lunedì 30 luglio 2007

Keren Ann: s/t (Metro Blue, 2007)
















A due anni esatti dalla buona prova offerta in “Nolita”, riemerge l’oscura malinconia della chansonnier dalla vita errante, in continua simbiosi tra limpido songwriting cantautoriale e inclinazioni che attingono dal jazz, dal rock e - ancora una volta - dai tradizionalismi francesi.

Ed è subito meraviglia, sia chiaro. Mai come prima, Keren Ann si lascia ispirare da suggestioni più ampie che guardano sì a Joni Mitchell, all’inevitabile Gainsbourg e Françoise Hardy, altresì alle orchestrazioni di ampio respiro à-la Yann Tiersen, ai saliscendi emozionali di Canterbury e ai minimalismi di richiamo Eno/Glass.

E’ una grazia discreta, quella di queste nove tracce, che risiede sempre nell’equilibrio tra la splendida voce di Keren e arrangiamenti curati al dettaglio, che spesso danno vita ad atmosfere vaporose e decisamente senza tempo nel quale è incantevole perdersi.

Prendiamo “The Harder Ships Of The World”, con il suo lunatico incedere del pianoforte, pochi tocchi impressionistici e spiritati, che completano una melodia perlopiù dominata da una chitarra acustica, qualche rara percussione e sottili aliti di synth, che risuonano lontani e impalpabili. Di fronte a tale incanto, ci si limita in silenzio a sognare, a ripercorrere con la mente antiche suggestioni e idee che riportano al Mark Hollis solista.

Applausi a scena aperta, dunque. Che vanno replicati nella litania dolciastra di “Where No Endings End”, fascino tierseniano e strascicato, gracile voce da batticuore e risultato che non va così lontano dalla "Madama Tristezza" di Matt Elliott.

Poi arriva “Liberty” ed è il bignami della mestizia di Keren Ann; poco meno di 6 minuti per farsi coccolare dai bisbigli garbati e irresistibili della voce, cori angelici che fanno il verso alle incursioni di Robert Wyatt, un incedere zuccherino della mano sul pianoforte, il saltellare sulle note alte incanta con eleganza. Il glockenspiel e la chitarra acustica tengono il passo, con il cuore messo alle strette un’altra volta.

Lo sviluppo dell’iniziale “It’s All A Lie” schianta l’ascoltatore con un malumore deviato, distorto, doloroso e latente; gli spettri sonori che abitano le profondità di questa composizione hanno del paranormale: una costante ansia sonora pervade ogni singolo secondo della canzone. Elementi essenziali, distratti e scheletrici: un lieve battito di percussione è solcato dalla chitarra elettrica; questa, sì, capace di lasciare fendenti sicuri e laceranti, accompagnati da un’interpretazione fra le migliori offerte da Keren nella sua carriera.

Negli episodi descritti poco sopra, si evidenzia uno sviluppo in crescendo dello stile compositivo di Keren; il tutto, ovviamente incentrato sulle sue doti canore fuori dal comune.

Keren si contorce in sinuosi intrecci melodici che hanno del miracoloso, soprattutto per la loro essenzialità: ne è un esempio “Let Your Head Down”. Una fisarmonica polverosa, accompagnata da un hand-clapping azzeccatissimo, mettono in piedi una filastrocca luciferina ed emozionante; l’avvento della componente percussionistica non fa che accentuare il pathos. La parte centrale implode in un’orgia di suoni e rumori aggraziati, collassando poi in un finale dalle sembianze spirituali.

Non c’è da stupirsi se davanti alle gracili intarsiature di “In Your Back” si rimarrà completamente attratti, sedotti, per poi essere lasciati, miseramente, senza un briciolo di compassione. Il timido accenno elettronico (un synth) pare una ragnatela magicamente disegnata da una matita nel cielo, supportata da una struttura tutt’altro che banale; ancora incertezze ritmiche, mai sopra le righe né eccessive: questa attenzione nell’arrangiamento mai ingombrante evidenzia un’attenzione certosina nel dosare i vari ingredienti.

Il rock si presenta prepotente e corrosivo nel frangente più aggressivo del disco, “In Ain’t No Crime”. Un pugno nello stomaco, senza fronzoli o ricami. Lo scalpitare regolare e ciclico della chitarra è perfettamente incastrato con la batteria, precisa e puntuale; la voce, con una resa povera e quasi radiofonica, bestemmia con rabbia la propria inquietudine.

Avvicinandosi al commiato, i toni si fanno leggermente più ariosi e meno secchi. Ne è dimostrazione di ciò la penultima “Between The Flatland And The Caspian Sea”, con un andamento più ad ampia fruizione, con un piglio dalle sembianze country, così disimpegnato e disciolto in una melodia diligente, ma mai scontata. Una maggiore ricchezza strumentale non inficia l’atmosfera generale, e, anzi, aggiunge maggiori spunti di riflessione. Il coro conclusivo, così congiunto e accorato, si distingue per il grande garbo; una musica che si rivela empatica e dissonante al tempo stesso.

Giunti all’ultima traccia, un po’ tutti i lettori, avranno già in mente cosa aspettarsi: una canzone dai tratti soffusi e vagamente malinconici, con un tocco di pessimismo appena accennato. Certo, non ci sarebbe niente di male in ciò, e sarebbe giustamente accolto e approvato con entusiasmo. Invece, la sorpresa è dietro l’angolo, visto che “Caspia” è un episodio molto contorto, che produce un effetto decisamente inusitato sull’ascoltatore. Singulti elettronici si mescolano con trovate ritmiche di grande levatura; le chitarre (una acustica, l’altra elettrica) miscelano note puntigliose in perfetta armonia con la catastrofe sintetica che le circonda. La voce, solo dopo qualche manciata di secondi, decide di fare un timido capolino con un delizioso :”La La La… La La La”. Fra voci orrorifiche (quasi al limite di certa dark-ambient) e alcuni xilofoni distrutti, si sfuma progressivamente verso il silenzio.

Aggiungendo sommessamente Keren Ann al novero delle cantautrici più ingiustamente sottovalutate del momento, decidiamo di candidare questo album come il migliore della sua carriera, forse perché è il più toccante, forse perché c’è sembrato giusto rilanciarla proprio ora, magari perché è semplicemente stupendo. Raccolto in nove bozzoli appena dischiusi, e ti si rivela gradualmente: come quando attacchiamo delle foto su un foglio, ricostruiamo le nostre memorie, e ci rendiamo conto che non c’è niente di più prezioso e importante.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Pizzichetta

lunedì 16 luglio 2007

Library Tapes: "Hostluft" (Mike Mine Music, 2007)



Pianoforte ed elettronica: un connubio tra due strumentazioni tra loro in apparenza molto distanti, ma che è ormai divenuto abituale in seguito ai molteplici esperimenti di accostamento di questi due elementi, condotti da artisti contemporanei, di sensibilità ed estrazione diverse.

Il risultato dell’interazione di melodie pianistiche e screziature elettroniche non è tuttavia sempre frutto di una mera operazione formale, o almeno non lo è quando alla sua base vi è la volontà di trascendere una forma ormai non così originale, per sottolineare le vibranti potenzialità emotive del pianoforte, in composizioni di semplice intensità, appena sporcate da crepitii ed effetti elettronici vari.

È questo che avviene nelle opere dello svedese David Wenngren, adesso giunto al suo terzo lavoro nel breve volgere di due anni sotto la sigla Library Tapes, dopo i due pubblicati per Resonant, “Alone In The Bright Lights Of A Shattered Life” e “Feelings For Something Lost”.

“Höstluft” segna la naturale prosecuzione della “poetica dell’assenza” di Wenngren, qui resa ancor più intima e quasi imperscrutabile dalla scelta della lingua svedese per il titolo dell’album e quelli di tutte le scarne composizioni qui comprese che, in poco meno di mezz’ora, alternano sparse note di piano (“Mörker Genom Tomrum”, “Noslipós”) a melodie romantiche e più strutturate (“Skiss Av Träd”, “Dis/Dagg/Dimma”).

Se infatti i due lavori precedenti vedevano una maggiore presenza di trame elettroniche oscure, solo a tratti solcate da partiture pianistiche, “Höstluft” può considerarsi un album pensato e composto per piano solo, in cui le esili sfumature digitali rappresentano soltanto l’impalpabile corollario di composizioni di intenso minimalismo isolazionista, non alieno, tuttavia, da passaggi lievi e solari (“Ensamhet”, tra tutti), né da momenti di sinistra cupezza. È il caso, quest’ultimo, dello sferragliare metallico dell’incantevole “Noslipós”, che getta panico nell’animo dell’ascoltatore, puntualmente risollevato dalle effusioni amorose di “Repor”, una splendida partitura puntellata da soavi note liquide, disciolte, finemente straziate da distrazioni particellari. La più frenetica “Mellan Ljud Och Text” aggiunge granulosi field-recording al solito flusso melodico, sviluppato con grazia cristallina; ed è corroborata dalla successiva “Skiss Av Löv”, che dona nuova luce e sviluppa con tatto gli intrecci minuscoli e imperscrutabili che vengono a crearsi.

La seconda parte del disco si caratterizza per un approccio più astratto e in parte disgiunto da quello delle tracce precedenti; perché, se “Pjotr“ innesta una disturbante schizofrenia glitch, la title track si avviluppa autonomamente con suoni d’altri mondi e incentra la sua ragion d’essere in un grande pathos di fondo. La già citata “Ensamhet” si distingue per un malcelato e straniante romanticismo, la conclusiva “Distans” sancisce la fine, fotografando con grande fedeltà cinematografica la realtà del suono di Library Tapes: una grande corrente in cui si mescola alla rinfusa, paradossalmente con ordine disordinato, ciò che la mente di David Wenngren sogna nel suo inconscio: colori sibilanti e presenze sonore marginali e al tempo stesso vitali, con l’anima rivolta verso la pace e la mente così eterea da risultare quasi immateriale.

Dopo i recenti album di Eluvium e Rafael Anton Irisarri, un’altra pregevole prova della declinazione in chiave moderna ed emotivamente traboccante del classicismo minimale incentrato sul pianoforte.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

mercoledì 11 luglio 2007

Action Biker


Sarah Nyberg Pergament nasce nel 1983 a Trelleborg, in Svezia.

Se ne va a Goteborg molto giovane insieme ai suoi genitori che lavorano come musicisti professionali. da loro apprende una forte sensibilità artistica, con l'avanzare della passione per la musica.

Dopo qualche anno di scuola e l'apparizione in vari contesti musicali, Sarah inizia con il suo computer a comporre le sue canzoni. Nell'inverno del 2002 decide di chiamarsi 'Action Biker', dal nome del videogioco nato su Commodore 64.

e da qui inizia la magia e la relativa semplicità della sua musica.

fra il 2002 e il 2003 escono tre scheggie pop:


Action Biker: "Untitled" (self released, 2002)










Action Biker: "Elephant & Castle" (Wiaiwya, 2003)
 



 






Action Biker: "Sandy Edwards" (Break & Enter, 2003)

il primo dei tre elencati si distingue per una fragilità ritmica e strumentale quasi amatoriale, anzi non quasi, completamente amatoriale. qualche synth, una scassatissima drum-machine, la voce di una bimba, fantasia da vendere. synth-pop sarebbe da dire, ma non completamente. c'è uno spirito pop raffinato qua dentro, molto intimista e non cialtrone. canzoni piccole e preziose.

Farrah è molto disciolta e malinconica, con uno stomp minimale di batteria elettronica quasi come se fosse un gioco; le tastierine che giocano con il ritmo sembrano quasi prenderci in giro. deliziosa.

la scanzonata Heartbreak è talmente magnetica e immediata che costringe all'ascolto prolungato, come minimo una decina di volte.. groove serrato, pad elettronici impazziti, testo scemino e ironico, due minuti di felicità.

Il terzo episodio (Teve Star) è sulla scia del precedente se non ancor più essenziale. sembra facile scrivere canzoni così; ed invece se sulla superficie sembra di esser davanti a uno scherzo, queste canzoni nascondono un'estrosità compositiva fuori dal comune, perchè come si sa, scrivere ritornelli pop incisivi è enormemente difficile.

rise and fall innesta alcuni coretti sintentici alla formula che sembra non avere limiti..

il cambio linguistico nel secondo EP citato (Elephant & Castle) (dall'inglese al francese) non scalfisce di un centimetro l'efficacia di queste canzoncine.

si vede che pian pianino la ragazza ha acquisito una certa consapevolezza produttiva ed infatti nelle cinque canzoni qui presenti la differenza rispetto al precedente si sente.

La Conjugaison Pour Tous è un vortice di divertimento digitale, fra filtraggi vari, ritmi scomposti e scemi, ritornelli perfetti e un bozzettismo pop di rara qualità e coesione. la voce, come sempre, si distingue per timbro cristallino e purezza timbrica.

e così stesso discorso per la seguente L'Amour L'Après-Midi, semplicemente perfetta. le capacità di questa ragazza sono notevoli, i mezzi utilizzati pochissimi e il risultato sorprendente. singulti digitali si intrecciano con un synth plasticoso e assassino, quando il piccolo inframezzo strumentale Gothenburg, Sweden arriva e sparisce in un attimo, lasciando allibiti.

Smash Hit Producer è divertentissima con i suoni dei videogiochi campionati e un ritmo giocattoloso che non può se non ispirare simpatia.

la conclusiva A Short Message ha un taglio molto più oscuro, sia per quanto riguarda il cantato, e sopratutto dal lato delle le melodie, più taglienti e severe rispeto al materiale descritto fino ad ora. le percussioni riverberate in sottofondo sono un briciolo di genialità che spunta fuori con forza; attimi di bellezza infantile si fanno vivi intorno a questa composizione, così scheletrica e lacerante al tempo stesso. da mozzare il fiato lo sferzante synth metallico posto in coda.

stomp quasi minimal-house per il pezzo che apre il brevissimo 7" Sandy Edwards, dedicato al fotografo australiano. la mutazione ritmica non inficia, come detto poche sopra, l'anima di una musica nata amatoriale e compiuta ancor più con l'intento di lasciare tutto così senza troppo impegno in sede di produzione o arrangiamento. magari è pure una necessità, ma a me piace pensare che sia una scelta consapevole e ragionata.

perciò, la title-track, avvinghiata in uno groove gommoso, canta :"I Want to be like Sandy Edwards" e la voce in sottofondo :"She wants to be like Ewdards".. con un groviglio di tastiere sapientemente cesellate e dosate nel più minimo particolari.

le bollicine elettroniche di The Perfect Job sono puro godimento ludico, così colorate e scanzonate. questa canzone potrebbe continuare all'infinito e non stancherebbe mai. il groviglio di voci posto sul finire si lascia ricordare con paicere.

poi c'è Wrong Side. beh, dato che è la sua ultima canzone ufficiale in ordine cronologico, e visto che non la si vede da 4 anni ormai, non poteva non lasciarci in un modo migliore.

distrazioni ritmiche dettate dal synth incespicano con l'arrivo di un clapping inarrestabile, ed è un progressivo impastamento melodico a farsi vivo, con il sopraggiungere della sua voce ombrosa e pacata, quasi rassegnata alla fine, ed è proprio la conclusione che lascia con l'amaro in bocca. vorremo centinaia di canzoni così, ma purtroppo ci dobbiamo accontentare ascoltandola 10, 20, 30 volte. splendida.

ed è così che un talento se ne va, purtroppo ho i miei dubbi che si rifaccia viva.. sul suo myspace c'è qualche canzone nuova molto carina ma non credo arriverà mai ad un album d'esordio.. io ci spero...

Training Day


ieri sera non sapevo cosa guardare, ed allora ho iniziato a sfogliare la mia collezione di dvd pieni di film da vedere.. ogni volta la scelta mi occupa più o meno dieci minuti. poi mi appare il nome 'training day', di cui avevo sentito parlare vagamente qualche tempo fa e allora mi dico :"perchè no? il nome mi ispira".

questo film, datato 2001, è un thriller poliziesco il cui inizio non promette niente di buono dal punto di vsta qualitativo.

Il primo giorno della giovane recluta Jake Hoyt, che vuole entrare nella squadra antidroga, accanto al veterano Alonzo Harris, pluri-decorato e specializzato nell'incastrare pesci grossi, che lo deve giudicare.

Sembra il tipico e davvero inflazionato scontro tra personalità contrapposte: inesperienza, fragilità e idealismo contro successo professionale, durezza e arroganza necessari. Già si suppone che la coppia male assortita troverà un punto di intesa e alla fine, collaborando insieme con contorno di sparatorie e inseguimenti, si salveranno la vita a vicenda e diventeranno amiconi. Invece le cose vanno in maniera completamente diversa.

mi hanno affascinato i due protagonisti, due attori che stimo tantissimo, cioè Denzel Washington e Ethan Hawke. se il primo è un maestro nel fare la parte del poliziotto esperto e cinico (Alonso), l'altro è magistrale nell'interpretare l'inesperienza del "pivello" appena uscito dall'accademia: pieno di principi ma pur sempre timoroso di sbagliare qualcosa. un continuo cambio di prospettiva, i personaggi mutano, i colpi di scena sono innumerevoli e la tensione è sempre costante.. fino al finale, completamente spiazzante, con una crudeltà che viene tutta fuori e ti sbatte al muro.

un grande spaccato crudele e incazzato di una realtà fatta di gangster, sangue e pallottole velocissime.

domenica 1 luglio 2007

Sneakster











Il Signor Mark Clifford, aveva già alle spalle una carriera di tutto rispetto, avendo rivoluzionato il modo di concepire l'elettronica moderna con i Seefeel:

dischi come quique o succour sono veri e propri classici, che hanno forgiato un suono che verrà poi chiamato ambient-techno.

ok, però, quello che forse tanti non sanno e che dopo la fine di questa gloriosa carriera, loro non si sono fermati per niente, anzi..

all'interno del gruppo ci sono delle teste piene di idee, tante idee, e il gruppo madre non basta. perciò, fra disaccordi artistici e ambizioni personali, i progetti paralleli sono tanti.

L'unione iniziale del gruppo si sfalda e i vari componenti prendono il loro spazio. Facendo un riassunto, il chitarrista Mark Clifford fa prevalere il suo impegno nel progetto Disjecta. gli altri tre (Peacock, Fletcher, e Seymour) iniziano ad incidere sotto il nome Scala.

Solo dopo Clifford incidce un EP su Warp sotto il moniker Woodenspoon ed infine, arriva l'illuminazione per gli Sneakster. precisamente era l'anno 1999. e mai la musica, come in questo fugace episodio, m'era sembrata così luminosa.

Sophie Hinkley e Mark Clifford si conoscono in un locale di Londra chiamato Milk Bar e da lì iniziano a scrivere del materiale assieme. Uscito su Bella Union il loro primo EP (Fifty Fifty), sempre nello stesso anno, viene pubblicato Pseudo-Nouveau.

Sneakster: "Pseudo-Nouveau" (Bella Union, 1999)

come già ho ripetuto alla noia in varie occasioni, ma non è mai inutile ribadirlo, questa opera è catalogata sotto la sezione capolavori trip-hop dimenticati.

l'esperienza elettronica di Clifford è palese e i ritmi sono cesellati con una perizia tecnica mostruosa, ogni suono è lì al suo posto ed ogni canzone, che sia strumentale o cantata, sprigiona sensualità e bellezza in ogni sua particolarità. La voce della Hinkley è straordinariamente sinuosa, così impegnata a star dietro alla sciabordare elettronico che la circonda, impreziosendo con grande efficacia ogni episodio da lei toccato. da non dimenticarsi come la scrittura dei pezzi non sia un'esclusiva di Clifford, lei partecipa e con molto impegno.

si parte subito alla grande con Whileaway. Il beat metallico che introduce il pezzo è tagliente, ti lascia spiazzato; solo dopo l'inizio del ritmo martellante di stampo industriale ti rendi conto che il disco è iniziato.

La voce di lei è un canto candido, pieno di calore, mai sopra le righe, un misto di capacità interpretative e passione emozionante. I vari inserti percussionistici che qua e là lasciano il segno, evidenziano una ricerca sonora di grande qualità, incentrata su un impatto sordido e misterioso. questa ossessionante cantilena notturna si protrae per quasi 6 minuti, ed è quasi straziante sentire che tale melodia può (e forse deve) finire.

senza nemmeno la possibilità di riprendersi, un qualsiasi ascoltatore arriva a confrontarsi con la successiva Firehearts. ed è davvero dura non rimanere incantati. l'inizio pare presagire un calmo e acquoso episodio ambient, adagiato su un paio di droni che si incrociano, ma non è così. dopo qualche manciata di secondi, inizia a ripetersi un pattern che è quasi irreale da tanto è bello. una sorta di tastiera filtrata, o forse un synth analogico, non è certo facile decifrare la natura di questo suono.. ma a conti fatti, ciò che ci interessa è il risultato finale. quel ciclico muoversi di note fra i vocalizzi di una Hinkley splendida e mai così ombrosa, vortici vocali che sanno di dolore si muovono con velocità, fra una sorta di incanto surreale e magici incatesimi sonori.

il marcio che c'è in questo suono viene tutto fuori con Splinters, un'ambient-pop diretto da un beat sporchissimo, putrido e distrutto, che stride  con la dolcezza della voce di Sophie, brava nell'accentuare questo contrasto. splendidi i momenti di pausa dove il suono pare sospeso e intermittente, dove piccoli vocalizzi, note casuali e vortici digitali riempiono il vuoto. il tutto, ovviamente, ripiomba nell'oscuro con una prosecuzione (e una conclusione) ancor più altalante e disorientativa.

un trittico iniziale così, davvero pochi dischi possono permettersela. perfetto da ogni punto di vista: emozionalità, bellezza compositiva, puro godimento sonoro.

Le velleità ambientali di Clifford vengono tutte fuori nella parte centrale del disco, con un centro dopo l'altro, d'altronde i maestri raramente deludono.

Full Echoes è incentrato in un favoloso organo sintetico, poi accompagnato da angeliche note di chitarra e uno scricchiolante beat di puro stampo minimal techno. affascinante come pochi, la dubbia regolarità della melodia, svanisce sul finire.

sempre ritmi di estrapolazione industrial fanno capolino in Stolen Heart, solcati appena dalla solita voce femminile; il piccolo inframezzo ambientale Trust & Blush regala qualche attimo di tregua, sognando per conto suo nei pochi secondi a sua disposizione.

l'organo torna a far male come in Full of Echoes nel episodio seguente, Static. Da sottolienare la grande qualità della progressione melodica: l'organo, che rimane lo strumento principale per tutti i 5 minuti, è via via sostituito o coadiuvato da un basso, un beat elettronico e la voce, conturbante e di grande impatto emotivo.

Heavy Heat, Heavy Time calca la mano sul lato più ritmico della formula stilistica, incastrando con le solite trovate elettroniche un martellante pattern percussionistico, peraltro molto coeso a mai fuori posto o mal congegnato. la faccenda si complica sempre di più fino a raggiungere vette di rara bellezza, come nei momenti in cui uno spruzzo di synth giganteggia fra i marasmi che sanno d'ossessione. la solita sophie fa il suo sporco lavoro con un'interpretazione da incorniciare.

La conclusiva Sweet Melody ricalca fino a un certo punto il titolo, visto che di dolcezza qua ce n'è ben poca, fanno eccezione alcuni gorgogli elettronici pieni di garbo e buon gusto. il battito solitario che sferza il silenzio prima della fine, così intriso di magia arcana, è ciò che ogni finale che si rispetti dovrebbe avere dentro di sè.

la versione originale del disco uscito nel 1999 finisce qui.

Un anno dopo, viene rilasciata una versione allungata, con l'aggiunta dei pezzi presenti nell'EP citato all'inizio, Fifty-Fifty. tre pezzi remixati da chi? da sua maestà Robin Guthrie. per la precisione Fireheart, Stolen Letter e l'inedito Kinda Blue.

nel primo caso (Fireheart), Guthrie, rimpolpa la struttura scheletrica dell'originale aggiungendo e in parte storpiando l'effetto voluto da clifford, rimanendo comunque un risultato di sicuro interesse completistico. con stolen letter, invece, si accentua il lato sognante della composizione e in effetti il risultato, anche se di differente natura, si distingue per grazia e deliziosità. Kinda Blue, l'inedito recuperato in questa seconda versione dell'album, incastra singulti classici (cello) con un beat molto positivo e martellante, anche nei frangenti più estatici, il marchio di fabbrica e l'animosità repressa non tarda a trapelare da queste note.

che altro dire? nient'altro, se non la volontà di sottolineare quanto una manciata di canzoni possa lasciar segni indelebili anche senza aver avuto clamore. rilevanza che peraltro avrebbe ampiamente meritato.