocco di sana schizofrenia camaleontica.

“K8ema” è una landa ambient sorda, profondamente dispersa, desolata. Il ritmo si riduce a timidi battiti e non c'è mai un appiglio sicuro e rassicurante a cui fare affidamento. Si potrebbero tirare in ballo nomi altisonanti o generi di riferimento (kraut-rock, Aphex Twin, Orbital e uno spruzzo di Tangerine Dream), ma l'identità di questa musica fluisce naturalmente in blocco, senza permettere all'ascoltatore una definizione certa.

Tastierismi elegiaci incensano lo scorrere dell'album (la title track, la silente “The Mechanical Garden”), attorniati spesso da melodie oscure e sorde (i mistici rimbombi di “Spirit Guide”, riflessi psichedelici in “Glade”). L'uso di voci campionate aiuta a colorare le tracce, spesso donando una marcia in più decisiva, come nel caso di “Gel S'hole”, dove una nenia malsana viene magistralmente conclusa da un canto infantile collettivo di grande efficacia. E dopo un continuo stravolgimento di suoni, arriva la calma placida della finale “Last”, un classico crescendo cosmico un po' stagnante, ma tuttosommato apprezzabile.

C'è di che parlare nei confronti della carriera fin qui segnata da Andre Reichel. Questa sua ultima tappa è una dimostrazione di coerenza artistica e ispirazione mai doma. Un'opera se si vuole pure classica e un po' accademica, sicuramente settoriale, ma di un certo interesse e intensità compositiva. Una vera soddisfazione per chi ama emozioni sotto pelle e un velo di impercettibile sobrietà.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Titiyo: "Hidden" (Desport Records, 2010)



Nata a Stoccolma nel 1967, Titiyo imperversa sul mercato discografico svedese da circa venti anni. Raggiunto il successo precoce a inizio carriera con il singolo “Talking To The Man In The Moon” nel 1989 (piazzatosi al numero sei nella classifica di vendite), l'artista da quei giorni ha pubblicato ben cinque album, distribuiti con capillarità nel corso del tempo. La sua voce calda e versatile le ha permesso di esplorare territori fra i più svariati come l'r'n'b, l'europop, il trip-hop e il soul. Il suo ultimo “Hidden” è proprio un misto di tutto ciò, capace di mescolare profondità soul e incastri elettronici che non hanno identità ben definita, così calibrati e misurati fra synth-pop, downtempo e tenerezze distese in odor di ambient-pop.

Le prime tracce delle nove presenti risultano positive e approfondite (il bel ritmo agrodolce di “Awakening”, il soul sporcato in “Standby Beauty”, la placida “If Only Your Bed Could Cry”), mentre sul finire la qualità è decisamente altalenante, fra scelte azzeccate (il delicato bozzetto folk-pop “Longing For Lullabies”, i tribalismi acustici di “Drunken Gnome”) qualche idea confusa (“Stumble To Fall” è senza nerbo, “N.Y.” parte bene ma non prende mai il volo). La conclusiva “X” è uno splendido esempio di dream-pop soffuso e delicato, una semplice dimostrazione delle capacità di un'artista versatile e ispirata. Il disco soffre di una certa schizofrenia compositiva perfettamente compensata da alcuni numeri di alta scuola.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 27 settembre 2010

Boduf Songs: "This Alone Above All Else In Spit Of Everything" (2010, Kranky)



Giunto al quarto album sotto l'alias Boduf Songs, Mat Sweet non ha inteso abbandonare nemmeno in questa occasione l'isolamento creativo e l'essenzialità della strumentazione dalla quale le sue sofferte composizioni e il suo humming sussurrato vengono originariamente catturate.
Così come nell'omonimo debutto (corrispondente al demo che aveva fulminato i responsabili di casa Kranky) e nei due dischi successivi, anche il nuovo "This Alone Above All Else In Spite Of Everything" è nato nella stanza di Sweet a Southampton, con il solo ausilio tecnico di un microfono.
Eppure, il risultato finale del disco si mostra affare ben più complesso rispetto ai precedenti, non solo in quanto si colloca su una linea di progressivo affinamento sonoro in sede di post-produzione, ma soprattutto perché il percorso evolutivo dell'enigmatico artista inglese in questo lavoro giunge a un compimento di una sempre maggiore articolazione strumentale e varietà di registri espressivi.

Non si pensi tuttavia che Sweet abbia abbandonato le fosche sfumature della sua voce e delle ambientazioni sonore, né tanto meno la predilezione per testi aspri, cupi, allucinati. Tutt'altro, anzi questi tratti salienti del suo profilo artistico sono adesso supportati da un songwriting più fluido e indirizzato verso una più tangibile coesione melodica e, soprattutto, arricchiti da contesti sonori non più limitati alle elongazioni di note di chitarra e inserti elettronici casalinghi, ma comprendenti decise incursioni elettriche, nonché pianoforte, elettronica e ritmiche.
E proprio con una spettrale composizione per piano e voce si apre "This Alone Above All Else In Spite Of Everything"; non si tratta tuttavia dell'introduzione a un lavoro di ovattato intimismo, poiché le prime brusche scosse arrivano già nella successiva "Decapitation Blues", la liquida quiete del cui incipit a base di gentili tocchi di vibrafono viene squarciata da un'impetuosa irruzione elettrica, che la scaglia in un vortice incandescente, percorso da schegge rumoriste.

Una lentezza esasperante prende corpo e si materializza con dolce insolenza (le gocce di mestizia in "Absolutely Null And Utterly Void", sette minuti di pura rarefazione per "The Giant Umbilical Cord That Connects Your Brain To The Centre"), mentre in altri frangenti si scoprono lati finora nascosti, come l'estensione timbrica e tonale della voce di Mat ("I Have Decided To Pass Through Matter") o strutture fortemente innovative, capaci di proporre una sorta di goth-rock allucinato (le splendide chitarre sulfuree di "They Get On Slowly").
Oltre alle piccole differenze già citate in precedenza, rispetto al passato si percepisce un suono della chitarra più puro, cristallino, meno lo-fi. Questo elemento aiuta a far emergere la bellezza di un fingerpicking ispirato, non virtuoso ma scheletrico, visivamente maturato e cristallino. Gli sviluppi a partire dalla struttura di base, coadiuvati da una ricchezza di suoni inedita, sono la continua linfa di cui si nutre la musica di Boduf Songs, capace di rigenerare la propria cifra stilistica con rinnovata vitalità.

Siamo certamente di fronte a una proposta elitaria, per cui c'è bisogno di impegno e predisposizione. Tuttavia lo sforzo profuso per immergersi nel mondo sonoro di Boduf Songs viene ancora ripagato da sensazioni uniche, che confermano oggi tutte le impressione maturate durante i cinque anni trascorsi dal primo omonimo miracolo acustico, che diede l'abbrivio a un incanto che non cessa di turbare i nostri sogni.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

Boduf Songs




Il cantautore inglese Mat Sweet rappresenta una delle migliori tra le coeve produzioni di minimalismo dai toni sommessi, oscuri e avvolgenti, nel suo caso originati da non altro che da una sensibilità artistica tradotta in uno scarno songwriting e in ambientazioni sonore spoglie, ridotte all'essenzialità di una chitarra acustica, appena supportata da campionamenti o drone in lontananza


Schivo artista di Southampton, Mat Sweet non è semplicemente l'ennesimo affiliato al filone dei cantautori tristi e depressivi, né tanto meno il risultato di un'estetica musicale lo-fi studiata o costruita a tavolino, di quelle che negli ultimi anni riscuotono frequenti successi. Con il suo alter-ego Boduf Songs, dalla metà degli anni Duemila, Sweet rappresenta piuttosto una delle migliori tra le coeve produzioni di minimalismo dai toni sommessi, oscuri e avvolgenti, nel suo caso originati da non altro che da una sensibilità artistica tradotta in uno scarno songwriting e in ambientazioni sonore spoglie, ridotte all'essenzialità di una chitarra acustica, appena supportata da campionamenti o drone in lontananza.
Solitario e misterioso, per l'iniziale assenza di fotografie e informazioni biografiche, l'artista inglese si dimostra fin da subito assai ambizioso, visto che, da perfetto sconosciuto, invia il proprio primo demo a un'etichetta di grande tradizione quale la Kranky di Chicago. I nove bozzetti sonori in esso raccolti impressionano a tal punto i responsabili dell'etichetta da essere, di lì a poco, fedelmente tradotti nell'omonimo album di debutto, senza alcuna modifica, produzione o reincisione.
L'immediatezza lo-fi da "musica da cameretta" traspare tutta nella mezz'ora scarsa di durata di Boduf Songs, così come anche si intravede attraverso essa l'ambientazione nella quale l'album è stato creato, nell'intimo isolamento di un autore alle prese con la sua ispirazione e i pochi mezzi tecnici a disposizione, al riparo dal fin troppo banalmente immaginabile paesaggio grigio del sud dell'Inghilterra, tra alberi spogli battuti dal vento e una natura dai contorni aspri ma sublimi al tempo stesso. Gli stessi contorni presenta infatti la musica di Sweet, sospesa tra un approccio cantautorale degno del Kozelek più depresso e l'attitudine concettuale a un'asciutta psichedelia rurale, che intreccia oscure componenti elettroniche all'acusticità più cristallina, in ciò conseguendo un risultato di uno spessore forse mai più raggiunto dall'epoca di "Further" dei Flying Saucer Attack.



Lo scorrere del disco descrive un itinerario in una foresta maledetta, dall'atmosfera sempre più oscura e morbosa, incorniciata dalle note di una chitarra spartana, il cui puntiglioso incedere che sa di dolore e inquietudine, mentre un'elettronica tagliente sfigura i rari interludi di apparente dolcezza armonica.
Il viaggio di estenuante malinconia inizia con la toccante "Puke A Pitch Black Rainbow To": una nota di piano alimenta le ombre, una voce malandata sussurra la sua poesia, gelide folate elettroniche procurano un dolore persistente e piacevole al contempo.
La successiva "Claimant Reclaimed" è un ulteriore passo negli inferi, con un accordo di chitarra frenetico e incessante che viene ripetuto in maniera pedissequa, alternato con cambi di tono e con un lacerante strappo elettronico. Non mancano, tuttavia, intermezzi vagamente ambientali ("Our Canon Of Transportation") e stranianti mantra folk che disegnano un cielo color pece ("This One Is Cursed"). Mentre lo slow-folk di Sweet assume contorni più netti nelle timbriche mistiche di "Lost In Forests" e "Grains", piccoli squarci di luce e linearità melodica, seppure percorsi da prolungati silenzi, incursioni di drone e ondeggiamenti di un suono ferroso, stridente e completamente aritmico.
Boduf Songs non è un disco per animi felici, è un oblio di oscurità, fatto di litanie biascicate, indolenti arpeggi acustici e abrasive dissonanze; un'opera che sa di male e dolore, la narrazione di un universo intimo fantastico e misterioso, attraverso suoni che sanno essere delicati e sinuosi, ma più spesso scostanti e impervi.

Tra i tempi di invio del demo e quelli necessari alla pubblicazione ufficiale, Mat Sweet getta le basi per dare immediato seguito alla ruvidità casalinga del suo debutto. Avviene così che il seguente Lion Devours The Sun venga realizzato ad appena un anno di distanza dal primo album, alla pari del quale raccoglie nove brani ridotti all'osso, costruiti sull'iterazione di pochi, semplici accordi di chitarra, immersi in paesaggi sonori angoscianti, sospesi tra desolazione metropolitana e ascesi isolazionista. La voce di Sweet resta tenebrosa, pur protendendosi pervicacemente alla ricerca di esitanti melodie, in grado di bilanciare almeno in parte l'oscura inquietudine che ammanta tutto il lento fluire dell'album. Il risultato è ancora una volta un'apparente immobilità, che avvolge composizioni esili, di spietata introspezione, nelle quali un timido raggio di sole si affaccia a volte soltanto per enfatizzare il contrasto con un'invariabile malinconia, quasi mai peraltro sfociante in cupezza opprimente.

La discesa nella nuova spirale oscura di Lion Devours The Sun inizia con i battiti in lontananza e gli arpeggi ossessivi che introducono "Lord Of The Flies", sinistra ballata circolare nella quale la voce di Sweet, ridotta a poco di un sussurro, materializza da subito fantasmi e inquietanti visioni ("around your heart, dark wings beat") di una realtà marcia, generata da "seeds of death, lost, disease", mentre quasi incuranti scorrono limpide le poche note di una chitarra dall'austero sapore folk, unico e costante contraltare alle brumose atmosfere di tutto l'album. Qualora il mood non fosse già ben esplicato, "Two Across The South" provvede ad allargarne lo spettro musicale, introducendovi un incipit di distorsione ambientale sul quale si innestano sensazioni di sconfortato fatalismo (il primo e l'ultimo verso del brano sono: "I built a house from my mistakes"), mentre gli scheletrici arrangiamenti di "That Angel Was Pretty Lame" delineano flebili richiami alla scena dark-folk (in primis Current 93) attraverso metallici field recording e smembrati clangori. Elementi che si inglobano l'uno nell'altro e si ibridano progressivamente, esplodono, implodono, si strascicano per sei minuti abbondanti di estasi misteriosa.



Nel corso del lavoro i ritmi di esecuzione rallentano ulteriormente, che tuttavia non concedono un attimo di distensione, né un frangente in cui si manifesta una parvenza melodica; soltanto lentezza, timbri, o per meglio dire, sussurri, aneliti, schizzi di un quadro incompleto o semplicemente incompreso, che descrive la sofferenza che porta alla redenzione attraverso corposi drone e lamenti digitali ("Please Ache For Redemptive"). La conclusione spetta alla composizione più lunga e coraggiosa, "Bell For Harness": quasi dieci minuti di note cadenzate con estenuante calma, un'apparente pace compositiva, falcidiata dalla voce, un anelito incombente e continuo, progressivo, sempre in procinto di esplodere ma mai capace di concedersi. È questa la testimonianza estrema e tangibile di come nella fosca visione di Mat Sweet la speranza non sia contemplata e nemmeno necessaria, dispersa tra il compassato scorrere del brano e l'indolente, rassegnato mantra "is your last lonely drive?".
Opera dalle tonalità mutanti e paurose, eppure dense di un aspro calore umano, nella sua totale assenza di edulcorazione, Lion Devours The Sun offre una coerente testimonianza della schietta vitalità di Mat Sweet e della sua graduale crescita in termini di fluidità espressiva, verso il superamento del mero guscio lo-fi in favore di una scrittura, senza rinunciare alle fosche ambientazioni dell'esordio, le sviluppa secondo un'inquieta dimensione comunicativa.

L'itinerario artistico di Boduf Songs sembra dunque indirizzato verso una matura evoluzione in termini di cantautorato isolazionista, caratterizzato da atmosfere angosciose e stranianti, benché tendenzialmente più "pulite". L'ulteriore passo in questa direzione arriva a distanza di due anni, quando Mat Sweet torna a trasmettere dispacci sonori dalla sua solitaria dimora nella countryside più profonda, nel terzo lavoro How Shadows Chase The Balance.
La sensazione di isolamento è anzi accentuata, poiché per la realizzazione del disco Mat Sweet ha prediletto le ore notturne, con il dichiarato intento di ridurre al minimo i rumori di fondo delle registrazioni e con quello, consequenziale, di farsi circondare da un contesto ancor più intimo e raccolto, il cui silenzio riempire soltanto con compassate spirali acustiche e con il suo cantato tenebroso.

Tali presupposti generano, non a caso, un album dalle strutture, se possibile, ancora più scarnificate del solito, che vede Mat Sweet rielaborare gli elementi essenziali della sua musica, giustapponendoli per enfatizzarne i tratti più aspri, ora portati in primo piano, ora compressi per lasciare spazio a un'inedita indole melodica. Accanto alle abituali litanie al rallentatore, che introducono in una tetra temperie onirica, How Shadows Chase The Balance denota una graduale evoluzione verso una serie di approdi possibili. Le scarne componenti folk della musica di Boduf Songs si colorano, da un lato, di più lievi accenti acustici, che fanno capolino in vere e proprie canzoni dalla chitarra pulita e dalle melodie meglio delineate ("I Can't See A Thing In Here", "A Spirit Harness", "Last Glimmer On A Hill At Dusk"), dall'altro perdono i propri caratteri originari, assumendo una dimensione ritualistica in composizioni incrementali, che sfociano in mantra spettrali ("Don't forget to fall apart/ don't forget to come undone"), mai così prossimi a depressive sfumature gotiche.
Anche a fronte della generale, accresciuta sensibilità melodica, permane tuttavia sempre la costante di uno spirito dolente, esacerbato da una componente lo-fi qui più pulita che in passato, ma sempre tale da aggiungere efficacia tagliente alla cupezza repressa che promana da tutti i brani. A essere in parte mutata non è allora tanto la sensazione di sofferenza autentica e solo parzialmente esternata, quanto invece l'espressione, più piana e melodica, resa in qualche misura meglio fruibile attraverso una temperata destrutturazione sonora e una maturata capacità di scrittura, che testimonia la compiuta transizione cantautorale dell'enigmatico artista inglese.

Reduce da un tour e - a quanto pare - anche dall'inizio di una relazione con Jessica Bailiff, Mat Sweet perviene al quarto album, restando fedele all'isolamento creativo e all'essenzialità della strumentazione dalla quale le sue sofferte composizioni e il suo humming sussurrato vengono originariamente catturate. Anche This Alone Above All Else In Spite Of Everything vede dunque la luce in maniera casalinga, con il solo ausilio tecnico di un microfono; ciononostante, risulta ben più complesso rispetto ai predecessori, non solo in quanto si colloca su una linea di progressivo affinamento sonoro in sede di post-produzione, ma soprattutto perché il percorso evolutivo dell'enigmatico artista inglese giunge al compimento di una sempre maggiore articolazione strumentale e varietà di registri espressivi.
Sfumature fosche e testi di aspra allucinazione trovano adesso il supporto di un songwriting più fluido e melodicamente coeso e, soprattutto, sono arricchiti da contesti sonori non più limitati alle elongazioni di note di chitarra e inserti elettronici, ma comprendenti decise incursioni elettriche, nonché pianoforte, elettronica e ritmiche.
E proprio con una spettrale composizione per piano e voce si apre This Alone Above All Else In Spite Of Everything; non si tratta tuttavia dell'introduzione a un lavoro di ovattato intimismo, poiché le prime brusche scosse arrivano già nella successiva "Decapitation Blues", la liquida quiete del cui incipit a base di gentili tocchi di vibrafono viene squarciata da un'impetuosa irruzione elettrica, che la scaglia in un vortice incandescente, percorso da schegge rumoriste.

Una lentezza esasperante prende corpo e si materializza con dolce insolenza (le gocce di mestizia in "Absolutely Null And Utterly Void", sette minuti di pura rarefazione per "The Giant Umbilical Cord That Connects Your Brain To The Centre"), mentre in altri frangenti si scoprono lati finora nascosti, come l'estensione timbrica e tonale della voce di Mat ("I Have Decided To Pass Through Matter") o strutture fortemente innovative, capaci di proporre una sorta di goth-rock allucinato (le splendide chitarre sulfuree di "They Get On Slowly").
Oltre alle piccole differenze già citate in precedenza, rispetto al passato si percepisce un suono della chitarra più puro, cristallino, meno lo-fi. Questo elemento aiuta a far emergere la bellezza di un fingerpicking ispirato, non virtuoso ma scheletrico, visivamente maturato e cristallino.
Anche in questo caso si tratta di opera di non faclissimo approccio, che richiede impegno e dedizione per essere fruita nelle sue tante sfumature; eppure, ancora una volta, lo sforzo profuso per immergersi nel mondo sonoro di Boduf Songs viene ripagato da sensazioni uniche, che confermano ogni impressione maturata durante i cinque anni trascorsi dal primo omonimo miracolo acustico, che diede l'abbrivio a un incanto che non cessa di turbare i nostri sogni.

di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

10/09/20109 The Field @ Bologna, Estragon



Raggiunto un discreto successo dopo la pubblicazione di due album epici, The Field sbarca a Bologna in una tiepida serata di settembre. Nonostante la fama conquistata a suon di esibizioni la folla presente all'Estragon è decisamente esigua e indolente; infatti il concerto inizierà con più di un'ora di ritardo.

La presenza di una struttura tutto sommato da rock band, rende lo spettacolo decisamente differente da ciò che si può aspettare da un'artista elettronico. Basso e batteria sono il perfetto collante per amalgamare in maniera coerente tutto il groviglio di intelaiature elettroniche. Una scelta coraggiosa ma decisamente azzeccata, visto che il crescendo dei pezzi gode di straordinaria efficacia anche grazie al supporto di un comparto ritmico così corposo. Gli assoli sulle pelli da parte del percussionista donano una carica senza eguali ai rintocchi della drum-machine puntuale e chirurgica, rendendo il tutto una poltiglia dance atipica e godibile.

Pescando con giustificata parsimonia dalle due prove sin qui rilasciate, il terzetto sul palco propone una jam session senza pause, in bilico fra spirito da club e vigorosità rock. Prediligere la lunghezza dei brani rispetto alla quantità risulta un nodo cruciale dell'esibizione, grazie a ciò gli episodi guadagnano moltissimo e il pubblico è capace di gustare ogni singola variazione di battito. Dove il batterista si esalta con gesti più o meno da rocker vissuto, gli altri due sono taciti e timidi, eseguono il loro sporco mestiere senza proferire parola o interagire con il pubblico. Il loro atteggiamento rispecchia il più banale dei luoghi comuni riguardo i nordici: freddi, distaccati, inespressivi.
La scaletta, così omogenea e priva di vere e proprie pause (ad esclusione del bis finale), raggiunge vette di pathos incontenibile (“On The Ice” è un momento indimenticabile) dove la platea si scatena in un pogo più o meno esagitato, fra tripudi di sudore ed emozioni.

Una serata da ricordare per il divertimento genuino e la gustosa dimostrazione delle capacità infinite di questo artista. Uno spettacolo da non perdere, per ogni tipo di appassionato, sia esso tacito ascoltatore appartato o terribile animale da pista.

Sparkle In Grey & Tex La Homa (Blackfading Records, 2010)



Quando due esperienze, due vite e una coppia di menti si uniscono, il risultato è sempre un'incognita, un salto nel buio dopo il quale gioire oppure essere costretti a leccarsi le ferite.
L'incontro fra gli italiani Sparkle In Grey (all'attivo già l'ottimo “A Quiet Place”) e il cantatuore Matt Shaw, in arte Tex La Homa (il cui ultimo album è l'essenziale “Little Flashes Of Sunlight On A Cold Dark Sea”), è inusuale quanto genuino e vitale. La condivisione di uno split è un'operazione strana, trattandosi di un qualcosa a metà fra una collaborazione e due dischi solisti accorpati più o meno alla rinfusa, soluzione con cui è facile realizzare un prodotto di spersonalizzato e disomogeneo.

In questo caso, l'atmosfera chiaroscurale rappresenta il tratto comune a tutte le composizioni, tanto che, durante lo scorrere delle tracce, il passaggio fra un artista e l'altro risulta persino di difficile percezione. C'è comunità d'intenti - e lo si sente da ogni singola nota - fra le due lunghe partiture degli italiani e le più immediate istantanee dell'inglese. Per i primi, le sonorità acustiche (fra chitarra e violino) sono abilmente intrise di una veste malinconica e fascinosa, grazie a intrusioni elettroniche mai invasive, mentre Shaw gioca la carta della desolazione ambient disturbata, incantando con distese di synth glaciali (la magica “Dorchester Sunrise”) e percussioni giocose (la buffa giostrina di “To Home”).

Mentre gli Sparkle In Grey tessono trame elettro-acustiche di grazia inusitata, arrivando a usare la registrazione di una voce infantile (l'intreccio con il violino di "L'Innocence du Sommeil" è semplicemente incantevole), Shaw completa la sua opera con una brumosa partitura scorbutica (il piano squarciato di “Becoming”) e la finale, intima “Born On A Friday”, un commiato personale e toccante.

Impossibile da definire o da inquadrare, “Whale Heart, Whale Heart” tocca il cuore e stuzzica la mente con un misto di desolazione e sentimenti vividi. Ode alla musica disincatata e fuori dagli schemi, il disco sancisce la completa riuscita dell'unione di due artisti che sanno lasciare dietro di loro tracce indelebili.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 21 settembre 2010

Saycet: "Through The Window" (2010, Mvs)


SayCet è un progetto musicale e visuale che ruota intorno al compositore e produttore francese Pierre Lefeuvre, che propone un prodotto desueto e fuori moda. Commistione di ritmi e sensazioni ormai accantonati, la miscela sonora dell'artista transalpino costituisce una naturale congiunzione fra esperienze sognanti lontane ormai tre decenni e l'elettronica di taglio fine esplosa con tanto fragore una decina d'anni fa. Naturalmente non una formula inedita e in superficie pure ovvia, tuttavia i dodici pezzi presenti in "Through The Window" costituiscono un ottimo viatico per scoprire un microcosmo di confortevole serenità.

Nel bel mezzo della fioritura di mistiche nenie stellari, ritmi edulcorati e voci smorzate, la carta decisiva del progetto SayCet risiede nelle melodie. Nonostante l'ottima fattura delle decorazioni (sporcizia elettronica, drum machine, samples vari), a far emergere queste canzoni dalla pletora di opere simili sono i motivi portanti eseguiti volta per volta da vari elementi, tra i quali pianoforte, synth, voce e xilofono. Mentre in altri ambiti viene elogiata la ripetizione, la dissonanza e la cacofonia, qui (come del resto in ciascuna delle sottocategorie nelle quali si può ripartire il pop) la presenza di una struttura portante salda è fondamentale perché cattura i sensi, permettendo di focalizzare l'attenzione anche sugli altri particolari che in molti casi sarebbero ignorati. A ciò si aggiunge l'alternanza tra strumentali e cantati, a chiudere il cerchio con grande maestria.

Con coerenza e continuità si succedono marcette elettroniche indefinibili (l'iniziale "15", il magnifico crescendo di "Her Movie" e "Daddy Walks Under The Snow", che sembra quasi una b-side dei Lali Puna) ed episodi impalpabili, nei quali il cantato non altera di molto l'equilibrio generale (brividi commossi per "We Walk Fast", il calore lo-fi di "And Mama Said: It's Amazing", i battiti cupi della drum machine di "Opal").

Lefeuvre riserva tuttavia anche vere e proprie istantanee melodiche, nelle quali sono liquide componenti dreamy a prendere il sopravvento, incastonate su gentili tocchi di tastiere o saltuari impeti in crescendo: è il caso, ad esempio, della deliziosa "Easy", un sogno ad occhi aperti che la soffice voce di Phoene Somsavath trasforma in una ballata dai tempi dilatati, tra Cocteau Twins e Trespassers William, soltanto filtrata attraverso l'elettronica.

Sospiri sinuosi e melodie eteree sembrano infatti costituire il perfetto completamento delle fluide trame sintetiche dell'artista francese, impegnato a bilanciare folate elettroniche opalescenti con l'umanità la fragile e aggraziata che dà luogo a vere e proprie canzoni, quali anche "Bruyère" e "Sunday Morning". Segno evidente che sotteso al progetto SayCet non vi è solo l'intento di riecheggiare l'indietronica di stampo Morr Music affermatasi nell'ultimo decennio, ma soprattutto quello di trarre le mosse da quelle sonorità, ibridandole attraverso sentori dream-pop, abbracci ambient e accenni di cadenze idm, per dar luogo a una sentita formula di dream-tronica del terzo millennio, che nei tre quarti d'ora di "Through The Window" trova una sintesi equilibrata e di sicuro fascino.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

martedì 14 settembre 2010

Audio Bullys: "Higher Than Eiffel" (Cooking Vinyl, 2010)



Fin dai tempi di maestri come i Rage Against The Machine, il crossover è stato un filone abbastanza inflazionato, per quanto ricco di ispirazione. Successivamente caduto in disgrazia a livello di qualità e concretezza, si è smarrito in una miriade di formazioni attente più al mercato che ai risultati artistici.

Titolare di due discreti album di hip-hop a metà fra tentazioni urban-pop e violenza lirica ("Ego War" è il migliore), il duo Audio Bullys, che ha tratto origine da quella temperie stilistica, giunge al nuovo "Higher Than Eiffel" con immutato spirito di sperimentazione e sfrontatezza compositiva. Mentre in precedenza le radici hip-hop non erano sporcate quasi per nulla, in questo nuovo capitolo gli elementi sono innumerevoli: rock d'assalto, hip-hop, ritmi techno, pop. La durata ragguardevole, sviluppata lungo quattordici tracce, rende possibile lo svolgimento di queste idee in modo fluido e coeso. Il tutto è perfettamente condito da un'atmosfera vagamente scabra e violenta, che si distingue agevolmente, facendo pensare quasi alla colonna sonora per un film di fantascienza torbido e tormentato.

Mentre ritmi serrati scorrono inarrestabili (il riff incandescente e reiterato di "Only Man", i synth allo stesso tempo giocosi e ferrei di "Drums (On With The Story)", gli assalti techno-pop di "Feel Alright"), gli intervalli sono incentrati su episodi pop-rock niente affatto banali (il basso tellurico di "Twist Me Up", l'approccio brumoso e scuro di "Daisy Chains", perfetto incrocio fra fiati e percussioni  in "Dynamite"). Non c'è limite né timore di sbagliare il tiro, fra una versione stravolta dei Police (la finale "Goodbye"), gioielli di urban-pop (l'accoppiata "London Dreamer"-"The Future Belongs To Us" è davvero inappuntabile) e cadute di stile marginali ("Kiss The Sky" è un electro-clash che sa di già sentito).

"Higher Than Eifeel", oltre ad avere il merito di rilanciare un gruppo rimasto un po' in sordina, mette in ordine tanti tasselli con precisione certosina, rivitalizzando suoni ormai dimenticati. Un esempio di rara audacia e coraggio stilistico, tipico di chi ha ben presente ciò di cui è capace. Gli Audio Bullys sono fra questi fortunati.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 13 settembre 2010

Arandel: "In D" (Infinè, 2010)



Chi l'ha detto che la techno sia un affare per palati giovani e che la classica sia roba da vecchi con la pipa? Confinato in un alone di mistero, il progetto Arandel nasconde le proprie origini per far parlare di sé solo con la musica. Non sappiamo né il nome, né la provenienza dell’autore e questo poco importa al cospetto di un’opera così magica.
L’album danza con disinvoltura fra partiture oscure, mistiche, colme di passionalità e gusto melodico. Non c’è limite alle idee che sgorgano impetuose come il riflusso di un corso d’acqua impazzito: techno minimalista ottenebrante, voci e atmosfere al limite del dark, sperimentazione ambientale adornata da docili field recordings. Il risultato della mescolanza di così tanti ingredienti porta alla realizzazione di un cumulo informe, attraente, inusuale.

Si parla quindi di techno, di musica classica, di beat secco, ma anche di post-rock-glitch futurista, dub, e perchè no, di jazz e sperimentazione. Non un prodotto di facile catalogazione, perché intriso di profumi e influenze variegate. Nonostante l'elemento minimale sia preponderante, le decorazioni di contorno evidenziano riferimenti incrociati non omologati.
Le strutture ritmiche estrapolate dai capolavori di maestri come Basic Channel e finanche Riley, vengono introdotte da cori dal sapore dark/industrial, registrazioni concrete ed echi canterburiani, drappeggi modern classical e disfunzioni glitch. Questa copertura ad ampio spettro evidenzia una ricerca e una curiosità maniacale che conduce dalle parti di un formula non certo inedita ma perlomeno originale, non distante dalla rilettura del Bolero operata da Von Oswald e Craig.

Fra pattern di drum machine insistenti, solo solcati da alcune voci lontane (la delicatezza dell’iniziale “In D#1”, echi dub sognanti per “In D#5”) e strambe litanie funeree (“In D#6” non è distante dalla Islaja più gelida, “In D#10” e “In D#9” paiono uscite da un album free-folk con sfumature noir), prende spazio un largo uso degli archi, capaci di introdurre con grazia lo sviluppo immacolato delle trame ritmiche e melodiche (echi sci-fi alla Redshape per “In D#7”, la simbiosi fra le controparti nella fanfara “In D#3”). E mentre la restante “In D#8” scioglie iterazioni acquose, l’album vaga verso la conclusione con un fare aggraziato e rispettoso.

Oltre alla qualità delle intuizioni presenti, “In D” si distingue per la potenzialità di attrarre un ampio pubblico. Non troppo settoriale per essere di nicchia, la sua forza sta anche nell’attingere da vari stili e generi. Divoratori di techno e affini non saranno delusi ma piuttosto incuriositi da un album che non si fa riconoscere mai completamente per il suo essere multiforme e camaleontico.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini con collaborazione di Alberto Guidetti

lunedì 6 settembre 2010

Greie Gut Fraktion: "Baustelle" (Monika, 2010)



Le collaborazioni femminili hanno sempre ispirato AGF. A partire dal lontano “Before The Libretto” con le Lappatites, passando per ottimi dischi come i sodalizi con Zavoloka (“Nature Never Produces The Same Beat Twice”) e l’artista visiva Sue Costabile (“Mini Movies”), Antye ha sempre associato grande valore simbolico alle opere tutte al femminile. Questa volta è una sua conterranea a unirsi: Gudrun Bredemann. Componente principale di una delle migliori band della new-wave berlinese anni 80 (Malaria), la musicista si è riciclata egregiamente con lo pseudonimo Gudrun Gut. Autrice da diversi anni di un moderniato techno tutt’altro che trascurabile, la compositrice pare la perfetta spalla di AGF.

Nonostante venga mantenuto un certo appeal sperimentale, le due artiste lasciano andare fantasia e giocosità in un album solido e compatto. Si notano decise differenze rispetto all’ultimo lavoro di AGF e alla sua carriera solista in generale. Come avviene con gli album sotto il moniker AGF/DELAY, il ritmo è più regolare, preciso, monolitico, la ricerca di una forma perfetta di pop tecnologico è quasi viscerale e spasmodica e in ogni episodio si percepisce uno sforzo di idee che porta spesso dalle parti di un techno-pop disarticolato deciasmente poco ordinario. L’influenza della vena luciferina di Gudrun Gut condiziona il tutto, conferendo un tocco etereo e mistico ad alcuni pezzi, trasformati in una massa informe di suoni e voci.

Mentre le pulsazioni prendono il sopravvento (in “Wir Bauen Eien Neue Stadt” e “Mischmaschine” splendono pattern di drum-machine efferati), le quiescenti manie industrial sporcano non poco il normale incedere del disco (la nenia “Drilling An Ocean”, i riflessi metallici di “Betongiessen”, miasmi silenti per “Grossgrundbesitzer”). Le scosse dub fanno parte di un campionario di suoni mai domo (“Cutting Trees”, “Baustein”), al cui interno riesce a farsi spazio anche il proto-rock fittizio e imbestialito di “White Oak”.

Acclarata la serietà delle artiste, non si può che decretare l’ennesimo centro per AGF, la cui immancabile genialità sfuggente costituisce l'essenza di un progetto artistico che ha già offerto numerosi frutti. La sua arte sgorga da una filosofia di vita capace di sviscerare melodie da ogni spunto, creando sempre nuovi stimoli ed entusiasmi per lei e per gli ascoltatori.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

CliffordandCalix: "Lost Foundling 1999-2004" (Aperture, 2010)



Da una parte una delle più coraggiose e ispirate interpreti dell’elettronica d’avanguardia internazionale: Mira Calix. Dall’altra una leggenda del pionierismo ambientale anglosassone degli anni 90: Mark Clifford. Se le strabilianti prove di forza della ragazza sono storia recente e ben nota, le prodezze di Mark sono tutt’altro che celebrate. Fondatore e leader dei Seefeel, la sua fama non è mai stata proporzionata alla bellezza della musica proposta. Oltre alla curiosità per il risultato di un’unione artistica così insolita, la vera notizia per gli appassionati sta nel ritorno alla pubblicazione ufficiale dopo molti anni da parte di Clifford.

“Lost Foundling” raccoglie varie session, eseguite dalla coppia dopo vari incontri susseguitisi nel tempo, la cui collocazione diacronica è indicata dall’anno di produzione, posposto al titolo di ciascuna delle tracce. Il contenuto, nonostante l’ampio arco temporale, risulta compatto e senza uscite di pista poco coerenti. Le potenzialità di entrambi i musicisti sono ben amalgamate in un album che propone una perfetta mediazione fra ricerca in ambito melodico/ritmico e momenti di candore sonoro estatico, nei quali la voce della Calix è il contrappunto ideale per gli scenari più disparati. L’onnipresenza del cantato contribuisce a mitigare scenari spesso ostici, mentre l’alternanza fra stasi e caos aiuta a diluire il contenuto fino alla conclusione. In termini squisitamente tecnici, siamo dalle parti di un pop ambientale che mischia in un gran calderone disfunzioni glitch, chitarrismo sognante, tappeti ambient e noise.

La già accennata varietà di toni permette di alternare interpretazioni vocali irriconoscibili (il magma sonoro attorcigliato di “Someone Like Me” e “Dream Of You” ammanta la voce della Calix donandole incisività) con deliziosi acquerelli serafici (la splendida “You And I”, l’intreccio inestricabile di synth per “One 2 Far”). Mentre il tocco magico di Clifford alla chitarra si rivela in tutto il suo splendore  (la psichedelica sospesa nel vuoto di “Beethaven”, il dream-pop mistico in “He Promised It All”, la corrosione metallica di “In Her Room”), si susseguono qua e là ossessioni ritmiche (i tribalismi oscuri di “Myrie”, la drum-machine sostenuta di “Pull It A Part 1”), brevi scampoli di ambient malsana (“Cket”, “Mintle”, “Alkaline”) e strutture pop più riconoscibili (“To Stay Changed Forever” possiede un fascino tormentato rarissimo).

In questa sede, siamo dunque obbligati a plaudire il sodalizio di “Lost Foundling”, poiché riassume con lodevole sagacia compositiva le varie influenze dei due musicisti. Considerando che siamo di fronte soltanto a degli assaggi sparsi nell’arco di dieci anni, la curiosità di ascoltare una sessione di composizione intensiva è molto alta.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 13 luglio 2010

Crystal Castles: "Crystal Castles (II)" (Polydor, 2009)



L'applicazione della violenza “rock” (chiamata anche estetica punk) all'elettronica è pratica comune da decenni, a partire dalle escursioni industrial sin all'era dell'electro-clash. Non importa l'intensità con quale questa viene applicata, la cosa fondamentale è l'essenza delle sensazioni che fuoriescono da creature a tratti mostruosamente spigolose o maliarde come la musa più seducente.

I Crystal Castles hanno coraggiosamente riesumato questi suoni, affrontando una sfida molto rischiosa data la completa scomparsa di certa musica dal panorama contemporaneo. Oltre a una proposta pericolosamente al limite fra la presa in giro e una seria ricerca di qualcosa di “nuovo”, la fama di questo duo è stata alimentata dai concerti al fulmicotone che hanno infiammato i palchi di mezzo mondo. L'estrosità luciferina della cantante, unita a un fascino trasandato, ha contribuito ad attrarre pubblico e attenzione da parte della stampa specializzata. L'esordio omonimo ha infatti ottenuto un discreto successo e il suo contenuto è un mirabolante minestrone d'estetica dichiaratamente lo-fi, in cui confluiscono rimasugli punk, glitch, synth-pop e di 8-bit music. Il tutto ovviamente condito da un'interpretazione vocale fra il viscerale e il pazzoide; non c'è mediazione né misura, la chiave è esagerare, ma farlo senza superare il confine dell'edonismo fine a sé stesso. Sicuramente non una miscela adatta a tutti i palati ma decisamente interessante.

Un centro di tale portata ha permesso al duo la continuazione del proprio lavoro, conducendo a un seguito dopo circa tre anni. Ancora un titolo omonimo e un cambio di marcia abbastanza inaspettato. Dell'efferatezza a tratti quasi inaudita dell'esordio è rimasto solo il ricordo, mentre il battito spesso regolare conduce dalle parti di una disco-music distorta e contorta, perfino aliena. Non più urla lancinanti ma calde melodie vocali, le strutture elettroniche senza una regola apparente si distendono in trame sintetiche sostenute ma puntuali, quasi anestetizzate. La positività di questa soluzione stilistica è sorprendente, nonostante molti fan di primo pelo saranno delusi dalla mancanza di ferocia sonora. La riuscita dipende non tanto dall'approccio esteriore quanto dall'indole, la quale è rimasta intatta e trasuda passione tanto quanto nelle primissime canzoni ascoltate nel 2007.

Nonostante qualche rimasuglio di electro-punk abrasivo (l'iniziale “Fainting Spells”, la breve e concisa “Doe Deer”), il ritmo preciso e regolare la fa da padrone praticamente in ogni frangente. Dove un dance-pop con decisi ricordi eighties raggiunge il cuore dei più nostalgici (la candida “Celestica”, gli affreschi di techno-pop angelico in “Empathy” e “Suffocation”), un approccio leggermente più deciso conduce non molto lontano, mentre recupera la forza degli esordi (il canto assente di “Baptism”, i ritmi marci di “Year Of Silence”,  i synth squillanti di “Birds”).
La tendenza alla distensione strumentale, solamente solcata da qualche ricamo vocale, è una scelta usata molto spesso, sviluppando idee e intuizioni altrimenti impossibili da esprimere con la durata inchiodata intorno ai tre minuti. Le splendide policromie malsane di “Intimate” e “I Am Made Of Chalk” sono un fulgido esempio di questa scelta.

Un'opera che si pone a metà fra innovazione e fedeltà alle origini è un'importante evoluzione nel contesto di una carriera, la congiunzione con il lancio definitivo verso un futuro promettente. Questa seconda prova per i Crystal Castles rappresenta il perfetto sviluppo di un qualcosa di estremamente eccitante, una musica che può davvero condurre verso lidi inaspettati e riservare sorprese scottanti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 28 giugno 2010

Emilie Simon: "The Big Machine" (Barclay, 2009)



Dopo un secondo album più che buono, la bella Emilie Simon torna con una raccolta di inediti a distanza di tre anni. “Vegetal” possedeva un fascino irresistibile, così curato, fantasioso, mai banale. Ad accompagnamento della voce colorata trovavamo campionamenti fra i più disparati, una strumentazione variegata e molta fantasia. Nonostante in Italia non abbia avuto alcuna risonanza, il suo esempio di accessibilità coniugata con la ricerca è stato prezioso.

Questo “The Big Machine” segna un deciso passo indietro per quanto riguarda la peculiarità delle melodie e punta a un appeal decisamente più diretto, con ritmi, accordi e intrecci semplici. Pop pur sempre raffinato, ma non inedito. La sensazione è che la cantante abbia voluto attuare un'operazione di normalizzazione per tentare un minimo di approdo nel mercato internazionale. Il risultato non è del tutto riuscito anche se le va riconosciuta una certa capacità di scrittura. La voce è sempre la stessa, anche se alcuni isterismi di troppo (la pur discreta “Chinatown”) rovinano l'incanto di un'ugola che esprime il suo meglio nei toni pacati e meno incessanti.

Qualche magniloquenza fuori fuoco è eccessivamente edulcorata (le percussioni vagamente orientali di “Cycle”, i fiati e le estensioni vocali di “Devil At My Door”) compensata da episodi frizzanti e positivi (la splendida “Rocket To The Moon”, l'enfatica e movimentata “Rainbow”).
Nonostante l'interpretazione positiva delle canzoni in inglese, quando il francese riprende il sopravvento la magia è purissima (alcuni frangenti di “Fools Like Us”).

Nel complesso siamo in presenza di un'opera probabilmente interlocutoria, tuttavia la qualità c'è e le cadute di stile sono bilanciate da un talento mai oscurato completamente. Da recuperare “Vegetal”, e solo dopo questo, “The Big Machine”, per avere un quadro completo dell'artista.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Seabear: "We Built A Fire" (Morr Music, 2010)
















 Dopo le escursioni soliste del frontman Sindri Már Sigfússon (il carnevalesco progetto Sin Fang Bous), e a tre anni dall’esuberante e convincente “The Ghost That Carried Us Away”, la formazione islandese Seabear torna a farsi viva con un album nuovo di zecca.

Sorprendentemente distribuito anche in Italia (con accluso il godibilissimo Ep "While The Fire Dies"), grazie alla fama dell’etichetta Morr Music, “We Built A Fire” ripropone la mistura di folk-pop corale che caratterizzava l’esordio dei Seabear, tornando a rinfrescare con zampilli primaverili il panorama della musica indipendente. Benché non possa gridarsi al miracolo (così come non era possibile farlo in occasione dell’esordio) ogni nota sembra essere al proprio posto e le composizioni dei Seabear sono sempre pervase da una grande armonia melodica, dovuta al perfetto equilibrio e all’amalgama fra strumenti e voci, pur presentando spesso una velata asimmetria, tanto da non risultare mai troppo scontate o leziose. In particolare, nei pezzi più vicini all’estetica folk, la band riesce a esprimere al meglio la propria personalità, creando toccanti bozzetti bucolici, raffinati e asciutti (“Cold Summer”, “Leafmask”,  “Wooden Teeth”).

Canzoni pop che svettano in volo in un cielo violaceo, ritornelli fulminei e focosi, ritmi vulcanici o rilassati. Tutto ciò si ritrova in “We Built A Fire”: le melodie, a volte semplici e immediate, spesso aggrovigliate e tortuose, seducono con discrezione e lasciano una piacevole sensazione di torpore al loro sfumare. Non c'è monotonia alcuna nel tono generale del lavoro grazie ai numerosi cambi di marcia, spesso nell’ambito dello stesso brano (marcette solcate da trepidanti nenie folk, come in “Fire Dies Down”). Talvolta il tono si fa movimentato e allora è un tripudio di strumenti e voci (i cori che si inseguono in “Softship”, l'iniziale “Lion Face Boy”), mentre le pause melodiche divengono un bagno rigenerante di pace serafica (un piano e poco più per “Cold Summer”, la struggente “Warm Blood”).
L'uso della strumentazione orchestrale, già presente nel lavoro d’esordio, arricchisce la già notevole capacità armonica dei brani, regalando frangenti di assoluto nitore (uno su tutti, la parte centrale di “Cold Summer”).

Avvicinandosi a “We Built A Fire” è forte la sensazione di immergersi in un microcosmo sonoro a sé stante (così come accadeva anche nel solistico “Clangour”): il succedersi dei brani, l’alternarsi di ritmo e lentezza, di aperture melodiche e intimismi acustici ha il sapore di una favola a metà fra narrazioni fantasy e racconti folcloristici provenienti dal lontano nord.
Che ci si trovasse di fronte a ottimo artigianato folk-pop era già chiaro dall’esordio e questo lavoro ne è solo una nuova conferma. E, in un’epoca di produzione industriale e di gusti standardizzati, la presenza di lavori cesellati a mano, con cura, pazienza e tanto amore non può che essere salutata con gioia.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Francesco Amoroso

martedì 1 giugno 2010

The Bird And The Bee: "A Tribute To Daryl Hall And John Oates" (Blue Note, 2010)



In attesa del nuovo album, e reduci dal gioiellino dell'anno scorso (“Ray Guns Are Not Just The Future”), i The Bird And The Bee (Greg Kurstin, Inara George) rendono onore alle proprie fonti di ispirazione con il primo capitolo di questa serie commemorativa. In questo caso, la band in oggetto sono Daryl Hall & John Oates, storico duo che ha riversato per due decenni una musica pop garbata, lieve, decisamente chic.
I meccanismi collaudati all'interno della coppia ormai trasformano in oro ogni cosa, aggiornando le melodie e il tenore delle canzoni originali, donando freschezza e un tocco di brio a un materiale già validissimo in partenza. La sobrietà e la mano di Kurstin in sede di produzione e arrangiamento è coadiuvata dalla voce vellutata di Inara, cantante dotata di toni cristallini e vividi. Tutto è così quadrato, preciso e garbato che pare quasi casualmente deliziosa questa sensazione di perfezione che aleggia intorno a questi pezzi, di cui uno è un inedito, probabilmente anticipazione di un imminente nuovo disco. “Heard It On The Radio” è spumeggiante, gioiosa, il “solito” pop a cui ormai siamo abituati dai tempi della prova omonima del 2007.
Queste nove canzoni sono una lezione di gusto e misura in materia di cover.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 24 maggio 2010

Ikonika: "Contact, Love, Want, Have" (Hyperdub Records, 2010)



L'insolazione dubstep di questi anni ha prodotto innumerevoli variazioni decisamente interessanti. La londinese Sara Abdel-Hamid (nata da padre egiziano e madre filippina) propone una sapiente miscela di bassi gommosi, incastri techno e fantasia compositiva da veterana.

Nonostante una durata consistente i suoni scorrevoli deliziano con consistenza senza ripetere un solo pattern ritmico durante le quattordici tracce. Non c'è stasi fra inondazioni emotive (la melodia incantata di “Video Delays”, il synth giocoso in “Idiot” e “R.e.s.o.l”), anthem muscolari e decisi (la foschia agghiacciante di “Fish”, battere incessante per “Psoriasis”) ed episodi con peculiarità più electro (le tastiere distensive in “They Are All Losing The War”). Con l'aggiunta di convulsioni contorte al limite della sperimentazione (i frangenti arditi di “Millie”) il tutto sale di quota ed è davvero un bel sentire sotto tutti i fronti.

Non siamo in presenza di niente di veramente nuovo, non un'esposizione di capacità pioneristiche, ma una semplice collezione di partiture elettroniche composte con vera passione viscerale. Una simbiosi profonda lega l'artista e la sua musica, amore che riesce a trasmettere agli ascoltatori con un approccio diretto e loquace.

Questo “Contact, Love, Want, Have” è dimostrazione di grande maturità per una musicista che non si ferma alla superficie ma sorprende per impegno, approfondimento ed un encomiabile lavoro di ricerca sotto ogni punto di vista.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 18 maggio 2010

Mark Van Hoen: "Where Is The Truth" (City Centre Offices, 2010)



Pioniere di una musica a metà fra sperimentazione e suggestione, Mark Van Hoen è il classico musicista di culto capace di percorrere un'intera carriera lontano dai riflettori. Con alle spalle quasi venti anni di escursioni sonore (esordio nel lontano 1993), ha approfondito i vari suoni in voga con personalità e tocco da vero intenditore. Divagazioni techno assieme a Daren Seymour dei Seefel (Autocreation), acidità trip-hop dal sapore notturno (Scala, sempre con Seymour) e canzoni elettroniche soffuse con gusto amarognolo (Locust). A suo nome ha rilasciato tre splendidi album (il migliore è “Playing With Time”) marchiati da un afflato ambient che ricorda i fasti della 4AD per uno stile in bilico fra abbandono spaziale e sensibilità “pop”.

Dopo la pubblicazione dell'ultimo lavoro “The Warmth Inside You” nel 2004, la sua attività si è arenata, a esclusione di alcuni interventi in sede di produzione (“Ludwig” dei Velma e “Spoon & Rafter” dei Mojave 3 fra gli altri). Sei anni di silenzio sono serviti per mettere in cantiere nuovi stimoli e riproporre un modo di comporre sobrio, quasi obsoleto, autentico. Strutture melodiche intricate ma sviluppate senza confondere, ricchezza strumentale, uso della voce cristallino, echi e riflessi di stagioni in cui la fusione fra trip-hop e dream-pop era all'ordine del giorno. Un'atmosfera di puro incanto racchiude ogni singola canzone, la capacità di emozionare e sorprendere in egual misura è prerogativa sia dei frangenti strumentali che di quelli cantati.

Sintetizzatori vintage, nastri, registrazioni radio, percussioni e la voce di Hoen sono perfettamente in sintonia con le scintille della chitarra elettrica di Neil Halstead (Slowdive, Mojave 3) e i fraseggi del piano di Julia Frodahl. Una magica congiuntura di coesione ed empatia permette di fondere tutti questi elementi in una resa finale corposa, retrò, dai ricami finissimi e mai dispersiva.
È difficile dare una precisa collocazione a un album che mette in fila un ambient pastorale a metà fra Boards Of Canada e Kreidler (l'iniziale “Put My Trust In You”), trip-hop psichedelico e malsano (l'ombrosa title track) e la violenza elettrica di un industrial-pop senza pause (il beat marcio di “Your Voice”). Non c'è limite alle tonalità poste in essere sullo spartito ed è formidabile vedersi sedurre da una musica che è sfuggente e inafferrabile.

Una voce femminile e pochi rumori sinistri per episodi di magia inquieta (il dream-pop diluito “Photophone Call”, la ruggine nell'estasi oppiacea di “She's Selda” e “I Need Silence”) fanno da contraltare agli strumentali ariosi, ritmicamente incessanti, ben sviluppati e variegati (ossessione percussiva in “Render The Voice”, distensione kraut per “Beatiful”, esplosione di bit acquatici nella finale “Soyuz A”). Un tripudio di intensità e semplice ispirazione per tre quarti d'ora di indefinibile quanto unica immersione sonora.

L'uscita di “Where Is The Truth”, oltre a confermare la statura artistica di Hoen, deve essere un viatico per approfondire tutto l'ambiente che, intorno alla metà degli 90, ruotava attorno a figure come Mark Van Hoen, Mark Clifford e Sarah Peacock. Uomini e donne che di nascosto hanno trasfigurato musiche, tendenze e sensazioni con risultati da rivalutare assolutamente.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 10 maggio 2010

Alva Noto, 24/04/2010 @ Fosfeni, Cascina (PI)



Puntualmente come ogni anno, torniamo a commentare una data del festival di musica elettronica Fosfeni. Con un cartellone fortemente indirizzato verso glorie passate di grande rilievo (Cluster, Alvin Curran), la presenza di Alva Noto focalizza l'attenzione verso l'innovazione a cavallo fra musica, scienza e arti visive. Fra i più stimati compositori e musicisti in questo ambito, non si contano più le collaborazioni illustri a cui ha partecipato, come del resto sono innumerevoli i suoi meriti.

In una sala inaspettatamente gremita, il concerto sorprende per un impatto diretto, asciutto e molto fruibile. La durata contenuta dei pezzi eseguiti (estratti da “Unitxt”) contribuisce in maniera decisiva, peraltro coadiuvata da una presentazione impeccabile. In un contesto simile le immagini sono fondamentali perché aiutano a raggiungere un'immersione totale, la quale è necessaria per il completo godimento dello spettacolo. Tuttavia, spesso ciò che viene proiettato è completamente scollegato con i suoni e frutto di un narcisismo visivo fine a sé stesso. L'artista tedesco, da performer certosino qual'è, non cade in questo tranello e azzecca ogni incastro audio/visivo con precisione da professionista navigato. Un software appositamente creato manda in orbita dei visual ispirati da un'estetica vagamente futuristica, i pixel dal sapore cibernetico ipnotizzano l'ascoltatore e circondano i sensi in maniera avvolgente.

La musica non concede un millimetro di melodia senza esagerare in rumorismi, trovando un equilibro ammirabile ed estatico. Techno astratta la sua, contorniata da un mare di pulviscoli glitch glaciali, adagiata sopra un letto di ritmi e convulsioni malsane. Mai un tono fuori posto, né eccessi da registrare: siamo al cospetto di uno spettacolo a metà fra arte e scienza. Ed è proprio la componente scientifica che determina questa immacolata precisione esecutiva. Come per il ritorno dei Pan Sonic sul finire del 2009, Alva Noto conferma la sua statura e non da adito a critiche scolpendo suoni con naturalità genetica, dimostrando simbiosi con il pubblico e mettendo in piedi uno show senza pari.

L'unico appunto da sottolineare è la durata, nonostante non sia un concerto rock, un'ora scarsa (compreso un fugace ritorno sul palco dopo la conclusione) è davvero una miseria alla luce della qualità mostrata. Oltre a questo, un approccio distaccato con il pubblico non condiziona il giudizio finale, d'altronde siamo pur sempre al cospetto di un “professore” che nella sua attività si può permettere qualche peccato veniale senza deludere.

giovedì 8 aprile 2010

The Go Find: "Everybody Knows It's Gonna Happen Only Not Tonight" (2010, Morr Music)




Nonostante non abbia ottenuto il successo di pubblico avuto da Lali Puna e soci, The Go Find, con “Miami”, ha rilasciato uno degli album più caratteristici dell'era indie-tronica. Intervallato dal discreto “Stars On The Wall” del 2007, questo “Everybody Knows It's Gonna Happen Only Not Tonight” esce in sordina, anticipato da una promozione scarsa almeno in Italia.

Lasciate da parte trame elettroniche tipiche del genere, il ragazzo di Antwerp focalizza la sua attenzione artistica su un pop delicato e soffuso: melodie seducenti e appiccicose, giri di chitarra elementari, ritmi sostenuti da una batteria appena sfiorata. Nonostante le canzoni possano avere un certo fascino solare, il tutto risulta eccessivamente edulcorato e poco incisivo. Al momento di ascoltare ogni singolo episodio, si ha la sensazione di assistere a una vacua esposizione di scrittura falsamente sottotono ma mirata alla realizzazione di ritornelli facili da ricordare.

Dopo una manciata di pop-song un po' scipite ma d'effetto (la timida title track, il ritmo frizzante di “It's Automatic”), la normalità diviene una caratteristica comune praticamente a tutte le canzoni (la calma piatta di “Neighbourhood”, il poco nerbo in “One Hundred Percent”), intervallata da qualche sussulto da ricordare (la crepuscolare “Love Will Break Us Up”, le nebbie scure di “Just A Common Love”). Il vero marchio di fabbrica si percepisce solamente con la finale “Heart Of Gold”, dove uno splendido ritmo downtempo sostiene il cantato sussurrato. Un'occasione mancata o forse un eccesso di rarefazione, questa nuova uscita di Dieter Sermues risulta contraddittoria, altalenante qualitativamente, carente dal punto di vista della scrittura.

(5,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 29 marzo 2010

Notwist, 26/03/2010 @ Estragon, Bologna



In una tiepida serata d'inizio primavera, i Notwist celebrano il loro ritorno sulle scene con un tour europeo che ha toccato e toccherà tutta l'Europa centrale. L'uscita di “The Devil, You + Me” aveva scosso dal torpore i fan del gruppo che attendevano il seguito di “Neon Golden” da ben sei anni; l'annuncio di ben quattro date italiane ha contribuito ulteriormente ad accendere gli animi e incuriosito chi ha sempre desiderato ascoltare dal vivo gli splendidi ricami pop della band teutonica.

Mescolando passato e futuro, il gruppo propone un concerto solido, vario, emozionante. Non c'è concessione alla melodia facile, né un'esecuzione calligrafica delle canzoni, bensì una reinterpretazione personale e spiazzante. Code strumentali robuste, divagazioni al limite della cacofonia e spiazzanti momenti di intrecci chitarristici, rivelano le origini punk di un gruppo che è partito con due album hardcore figli dei fondamentali Hüsker Dü. Questa scelta di spersonalizzare l'appeal intimistico e racchiuso della canzoni originali per proporre un approccio aggressivo e sfrontato, non snatura l'assenza della loro musica, bensì fa decollare il concerto in un tripudio di emozioni. La forza espressiva assale con tale forza da permettere all'ascoltatore di entrare in completa empatia con ogni frangente.

La formazione è composta da sei musicisti fra cui ovviamente il corpo centrale della formazione: il cantante e chitarrista  Markus Acher, l'addetto agli aggeggi elettronici Martin Gretschmann e il bassista Micha Acher. A loro si aggiungono un batterista, un tastierista e un addetto allo xilofono. L'affiatamento reciproco si nota da subito ed è fantastico percepire la sintonia e l'intesa che c'è fra i componenti, tutto è così ben studiato da risultare simbiotica la perfezione con cui i vari compiti vengono svolti. L'aneddoto più divertente in termini puramente tecnici è la modalità di esecuzione di Martin Gretschmann, il quale genera flussi elettronici attraverso l'uso di due Wii Mote, i controller della console Nintendo Wii. Probabilmente questo artifizio è possibile grazie alla realizzazione di un oscillatore sensibile ai movimenti spaziali dei due satelliti, con i quali si riesce ad estrapolare suoni dalle tonalità varianti.

C'è spazio per l'emozionante incipit dell'ultimo album, eseguita con lodevole personalità (“Good Lies”), si canta con il cuore in gola uno dei pezzi più conosciuti, forse il punto più alto della loro carriera (“Pick Up The Phone”), per giungere alla splendida “Chemicals” (estratta da “Shrink”), un capolavoro di astrattismo elettronico e sensibilità pop. Effluvio di sensazioni scroscianti fra classici ormai diventati inni di un'era di disillusione (la toccante nenia “Gloomy Planets”, la psichedelia storta di “Neon Golden”), scosse telluriche condite da schizofrenia al limite di un dance-rock onirico (la tambureggiante “This Room”, l'ossessiva “On Planet Off”, singulti techno-pop in “Where In This World”), tenere carezze folk irrobustite da inserti ritmici (le gocce di melodia intimistica di “Sleep”, il gioiello pop “Boneless”). Sono solo dettagli se al cospetto di “Consequence” la commozione e ovvia e giustificata, l'ultima traccia di “Neon Golden” è anche fra le ultime  eseguite, chiosa ideale fra solfeggi di chitarra e singulti elettronici semplicemente immacolati.

La sensazione complessiva durante e dopo il concerto è quella di essere al cospetto di signori musicisti e non componenti di un'ondata modaiola di musica in voga per una sola stagione. La solida qualità del ritorno discografico, unita a un live che rasenta la perfezione sotto tutti i punti di vista, è prova della reale entità non solo del gruppo, ma di tutta l'ondata intorno al fenomeno dell'indie-tronica (compresa tutta l'elettronica non di genere uscita in quegli anni) che intasò il mercato discografico indipendente intorno al 2002.

martedì 9 marzo 2010

Voks: "Astra & Knyst" (2009, Dekorder)



L’album d’esordio del compositore danese Mikkel Moir è una piccola giostrina di suoni e minuscoli circuiti elettronici. Nato e cresciuto a Copenaghen, l'artista propone una manciata di composizioni decisamente inusuali e difficilmente definibili. La base della sua musica è una profonda immersione nel folk e dunque nel folklore di musiche che profumano di est, ma sanno essere cosmopolite ed eterogenee. La fusione di queste radici con un uso discreto dell'elettronica porta a fare paragoni con artisti come Zavoloka, alla luce del risultato trasversale. L'attitudine al ritmo forsennato ma delicato, quasi infantile, contribuisce a mischiare ulteriormente le carte, con un risultato a metà fra sperimentazione decostruzionista e pennellate pop.

Siamo dinanzi a un affresco vivace la cui estetica punta dritto a infantilismi folcloristici d’ogni sorta. Assistiamo a una brillante commedia il cui copione è costantemente triturato da burle acustiche, lanciate sul palcoscenico senza badare al suggeritore di turno, o a una tarantella moderna la cui ritmica assume andature birichine, collodiane. Imbattersi in dischi come “Astra & Knyst” equivale a farsi sedurre senza volere. Difatti, il paradosso immediato è che più ci si avvicina e più ci si rende conto di aver completamente fallito, immersi inconsciamente in un immaginario strumentale fuori dal coro, fuori dal tempo.

Ciò che traspare, fin dai primi rintocchi analogici, è un'attitudine virtuosa a intrecciare tele elettroniche di fattura volutamente grezza. Matrioske che danzano felici in qualche piazzale moscovita (“Kinak“, “Kreds“) o mere girandole di introiezioni elettriche di stampo circense (“Tonkmaskine”). Non vi sono pause. La corda gira, gira e conduce i sensi lontano da ogni forma di percezione visiva concreta, intuibile. L’ incanto è dover seguire questa scia di rumorini impazziti e lasciarsi cullare da tutta una serie incontrollata di tastierine psicotiche, che improvvisano ora inediti valzer (“Kakla“), ora coreografie naif apparentemente prive di uno schema precostituito (“Klap Dingdot”).

Banjo mandati in orbita con percussioni metalliche di contorno (“Astra”), organi elettronici che rimbalzano come palline nel flipper (“Krat”), nenie folk-troniche che richiamano i maestri del genere (“Pistol”), fra cui il giapponese Lullatone: non c'è limite alla fantasia, anche quando si spinge sull'acceleratore della sperimentazione (i loop arditi di “Tromle” e “Papirmekanik”, le chincaglierie stentoree nella conclusiva “Knyst”), mentre l'introduzione di suoni propriamente elettrici scuote il tono generalmente ovattato (la chitarra elettrica sclerotica in “Tonkmaskine”).

Siamo di fronte a un prodotto che affronta il tema della fusione fra strumenti acustici ed elettronici con ironia, inventiva e sfrontatezza. Fra umori infantili, sensazioni mitteleuropee e tentazioni avant, “Astra & Knyst” si merita un giudizio decisamente positivo, con la speranza che in futuro il suo autore sappia arricchire ulteriormente il suo teatrino sfavillante.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

martedì 2 marzo 2010

Nightmare Detective [Shinya Tsukamoto, 2006]



comprai il dvd di questo film a natale, rimasto purtroppo sullo scaffale per troppo tempo. ieri sera avevo voglia di una tsuka-ta e dunque mi ci sono messo.

mescolando esperienze passate con nuovi spunti, tsukamoto mette sul piatto nuove ossessioni e stereotipi da spuntare con puntualità certosina.

La trama:

: "All'apice della sua soddisfacente carriera, Keiko Kirishima, una giovane e avvenente detective, decide di farsi trasferire, passando dal lavoro dietro la scrivania alle investigazioni sul campo. Per Keiko, avvezza alla tranquillità della vita d'ufficio, l'impatto con la scena del crimine sarà tutt'altro che piacevole. Nel primo caso che le viene affidato, la giovane dovrà indagare su due suicidi avvenuti in condizioni misteriose. In entrambi i casi, le vittime sembrano essere state uccise in sogno e, sui loro cellulari, l'ultima chiamata era stata effettuata digitando il numero 0. Data la situazione, Keiko e suoi colleghi si vedono costretti a chiedere l'aiuto del Nightmare detective, un ragazzo affetto da forte depressione e con tendenze suicide, dotato però del dono di poter entrare nei sogni altrui."

La componente thriller, l'investigazione e la storia di per sè hanno uno sviluppo classico, lineare, quasi schematico. sono presenti le solite dicotomie care all'autore, come metallo-sangue che risalta in maniera particolare, città-uomo, l'uomo-psiche, la psiche-incubo e così via, tutto un accoppiamento utile per rappresentare l'ossessione di fondo che è lo scontro fra vita e morte.

il succo delle due ore abbondanti qua presenti è ciò che non si vede, o meglio, ciò che si vede ma è solo accennato. Il suicidio, viatico per la resurrezione e consapevolezza di vita, diventa strumento per mostrare le zone più recondite dell'animo umano. risulta straordinario come il registra giapponese riesca a plasmare l'essenza di un evento che sancisce la fine (la morte, appunto) portandola a elemento di rinascista. Le vittime non vogliono morire veramente, ma piuttosto "sentire" la morte per poter poi riprendere in mano la propria vita. una variazione del tema davvero stupefacente, fino all'apice dello scontro che sa di metafora freudiana, lo scontro fra "0" e il tormentato ragazzo che entra nei sogni delle persone.

non voglio anticipare niente perchè la visione è la soluzione migliore per penetrare nei temi del film (se ne può parlare dopo, ovviamente), posso solo anticipare che la scala cromatica è la solita fusione fra il freddo grigio della metropoli ansimante e i colori caldi dei flash-back narranti, mentre gli attori sono diretti con straordinaria fermezza e volutamente mostrano interpretazioni quasi apatiche.