lunedì 25 giugno 2007

Moskitoo: "Drape" (12k, 2007)



Proveniente dal Giappone, la nuova esordiente di casa 12k, propone un lavoro ispirato dal clima glaciale della sua terra di provenienza. Nata (nel 1978) e cresciuta precisamente a Sapporo, sotto la prefettura più a nord del paese, Hokkaido, Sanae Yamasaki, scorge la genesi del suo impegno artistico in una fantasia strumentale sorprendente. Con l’apporto del suo piccolo babaglio musicale, (chitarra, percussione metallica, un synth, drum-machine, qualche strumento giocattolo) compone melodie stilizzate e a tratti immateriali, di chiara ispirazione minimale, colme di vortici digitali e ideate con grande garbo e cura per i particolari. L’incontro che le permette di rendere concreto il suo più grande desiderio, poter pubblicare la sua musica e renderla disponibile al pubblico (“raccontare i propri sogni”), è quello con Taylor Deupree, capo della 12k, etichetta sui cui uscirà il disco. Da sempre attratto da sonorità provenienti dal Sol Levante, Deupreee, ha spesso accolto nel suo roster artisti giapponesi, fra cui ricordiamo con piacere Sawako, Gutevolk, Piana e Minamo. Ed ora si aggiunge pure Moskitoo.

“Drape” ricalca certe strutture ritmiche e timbriche tipiche degli artisti menzionati poco fa, infatti, le affinità con gli astrattismi concreti di Sawako e le strutture digitali del primo album di Piana (“Snow Bird”) sono molto forti, anche se in questo caso ciò che differenzia è l’approccio leggermente fuori dal tempo e dalle logiche. Se i frangenti completamente strumentali dischiudono un guscio di emozionalità per troppo tempo repressa, risultando scritti con impulso incontenibile, gli episodi in cui Sanae usa la sua voce (mai effettata), sprigionano una magia piena di fantasticherie e splendore, raggiungendo vette di fascinosità apparentemente senza limite. Da mettere in risalto altre due caratteristiche che possono risultare interessanti per sviscerare la natura in apparenza nascosta dell’arte di Moskitoo. L’attenzione per i suoni utilizzati, la porta anche a incamerare nelle sue composizioni un’infinità di campionamenti che, nonostante la loro irriconoscibilità, donano ad ogni canzone un incanto del tutto misterioso. La seconda precisazione, che può sempre avere un motivo d’interesse, è la sua passione per il disegno e le arti figurative. Una certa capacità astratta nel “disegnare” reticoli armonici è palese e sicuramente queste sue predisposizioni l’hanno aiutata nel raggiungere il risultato finale che giunge a noi.

La storia di “Drape” si svela con “Paddle”, una sorta di introduzione. Gemiti metallici, poi supportati da suoni acquatici di una bellezza purissima, si protraggono con la voce, timida, quasi appartata. Un piano, con le sue note sporadiche e con il capo chino, detta il tempo, poi distratto e deviato da alcuni strappi digitali, che conducono alla fine fra un gelido soffio di vento che sferza, e un caldo bagliore che indica la strada per “Skie”; ed è subito un incantesimo a vibrare. Uno xilofono, scende e suona, accompagnato da un schizzo che si sbizzarrisce in quanto a sviluppo creatività. Il tutto continua a srotolarsi con grande grazia; si aggiungono, con il passare dei secondi, la voce, piccoli singhiozzi e un estrosità garbata.

La successiva “De Sii?” è un minuscolo bozzetto che si racchiude in un ciclico rincorrersi di timbri ovattati, e impressiona per personalità compositiva, come “Manima No Lemon”, la logica prosecuzione decisamente più dilungata e contorta, con altri inserti vocali e trovate che denotano un estro invidiabile, anche per la grande presa progressiva di cui è intriso il pezzo, infatti, la partenza quasi silenziosa, deriva in una conclusione molto corposa ma pur sempre aggraziata.

Il connubio fra drones sintetici e gorgogli elettronici si rinnova con sorpresa nella corta “Tarantilla”, evidenziando, come negli episodi precedenti, una certa animosità inquieta nella musica di Moskitoo, sempre debitamente nascosta e celata da una patina di colore tenue, ma pur sempre presente, anche se difficile da scovare.

Le parole, ancora, come accennato in sede di presentazione, fanno dono di gioia e sincerità (“Terrier”), in un clamore di ispirazione ambientale e tradizione giapponese, i samples rurali di “Shaggy” hanno un che di amatoriale e rustico, perfettamente puntellati da un partitura di metallophone a tratti dissonante.

Avviandoci con grande velocità alla parte finale dell’opera, ci troviamo davanti uno dei momenti più sperimentali, visto che “Tip Toe Blues” recide la linea di apparente regolarità con cui era unita la prima metà, per tuffarsi nel rimestare di una melodia accartocciata e scomposta; la voce è completamente slegata dai suoni, e ciò porta a un lieve senso di disturbo che non fa altro che rendere più ricca la ricetta; infarcita com’è di tanti ingredienti sfiziosi. Soprattutto in questo caso, si possono intravedere future evoluzioni della musica di Moskitoo, magari distanti dagli standard glitch-pop e più vicina a certa avanguardia vocale di stampo europeo (AGF) ma anche giapponese (l’ultimo album di Tujiko Noriko). C’è poc’altro da fare se non dire che i vecchi amori, però, lasciano sempre il segno. Il tipico svolgimento di “Wham & Whammy”, che ricalca proprio lo stile della prima Tujiko Noriko, è irresistibile. Questo è puro glitch-pop, pieno di suoni microscopici e minuscoli, supportati da una fantasia fuori dal tempo, proveniente dall’indie-tronica classica, commutata dalla dolcezza giapponese, mai dimenticata, che non annoia mai. Il beat di drum-machine (questa volta dritta e precisa) e circondata da spruzzi di synth dai mille colori e sfumature, dal ritornello che ti si stampa in testa e ti ritrovi a cantarlo per ore.. :”Oh-Oh-Oh.. Don’t Never Wake Up..”. Desiderosi di conferme, ci lasciamo felicemente cullare dalla conclusiva “Watashi No Neml Tabi”, dove la voglia di sorprendere si completa con un lavoro su una stratificazione vocale, sempre accompagnato da un impalcatura ritmica di tutto rispetto e molto originale.

Senza dilungare quest’analisi approfondita, ci lasciamo mettendo in risalto la ricerca musicale della 12k e del suo creatore Taylor Deupree, capace di scovare talenti altrimenti destinati a rimanere nel loro mondo, incapaci di “raccontare i propri sogni”, e d’altronde, chi è capace di farlo con la musica non può che ottenere il nostro plauso.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 24 giugno 2007

The Bird And The Bee: s/t (Metro Blue, 2007)




La coppia di cui andremo a parlare, deve la propria nascita a Mike Andrews; produttore del disco solita della metà femminile, amico in comune che avvicina i due all’unione facendoli conoscere. La ragazza (Inara Gorge), registra il suo esordio menzionato poco fa (“All Rise”, una buona prova di pop colorato) nello studio di registrazione di Greg Kurstin, dove scoprono di condividere l’amore per le atmosfere jazz e la musica vagamente tropicale. Da qui la nascita dei The Bird And The Bee e del loro parto: fra le più positive uscite di pop frizzante ascoltate fino ad oggi, collocandosi sul confine fra vari approcci stilistici. I generi apprezzati da entrambi gli artisti, come già accennato poco sopra, si riversano con grande naturalità nelle canzoni qui presenti. Sensazioni con forte sapore crepuscolare, si mescolano con ritmi differenti e molto fantasiosi. L’elettronica, spesso utilizzata, supporta una sapiente precisione compositiva di stampo essenzialmente pop; un’attenzione alla produzione quasi maniacale non fa mai sfociare le melodie in banali motivetti scanzonati. Le influenze, appunto, abbondano. Si potrebbero citare gli Everything But The Girl più minimali o gli adorabili Ivy di “Apartment Life” giusto per rendere il quadro meno evanescente. Preme dire, comunque, che il materiale qui proposto si discosta dalla mera riproposizione di stanchi stilemi canzonettari ed anzi, spreme ogni possibilità del genere, ottenendo un risultato tutt’altro che trascurabile.

L’inizio è uno di quei momenti in cui un’opera ti dice subito chi è, e come vuole presentarsi. Nel nostro caso specifico, “Again & Again”, coincide con il migliore biglietto da visita che un gruppo può consegnarti. Una linea di tastiera, unita a un clapping forsennato, danno il via alla festa. La chitarra, il synth spumeggiante, la voce instancabile di Inara, tutti elementi che, messi insieme, danno corpo a una canzone pop perfetta; il tutto condensato in tre minuti scarsi.

Il piglio leggermente più posato di “Birds & The Bees” non snatura l’anima di questa musica, che sa adattarsi in modo molto coerente ad ogni tendenza timbrica che i due artisti vogliono imprimere. Elemento di importanza fondamentale è la voce, rivelando il grande potenziale espressivo di Inara, capace di variazioni tonali d’interpretazione molto positive, anche aiutata da alcuni filtri che modificano l’effetto sonoro delle sue parole. Da notare come la ricchezza strumentale non sfochi mai in qualcosa di “eccessivo”, i vari elementi sono stati dosati al punto giusto, ed anche se l’arrangiamento finale è molto corposo, non c’è mai aria di un passaggio a vuoto.

Ancora impronte fortemente elettroniche in “Fucking Boyfriend”, basata su una linea di tastiera, che delinea la struttura iniziale, poi rimpolpata da drum-machines, xilofoni e hand-clapping; quest’ultimo un elemento molto utilizzato anche nel proseguio, fino al termine. Storie di avventure amorose, filastrocche che paiono barzellette, forse non molto originali, ma supportate da un autoironia di sicuro valore, che farà storcere il naso ai più puristi, dove il limite del banale non viene mai sorpassato. Rimane comunque un’analisi esclusivamente testuale, non di carattere musicale.

Le dolcezze melodiche di “I’m A Broken Heart” sono di una purezza quasi ingenua, così delicate, protese verso l’ascoltatore più sensibile. La descrizione degli intrighi che si celano fra le intarsiature di questa musica è compito arduo, una cosa puramente soggettiva. Nell’attimo in cui “La La La” si presenta c’è da rimanere sorpresi; il collegamento con ciò che abbiamo detto per la traccia precedente è evidente: una vaga vena  di solennità riesce ad insinuarsi senza forzature; ed infatti ciò che otteniamo, è una coppia di composizioni che strappano la scena al silenzio con grande garbo e limpidezza. E ciò che accomuna questa parte centrale con la successiva “My Fair Lady” è proprio quest’aura angelica, che però, nel caso in esame, è leggermente più incentrata su sfumature più giocose.

Arrivati a questo punto siamo di fronte probabilmente al pezzo più bello del disco, “I Hate Camera”. Un simpaticissimo “Pa Pa Pa” è un campionamento vocale di soffusa genialità, supportato da un continuo cambio di ritmo, fra pause e improvvise partenze scandite da un suono elettronico: sono questi gli elementi di un ennesimo episodio riuscito. Da rimarcare ulteriormente la bellezza del campionamentovocale poc’anzi citato posto qua e la per i 3 minuti: una trovata veramente azzeccata.

L’incursione in un hip-hop tendente alla musica soul elettronica (altro punto a favore per la voce di Inara) regala emozioni di natura differente, a tal punto che “Because” sembra quasi un qualcosa di estraneo, senza peraltro perdere valore, visto che la realizzazione rimane precisa e mai fuori fuoco.

La penultima “Preparedness” ricorda i mitici Sneakster di “Pseudo-Nouveau/Fifty Fifty”, soprattutto per l’uso aggraziato della ritmica digitale, perfetto connubio fra dream-pop e tendenze sintetiche si riconciliano dopo quasi 10 anni di distanza. L’ultima, come la tradizione vuole, si scioglie in un lago di tenerezze melodiche: un ambient-pop che sprigiona la sua magia con un tocco fantasioso. Piccoli singulti digitali, folate che sanno di sogno, melodie che lasciano il segno; come solo i This Mortail Coil erano capaci di fare.

Un attimo per pensare dopo la fine. Cosa rimane di questo esordio? Racimoliamo una miriade indistinta di sensazioni che tramontano da un attimo all’altro, come fa il sole, si sperdono genuine e arrivano laddove piccoli cuoricini necessitano di vigore e rassicurazione, in un mondo in cui le certezze si disperdono facilmente e la bellezza scarseggia, nascosta e celata in uno scampolo sfuggente e prezioso come la mezz’ora abbondante di cui abbiamo appena parlato.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 17 giugno 2007

Comaneci: "Volcano" (Disasters By Choice, 2007)



Dall’autoproduzione all’uscita ufficiale il passo non sempre è breve e tanto meno agevole. Non lo è stato nemmeno per i Comaneci, terzetto ravennate che pure aveva ricevuto discrete attenzioni nel panorama indipendente italiano, ma che solo ora, a due anni di distanza dai suoi due Ep autoprodotti, trova la strada per il debutto con un album vero e proprio.

A tenere a battesimo discografico questa interessante realtà italiana è la Disasters By Choice, etichetta romana distintasi per produzioni in prevalenza elettroniche, ma la cui sensibilità è stata evidentemente colpita dall’efficacia della formula musicale di questa band, incentrata su trame di chitarra classica ed elettrica, alle quali il violoncello conferisce elegante classicità, accompagnando la voce dolce e suadente della cantante Francesca Amati.

È un’idea di grazia e perfezione formale, ispirata fin dalla scelta del proprio nome, a caratterizzare le composizioni della band ravennate. Tuttavia, le dodici tracce comprese in “Volcano” (le ultime tre delle quali estrapolate direttamente dagli Ep del 2005) non si fermano alla mera forma, poiché a una superficie quasi sempre levigata e sapientemente strutturata nei suoi semplici elementi, accostano ora passaggi di elegante morbidezza, ora un’emozionalità vibrante, supportata da un songwriting sobrio ed efficace, che perfettamente si attaglia alle doti interpretative della Amati che, al di là di qualche virtuosismo in chiave jazzy, costituisce un’autentica rivelazione, in grado com’è di riportare alla mente – senza con ciò parodiarle – fascinose icone del cantato al femminile, quali Cat Power e Hope Sandoval.

Il riuscito accostamento tra l’esile sobrietà delle poche note chitarristiche e l’omogeneità del suono del violoncello crea armonie dal registro cangiante, in bilico tra il leggiadro romanticismo di “Sweetness” e delle due “Nothing”, la spigolosa austerità di “You’re Liars” e la deliziosa coralità bucolica che in “Static” e “I’ll Be Back Soon” sembra svolgere al femminile le ballate dei Sodastream, rispetto ai quali può scorgersi una certa analogia di gusto e ispirazione, se non altro per il decisivo contributo di uno strumento classico (lì il basso, qui il violoncello) alla definizione del risultato artistico.

Le suadenti melodie classiche che si intrecciano in “House Mate”, accompagnate da una voce saltellante e a dir poco lucente, seducono e costringono all’ascolto; la magia, che pervade e si materializza in modi differenti in tutta l’opera, attornia “Know Me Down”, una splendida ballata sferzata da una sottile linea di disturbo che ricorda con grande forza i momenti più estatici dei Trespassers William. Docili sibili di sofferenza, gocce di felicità sorniona, prendono il largo in “Summer Hit”, episodio fra i più dissonanti ed energici, in cui viene palesata l’importanza decisiva del violoncello in questa musica. La seziona, la fa vivere e la rende speciale, come in “Zombie Dog”, un delizioso colloquio fra spiriti angelici.

Il trittico finale, cui si faceva riferimento in precedenza, si distingue in maniera particolare perché coeso, flebile e di sicuro impatto emotivo: “One Night”, tendente al country, accentua la risonanza della voce di Francesca, risultando efficace nella sua brevità istantanea, “I‘ll Back Soon” prende corpo con calma, in ragione della sua più durata lunga, e incanta con un progressivo e ciclico accordo di chitarra, spiazzando con una dissolvenza straniante ma non puntigliosa.

L’epilogo, coincidente con “I Didn’t Think The Same”, lascia un segno indelebile, un ricordo semplice e deciso, la speranza impressa a fuoco e tanta felicità nel cuore. La ricchezza strumentale, inoltre, regala atmosfere inedite e ben calibrate.

In definitiva, tirando le somme, “Volcano” si presenta scevro da difetti, personale, centrato e molto ben realizzato: un disco che potrà risultare di sicuro interesse ad appassionati di generi fra i più diversi e distanti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

Echoes Of The Whales: S/T (Disasters By Choice, 2007)



Le balene, animali di straordinaria bellezza, mastodonti dalla dolcezza sorniona, sono considerati, nell’immaginario di ogni individuo, animali quasi epici, che si stagliano fra le onde del fondale più sperduto. I loro suoni ricordano riverberi antichi, frequenze quasi estatiche, sospese in cielo; suoni che si disperdono nell’aria vagando incompresi, accarezzando le nuvole con un tocco quasi aggraziato.

L’idea dei musicisti coinvolti in questo progetto tutto italiano è stato proprio quello di riprodurre queste emozioni ed atmosfere attraverso la musica. I due referenti princiali sono Popolous, suoi due album di hip-hop molto -tronico su Morr Music, e Pierpaolo Leo, per anni invischiato nella sperimentazione più o meno avanguardistica di casa nostra. Ad aiutarli, altri due artisti abbastanza noti per chi scandaglia da qualche anno l’ambiente musicale underground nostrano, Stefano Pilia e Jukka Riverberi dei Giardini di Mirò.

Organi spettrali e divaganti, che gelano il sangue al solo accenno di una nota, chitarre dilungate, trattate per renderle pungenti, pulviscoli elettronici che paiono spruzzi d’acqua in un mare lontanissimo, melodie che appaiono all’orizzonte appena abbozzate, sotto un cielo azzurro come una carta lucida e splendente. Dieci composizioni che spaziano dal post-rock ambientale a là Yellow6, strizzano l’occhio a certa psichedelica vagamente acida, si lasciano avvolgere da una benevola influenza eterea.

L’inizio (“Nature Was The Ancient Mobilia”) mostra i suoi mille colori con una progressione che lascia impietriti, con una serie di dolci feedback chitarristici e un organo a tratti miracoloso, a tal punto che, se si ha l’ardito pensiero di immaginare, chiudendo gli occhi, si potranno disegnare fluttuanti arabeschi marini e un animale che, con un movimento circolare, vaga per le onde spensierato. Il maggior pregio di questa musica, appositamente ideata per liberare la fantasia, è proprio il senso di dispersione che si prova ascoltando, come se davvero fossimo immersi nell’armonia dei colori marittimi.

L’episodio successivo, “You Can’t Eat Your Fuel, But You Can Run On What You Eat”, è altrettanto emozionante e persino più realistico, capace, in che modo è inopportuno sapere, di ricreare il verso della balena con una fedeltà fuori dal comune. “A Bugs Militia” impressiona perché dissonante, mai monotona, addirittura in grado di cesellare il suono di un vero gruppetto di “insetti” che zampettano, “Humphrey, The Hippy Whale“ è infarcita da un organo profondo, drones gemellati con la stessa chitarra che impreziosirà tutta l’opera. “We Can Be Herons, Just For One Day” è un immediato quanto incisivo intreccio fra gli elementi già in precedenza citati, peraltro molto poveri e non sovraprodotti; si sente, soprattutto in questo caso, come la registrazione sia stata decisamente povera ed istintiva.

Uno dei frangenti più dilungati del disco (non più di  5 minuti), “Recycle And Die The Same”, sembra voler colorare, con un affresco variegato, i più profondi anfratti acquatici, con precisione e perizia; la splendida “The Little Orchestra Plays At Your Funeral” è un coeso esperimento fra spirali elettroniche e una chitarra che, mai come prima, si staglia solenne e sognante.

“Arctic Sunrise” è il resoconto dello spostamento di un branco di balene in zone più fredde e ostiche; la sensazione che si prova è di distaccamento emotivo, in questo caso i suoni sono disomogenei e senza apparente ordine, così spersi e sfuggenti, “Seeds Are Forever” è una composizione avvolgente, forse la più ricca e strutturata del disco; gli elementi, con lo scorrere dei secondi, si ibridano con sorprendente felicità e tinteggiano sfumature passionali e tipicamente vivide. La canzone finale, con un titolo tutt’altro che vago (“Earth Song”) è una conclusione perfetta, fatta di silenzi e attimi di sospensione.

Arrivando in sede di commento conclusivo, si può attestare senza timore, che, il mondo sottomarino, ha capacità sonore fuori dall’immaginazione umana; e così, con pochi elementi e tanta sapienza compositiva, si è riusciti a (ri)creare ciò che già c’era: un semplice tributo a uno dei cetacei più affascinanti e rappresentati nella storia dell’uomo, un capolavoro della biologia animale per bellezza e fattezze fisiche.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 10 giugno 2007

Kate Havnevik: "Melankton" (Continentica Records, 2006)















A volte il pop è come un bambino capriccioso che cerca di fuggire verso la propria dimora immaginaria, nascondendosi di scatto in qualche angolo remoto della casa, in cerca di un diversivo fantasioso che ne alteri la visione classica e la reale configurazione, fino a quando  l’eccesso ludico non  trasfiguri il tutto in qualcosa di snervante e compromettente; altre, invece, è semplicemente un fanciullo in cerca di se stesso, clamorosamente consapevole degli spazi personali e dell’intero circondario familiare, felice dei propri giocattoli, sempre attento a non deformare eccessivamente  le singole regole del gioco.

Se fosse un bimbo “Melankton” avrebbe entrambe queste due attitudini infantili (?). Un parallelo metaforico di intenti che forse ha turbato inconsapevolmente la bellissima Kate Havnevik durante le registrazioni di questo suo primo disco. Una volubilità compositiva che racchiude in sé anni di glicthosità  indipendenti e svenevolezze melodiche di stampo classico. Non è una caso che questa bellissima ragazza norvegese abbia preteso al suo capezzale la Bratislava Symphony Orchestra, con il compito oneroso di formalizzare la profumazione strumentale dell’opera, mentre è lei stessa a curarne i non facili incastri in regia, tra Oslo, Bratislava e Londra.

Prima di analizzare nel dettaglio i singoli pezzi è doverosa tale precisazione: Melankton non è il solito dischetto pop usa e getta di una ragazzina agli esordi, non è l’usuale stesura sbarazzina che imperversa tra gli scaffali dei mercatini domestici indie, facilmente accostabile al pop anni’80 o se volete anche ai ’90 rose e fiori, è tutt’altro. Difatti, esso ha già un posticino tutto suo nel cassetto segreto di quest’inizio millennio, magari in basso, nascosto da tutte le piccole luci del calderone monouso (e non solo), accovacciato con la stessa smania armonica del bambino di cui sopra.

Una manciata di melodie smaniosa di sorprendere con il suo tocco soffice e velato, intriso da un animo spalancato e protratto verso la bellezza, tremante di impazienza entusiastica; i colori, che si riversano impetuosi con lo scorrere delle canzoni, dipingono un immaginaria atmosfera eterea. Un piccola curiosità per gli amanti delle coincidenze: la produzione è stata affidata a Guy Sigsworth, compagno di Imogen Heap nei Frou Frou, formazione che spopolò qualche anno fa con il singolo “Breathe In”.

Le emozioni fluiscono sinuose con decisione, a partire dall’inizio, coincidente con “Unlike Me”, una perla che si fa notare a distanza per la sua lucentezza, impreziosita da una sezione d’archi sontuosa. Kate, già da subito, evidenzia una potenzialità vocale fuori dal comune, a metà fra il calore di una crooner jazz e una cantante soul. Inoltre, le sue variazioni cromatiche d’interpretazione si adattano ai contorni elettronici che spesso circondano gli episodi. Una scelta pericolosa, questa. Per evidenziare il valore di quest’opera, ci vengono in aiuto i tanti esempi di sperimentazioni elettroniche con l’apporto di apparati classici, che, con nostro dispiacere, spesso si invischiano in risultati di dubbio valore artistico. Ma come si sa, ci sono anche le eccezioni. “Melankton” lo è senza dubbio, perché, se dal punto di vista vocale è coraggioso e sufficientemente positivo, da quello compositivo non lascia scampo. Gli intrecci fra isterismi elettronici, avvolgenti partiture di orchestra e storie smorzate dal vento, combinano un risultato sorprendente.

I contrappunti solisti di piano, danno il via a “Don’t Know You”, che recita :”I know the stars, falling from the sky, falling for you… And I know the wind, combing your hair, caressing your chin.. but I don’t know you, will show me, who you are?”. Affreschi di poesia autunnale, che danno sfogo a violenti mutamenti personali, schiantati da un battere ripetitivo di un oggetto sconosciuto, in cui, gli interventi di un fiato scordato, mostrano un misterioso fascino decadente.

Un tumulto simile al vento imbastice un altro sogno fatto musica (“Not Fair”), componendo i ricordi con l’ausilio della disperazione, gocce di malinconia confluiscono e scendono dal cielo, come un paracadute desiderato che si libra fra le nuvole (“You’re like a parachute descending from the sky”, “Nowhere Warm”).

Parole che sanno di dispersione onirica in “You Again” (“I can’t go anywhere, without feeling strange, i can’t see anyone, everything has changed”), contorniate da suoni plastici, che rimbalzano con risolutezza; fra un fiato poco credibile e flussi elettronici divertenti, è inevitabile un’ubriacatura di dolcezza per l’ascoltatore.

L’esplosione di una brezza, a tratti appena percettibile, si materializza in “Serpentine”, ancora più infarcita di movimenti operistici, in particolare un violino, gelido e preciso, si presenta con puntualità chirurgica, mai lasciato a sé stesso, né passivo, ma accompagnato da complesse intarsiature melodiche. La successiva “Kaleidoscope” è forse l’episodio che più di tutti riassume l’essenza della musica di Kate: ancora archi, magistralmente dosati con sapienza, una voce che riverbera tremolante come le onde sciabordano, un armamentario elettronico che chiama a testimoniare scene apparentemente assenti come il down-tempo e il trip-hop, dimostrandone, se ce n’era bisogno, la valenza assoluta tutt’oggi. Da non dimenticare le seguenti parole :”You cut me out in little stars, and place me in the sky. [...] A tingle travels up my spine, a cluster of colours and twine, as we melt into wine”.

“Sleepless” potrebbe causare un attacco di invidia nel Sylvian degli alveari segreti: l’andatura Sakamotiana ricorda le digressioni celesti che accompagnavano i turbamenti drammatici del Capitano Yonoi. “Suckerlove” racconta un amore malato e tormentato, fra riflessioni intricate e incertezze impertinenti, “Se Meg” si dichiara come un episodio avant-pop in cui la componente elettronica sparisce completamente per dar spazio ad ariose partiture d’archi; la voce cristallina, come mai la si poteva ammirare all’interno del disco, si dilata estremamente, con punte di purezza angeliche. I sentori di una progressiva scarnificazione della struttura portante appena evidenziata, viene ribadita, o relegata al termine del disco. Infatti, “Someday”, con il suo fare fascinoso, punta tutto su un andamento comandato dall’orchestra e dalle parole, esaltando elementi in precedenza leggermente offuscati, come la presenza di una batteria di percussioni, o certe espressioni diluite della voce di Kate.

L’atto conclusivo di questa splendida opera, spetta a “New Day”, sette minuti di oscurità color ocra che sembrano levarsi lentamente, senza alcuna coscienza delle sensazioni che si sollevano in chi, per la prima volta, si accinge all’ascolto. Un lavoro di raffinatura elettronica di rara precisione e perizia: singulti ritmici si sbriciolano insieme a una sporcizia sonora che pare una musica glitch edulcorata, note di tastiera si rincorrono con la scia dietro le spalle, attimi di panico dipinti con un loop vocale, danno un tocco oscuro agli ultimi secondi di musica.

E dopo la fine, si può far fronte a un’ultima riflessione. Lo schiudersi dei fiori è la nascita della vita, l’esordio di una cantante è il principio di un sogno; realizzarlo ha un duplice significato rispetto al soggetto che lo impersonifica: soddisfazione e gratificazione artistica per chi scrive le canzoni, incanto e felicità strabordante per chi ascolta. Lei, già da ora, ha compiuto in pieno le sue fantasie, noi, da ascoltatori innamorati, speriamo che l’incanto non finisca mai.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli