venerdì 4 dicembre 2015

Darkstar: "Foam Island" (Warp, 2015)
















A due anni di distanza dal magico e alieno “News From Nowhere”, i Darkstar rientrano in pista con un’assenza clamorosa: James Buttery è improvvisamente uscito dal gruppo. Il trio è diventato duo. Un’uscita di scena a suo modo pesante, visto che Buttery, oltre ad essere il vero frontman, incarnava l’anima artistica della band sotto diversi aspetti, stesura dei testi compresa. I due rimasti tengono a precisare come il progetto torni alle origini, infatti, a ben vedere i Darkstar sono sempre stati un duo, l'inserimento di Buttery è stato solo un aggiustamento di percorso.

Dunque, i nuovi Darkstar ripartono semplicemente da James Young e Aiden Whalley, entrambi rimasti a guardia di un progetto nato con l’intento di ricreare una formula elettro-pop tanto travolgente, quanto a suo modo polverosa, aspra, intrecciata fino al midollo tra bassi e drum machine alienanti, di gran fascino. “Foam Island”, terzo disco in cinque anni, nasce dunque zoppo, o perlomeno segnato da un rimpiazzo che sulla carta non c’è, e che trova le sue risorse nei dialoghi sparsi qua e là tra un pezzo e l’altro: conversazioni, brevi estratti di vita sociale dal gelido e malinconico North Yorkshire. Parole spesso intrise di quel moderno disagio economico proprio della classe operaia inglese e di una sempre più ferita media borghesia, afflitta da diversi anni da un incessante malessere post globale. Un senso di smarrimento comune che cede all’impotenza generale verso un modello di sviluppo intransigente e a tratti disumano.

Trapela in questi termini l’allarme sociale lanciato da Young e Whalley, a fungere da contraltare politico al resto della faccenda. La musica che ne consegue è, al contempo, un coagulo di morbidissime articolazioni elettriche, ritmiche misurate, mentre una tenue linfa melodica ne amplia lemme lemme la resa emotiva, come accade nella delicatissima e melanconica "Inherent In The Fibre".

Nonostante la mancanza di un'ugola pregiata come quella di Buttery, Whalley, in veste di cantante unico del duo, si comporta in maniera più che discreta fin dalle sincopi electro-pop della pregiata “Stoke The Fire”. A ben vedere “Foam Island”, se fosse giudicato solo per le canzoni vere e proprie, si dimostra un album di pop elettronico molto ispirato, partendo dai brani già citati, fin ad arrivare alle stramberie d'archi fuse a strutture pop (la bellissima “Go Natural”, i singulti storti di “Pin Secure”). La magia non si placa nemmeno quando il tenore ripiega su strutture più convenzionali (la pur positiva “Through The Motions”) o si accascia in rivoli rilassati e minimali (i glitch alla Telefon Tel Aviv delle title-track), dimostrando una versatilità non da poco.

Il problema di questo album sono purtroppo i vuoti. Senza escludere un sottotesto di impegno sociale, le ripetute pause costituite da estratti di interviste di strada, rendono l'album un qualcosa di incompleto e controverso. Nonostante le canzoni ci siano tutte (unico neo la fumosa “Days Burn Blue”) per riempire una tracklist di tutto rispetto, dal successore del mezzo capolavoro “News From Nowhere” ci si aspettava di più. Non ci resta altro che attendere i nuove percorsi, “Foam Island” è infatti una tappa di passaggio non del tutto compiuta.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

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