venerdì 30 settembre 2005

Condivido con voi le emozioni che m'ha trasmesso il disco degli A Hawk and Hacksaw dal nome Darkness at Noon.







"Non si può mai dire in quale direzione il treno sta andando guardando le rotaie". Così inizia il secondo disco degli A Hawk And A Hacksaw. Una frase decantata in italiano e sussurrata da una voce femminile lontana.

L'artefice principale di questa band è Jeremy Barnes, polistrumentista dalle capacità infinite, già componente principale di altre due band cardine dell'indie che conta: Neutral Milk Hotel e Bablicons. Sempre dediti, in quelle sedi, alla ricerca di un suono nuovo, ma al contempo radicato nell'amore per la musica tradizionale, da qualunque parte essa provenga.


Jeremy, nel primo disco della band, aveva impressionato per freschezza e particolarità della proposta. A questo giro non fa che confermarsi artista poliedrico e senza limiti d'ispirazione. Una serie di ballate dal sapore mediorientale. Un amore spasmodico per le cadenze sonore di "tradizione" e la voglia di sperimentare senza annoiare. Violino, cello, fisarmonica, banjo, tastiere, fiati, percussioni di vario genere. I vari strumentisti al suo servizio si impegnano per creare un'aura sonora avvolgente, seducente, ammaliante.


La prima traccia ("Laughter In The Dark") è introdotta con assolo toccante di tromba, arricchito, poco dopo, da vari strumenti acustici. La fisarmonica spezza il ritmo con suoni disturbanti e avulsi. L'arpa si intromette intorno alla metà e ci trasporta in un mondo etereo, senza confini spaziali. Canti gitani, voci lontane, preghiere, aneliti al tramonto, sussurri notturni, rumori sconosciuti, stridio disturbante. Spasmi fiatistici e convulsioni percussioniste completano tanta grazia. Un folk balcanico d'altri tempi. Fuori da ogni concezione. Introduzione sconvolgente.


Si cambia atmosfera nel secondo atto ("The Moon Under The Water"). Ballata dall'andamento scanzonato. Sempre la fisarmonica di Jemery alla ribalta, a tenere il ritmo. Fiati atti a gonfiare la struttura del pezzo, fino a implodere su se stessi alla fine, senza pietà per i nostri sensi. Rumori estranei, voci lontane. Un marasma dal sapore dolciastro, connubio perfetto, balli stranieri, sole al tramonto, avventure passate.

Atto terzo ("The Water Under The Moon"). Rumori di pioggia. Violino struggente. Note cadenzate con dolcezza assoluta. Piano in sottofondo. Coda strumentale toccante. Immaginare un gruppo di nomadi sperduti, accanto al loro fuoco e la musica che li circonda.


Si prosegue con un pezzo sulla falsariga dei precedenti, "A Black And White Rainbow".

Danza mediorientale, rumori estranei, caos ordinato, spigoli violinistici, ritmo serrato, tripudio senza tregua. Non c'è pace, se non alla fine, quando l'andamento si serra con una cascata di suoni acustici provenienti da un mondo sconosciuto. Arrivati a questo punto, ci troviamo di fronte a un vero e proprio capolavoro di impressionismo. Timbri di piano che si intrecciano come due amanti nel loro letto d'amore, suoni d'armonica soavi, xilofono cristallino, voci da supporto al ritmo. Voci tormentate, tormentanti, ossessive, ipnotizzanti. Cadenza falsamente pacata, passo minimale, andamento flemmatico. Coda strumentale pianistica con il solito pattern ripetuto per circa un minuto.


La traccia successiva si differenzia dal resto per una struttura più slabbrata e scomposta. Assoli fiatistici, campane e campanellini percossi, anima sonora proveniente dalla fisarmonica, un banjo suonato nervosamente, note pungenti, veloci, assassine, strazianti. Un altro gioiellino da incorniciare nel complesso compendio del disco.

Ritmo scorbutico e claudicante nel proseguire ("Pastelka On The Train"). Marcetta screziata da note di piano sporadiche e da un simpatico suono di nacchere. Un suono contagioso e amalgamato con il tocco di quel sapiente cesellatore di melodie che è Jeremy.


"Goodbye Great Britain" è un collage di vari suoni trovati qua e là, e non dispiace. Un intramezzo strumentale di tutto rispetto. Altra piccola piece per aneliti alieni, note sparute di piano e voce (bellissima) in "Our Lady Of The Lavta".

"Wicky Pocky" risulta una marcetta discretamente ritmata e contrassegnata da un connubio praticamente perfetto tra fiati in amplesso, percussioni, la solita fisarmonica e il tempo tenuto da un contrabbasso (?). Tocchi di piano impreziosiscono il tutto, che risulta piacevole oltremodo.


La chiusura spetta a un altro pezzo da incorniciare senza ripensamenti: "Portlandown" è introdotta da un collage di suoni provenienti da ogni dove, e ancora un piano struggente. Il violino inizia a creare un'atmosfera intima, pacata, appartata. Il cantato contribuisce nell'intento. Il testo snocciolato con dolcezza e grazia, malinconia e amore. Il vento (campionato), ci accompagna alla fine, quel vento che trasporta un sapore di tradizione malcelato. Quella tradizione che trasuda da quest'opera. Un'opera fuori dal comune. Consigliatissima.

Esco, ora, dall'aula e sono completamente preso da un pensiero.
La mia meta' naturale e' impegnata in una prova probante per tutto il proseguimento della sua vita.
Mi sento impotente, essendo lontano. Il mio apporto e' quasi niente, nonostante l'impegno profuso.
Credo in lei piu' di ogni cosa esistente. Stimo il suo impegno e la sua caparbieta'.
Forza Isa, io sono con te.

giovedì 29 settembre 2005




Aoki Takamasa + Tujiko Noriko: "28" (FatCat, 2005)


Due fanciulli giapponesi si incontrano, ricoprono lo spazio di estraneità. Aoki Takamasa e Tujiko Noriko si uniscono in un sodalizio inatteso.

Il primo rimane una immagine indelebile per l'elettronica giapponese (mondiale?). Album come "Silicom", "Quantum" e l'ultimo (splendido) "Simply Funk" danno il via libera a soluzioni infinite, imprevedibili, attraenti. Il gusto solare dell'anima dagli occhi a mandorla. La seconda tanto tenera nelle apparenze esteriori quanto spigolosa e puntigliosa nella sua musica. Unire il cantato giapponese femminile (in generale alquanto amabile) con l'uso di deformazioni meccaniche, per ottenere un risultato di forma canzone alterato. "From Tokyo To Naiagara" il suo album migliore. Celestiale è dir poco. La sapienza tecnologica jappo unita a una dolcezza innata. Questo album è il risultato di oltre tre anni di collaborazione sudata e difficoltosa, arrivata alla formazione di un piacevole connubio tra campionamenti vocali femminili, accostamenti puri e gelidi, scorrevoli texture, puntigliosi interventi de-umanizzati, tocchi dolorosi e piacevoli allo stesso tempo.


Aoki e Tujiko iniziano a lavorare nel 2002 nel contesto dell'evento "The Cartier Foundation" a Parigi. Cominciano a parlare, scambiarsi impressioni, immaginare scampoli sonori già prima di conoscersi. Compongono "Fly 2" e apprezzano il modo di lavorare l'uno dell'altro. Continuano e decidono di fare sul serio. Un album lungo, in definitiva. Come detto poc'anzi, la loro unione professionale è stata difficoltosa. Lui risiede stabilmente a Osaka e lei, invece, s'è fatta sedurre dall'estetica irresistibile di Parigi. Lavorano a lunga distanza, si spediscono materiale, vaneggiano un futuro, catturano suoni, sorridono, guardano il solito sole e la solita luna a migliaia di chilometri di distanza. Questa lontananza porta, inevitabilmente, a un periodo molto lungo di gestazione. Periodo che viene, parzialmente, accorciato dal trasferimento (nel 2003) di Aoki a Parigi.


"28" ha la sinuosità del disco magico. Ci apprestiamo a entrare in un mondo sconosciuto e oscuro. Immagini sgranate, suoni irraggiungibili, orizzonti indefinibili, sensazioni aliene. Muoversi sembra impossibile. Immobilità forzata e al contempo sognata. Distendersi in un prato di ortensie colorate, il cielo lontano e vicino, le foglie fruscianti scalfiscono un silenzio ammorbante.

Un contagioso loop da il là al sogno. "Fly 2" risuona nelle orecchie (ascolto consigliato con le cuffie) ed è la pace a regnare. Ovattati glitch si posano sul terreno fertile della mente come le foglie fanno d'autunno: appena staccate, planano dolcemente per terra. Tujiko inizia a profferire parole e l'atmosfera è completa. Dolcissimi contrappunti sonori proliferano come se si riproducessero a vicenda. Gioia percettiva.


Quadretto di pennel dolce dipinto in "Vinyl Words". Un tratto curvilineo, come a rappresentare i raggi riflessi del sole, è segnato dalla voce spumosa e leggiadra. Piccoli ritocchi, rappresentati dai grovigli meccanici, escono dal pennello del nostro immaginario pittore. Il vento viene raffigurato dal frequente intervento di un synth, come a dare un senso di movimento all'opera. Saltellanti animaletti vengono schizzati da una drum-machine sorniona, che fa fatica a prendere il ritmo. Con il tempo si intromette e lascia il segno. Sovrapposizioni vocali continuano ad abbozzare il cielo, le nuvole, l'aria invisibile. Sporcizia sonora dà un tocco scabroso al quadro.

Tenebrosa atmosfera introduce la successiva "When The Night Comes", cioè quando la notte sta arrivando. Arriva la notte e i toni si imbastardiscono. Le parole emanate sono avulse dal contesto, scacciate malvolentieri dal centro del tornado sonoro. Ossessionanti granelli di sabbia tappezzano il sottofondo. Un flusso interrompe la struttura iniziale. Come una folata spazza via un gruppo di giornali abbandonati ai lati di una strada buia. I toni si fanno claustrofobici, insistenti. Due note due di tastiera compongono le fondamenta. Suolo composto e strutturato su irregolarità paradisiache. Costruzione fondata su acusticità destabilizzate. Soffitto caratterizzato da culmini di volume e attimi di silenzio assoluto. Il cielo, ancora, tratteggiato dalla voce, sempre più evanescente. Cori ripetuti ciclicamente completano il tutto dando un tocco di originalità architettonica.


Soffi e schiocchi. Pulviscoli e folate. Stomp e note. L'introduzione di "Doki Doki Last Night". Fa capolino un tono vocale in crisi isterica. Solitario contrassegno di tastiera compone un drone disturbante. Tujiko in punta di piedi definisce con precisione puntigliosa ogni singolo angolo. Senza lasciare niente al caso. Uno scricchiolio quasi impercettibile sporca questi angoli con delicatezza anormale. Flemma zuccherosa ricopre l'aura di "Fly-Variation". Variazioni sul tema del volo. Stelle illustrate da irriconoscibili xilofoni, nuvole effigiate da scintillanti timbri spaziali. Le ali si muovono con leggiadria inumana e provocano spostamenti cubitali. Schianti di drum caratterizzano instabilità di quota, cenni irriconoscibili presentano lo svolazzare di arti in movimento. Il volo prosegue senza grosse difficoltà e arriva in porto con strabordante felicità e inarrivabile bellezza.


Incalzante percussione meccanica introduce il groove contagioso di "26th Floor". Voci impaurite compongono il fondamento. Convulsioni vocali si introducono con numerose sovrapposizioni. Evidente contrasto con il tono allegro e spensierato delle parole e l'estetica scorbutica e scontrosa del sottofondo musicale. Frasi impaurite, agitazione, paura, ansia, terrore. La composizione musicale per le ore oscure di un pomeriggio piovoso giapponese al ventiseiesimo piano di un attico malfamato. Spigolosi bleep e un mare di immondizie stimolano l'apparato uditivo e lo conducono in paradiso. Pare sentire cadere la pioggia incessante.


L'episodio estraneo (si fa per dire) si configura con "Alien", che tanto aliena non è. Andamento (apparentemente) regolare e struttura più stabile rispetto alle precedenti composizioni. Solito tappeto plasmato da innumerevoli polveri stellari e una percussione finta abbozza un ritmo che si crede di essere costante. Loop frequentemente ossessionano l'atmosfera e la rendono irrespirabile. Senza speranza.

Il completamento dell'opera è affidato a quello spaccato di insofferenza sonora che è "NOLICOM". Disparati strumenti acustici vengono campionati, infiltrati e smembrati per essere (ri)inseriti successivamente, sfigurati. Un'immensità di suoni invade il pensiero e non c'è via di liberazione. Tujiko con infinitesimi timbri di voce orna e arricchisce. Fastidiose intromissioni dispettose zampettano durante lo scorrere, tenui contrappunti determinano il contorno, la voce sancisce la fine con parole strazianti.


In conclusione, uno dei migliori album di glitch-pop pubblicati negli ultimi anni, solo paragonabile ai (capo)lavori di AGF e O. Lamm. Un'opera che sembra non risentire della frenesia del mercato discografico, grazie anche alla gestazione lunga e ben architettata. Un album per occhi scintillanti, orecchie fini e animo puro.

Eccoci al primo post.
Sentivo il bisogno di condividere alcune emozioni con la "rete". Poter scambiare pareri e idee, immagini, parole.
Reduce da una giornata pesantissima da studente, svesto quei panni, e mi ritrovo nel mio mondo a sognare perennemente.
Sono seduto sulla sedia di camera mia e mi lascio trasportare dalle note sbarazzine di Wooden Stars: "The Moon". Consigliatissimo.
Buona permanenza a tutti.