lunedì 27 settembre 2010

Boduf Songs: "This Alone Above All Else In Spit Of Everything" (2010, Kranky)



Giunto al quarto album sotto l'alias Boduf Songs, Mat Sweet non ha inteso abbandonare nemmeno in questa occasione l'isolamento creativo e l'essenzialità della strumentazione dalla quale le sue sofferte composizioni e il suo humming sussurrato vengono originariamente catturate.
Così come nell'omonimo debutto (corrispondente al demo che aveva fulminato i responsabili di casa Kranky) e nei due dischi successivi, anche il nuovo "This Alone Above All Else In Spite Of Everything" è nato nella stanza di Sweet a Southampton, con il solo ausilio tecnico di un microfono.
Eppure, il risultato finale del disco si mostra affare ben più complesso rispetto ai precedenti, non solo in quanto si colloca su una linea di progressivo affinamento sonoro in sede di post-produzione, ma soprattutto perché il percorso evolutivo dell'enigmatico artista inglese in questo lavoro giunge a un compimento di una sempre maggiore articolazione strumentale e varietà di registri espressivi.

Non si pensi tuttavia che Sweet abbia abbandonato le fosche sfumature della sua voce e delle ambientazioni sonore, né tanto meno la predilezione per testi aspri, cupi, allucinati. Tutt'altro, anzi questi tratti salienti del suo profilo artistico sono adesso supportati da un songwriting più fluido e indirizzato verso una più tangibile coesione melodica e, soprattutto, arricchiti da contesti sonori non più limitati alle elongazioni di note di chitarra e inserti elettronici casalinghi, ma comprendenti decise incursioni elettriche, nonché pianoforte, elettronica e ritmiche.
E proprio con una spettrale composizione per piano e voce si apre "This Alone Above All Else In Spite Of Everything"; non si tratta tuttavia dell'introduzione a un lavoro di ovattato intimismo, poiché le prime brusche scosse arrivano già nella successiva "Decapitation Blues", la liquida quiete del cui incipit a base di gentili tocchi di vibrafono viene squarciata da un'impetuosa irruzione elettrica, che la scaglia in un vortice incandescente, percorso da schegge rumoriste.

Una lentezza esasperante prende corpo e si materializza con dolce insolenza (le gocce di mestizia in "Absolutely Null And Utterly Void", sette minuti di pura rarefazione per "The Giant Umbilical Cord That Connects Your Brain To The Centre"), mentre in altri frangenti si scoprono lati finora nascosti, come l'estensione timbrica e tonale della voce di Mat ("I Have Decided To Pass Through Matter") o strutture fortemente innovative, capaci di proporre una sorta di goth-rock allucinato (le splendide chitarre sulfuree di "They Get On Slowly").
Oltre alle piccole differenze già citate in precedenza, rispetto al passato si percepisce un suono della chitarra più puro, cristallino, meno lo-fi. Questo elemento aiuta a far emergere la bellezza di un fingerpicking ispirato, non virtuoso ma scheletrico, visivamente maturato e cristallino. Gli sviluppi a partire dalla struttura di base, coadiuvati da una ricchezza di suoni inedita, sono la continua linfa di cui si nutre la musica di Boduf Songs, capace di rigenerare la propria cifra stilistica con rinnovata vitalità.

Siamo certamente di fronte a una proposta elitaria, per cui c'è bisogno di impegno e predisposizione. Tuttavia lo sforzo profuso per immergersi nel mondo sonoro di Boduf Songs viene ancora ripagato da sensazioni uniche, che confermano oggi tutte le impressione maturate durante i cinque anni trascorsi dal primo omonimo miracolo acustico, che diede l'abbrivio a un incanto che non cessa di turbare i nostri sogni.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

Boduf Songs




Il cantautore inglese Mat Sweet rappresenta una delle migliori tra le coeve produzioni di minimalismo dai toni sommessi, oscuri e avvolgenti, nel suo caso originati da non altro che da una sensibilità artistica tradotta in uno scarno songwriting e in ambientazioni sonore spoglie, ridotte all'essenzialità di una chitarra acustica, appena supportata da campionamenti o drone in lontananza


Schivo artista di Southampton, Mat Sweet non è semplicemente l'ennesimo affiliato al filone dei cantautori tristi e depressivi, né tanto meno il risultato di un'estetica musicale lo-fi studiata o costruita a tavolino, di quelle che negli ultimi anni riscuotono frequenti successi. Con il suo alter-ego Boduf Songs, dalla metà degli anni Duemila, Sweet rappresenta piuttosto una delle migliori tra le coeve produzioni di minimalismo dai toni sommessi, oscuri e avvolgenti, nel suo caso originati da non altro che da una sensibilità artistica tradotta in uno scarno songwriting e in ambientazioni sonore spoglie, ridotte all'essenzialità di una chitarra acustica, appena supportata da campionamenti o drone in lontananza.
Solitario e misterioso, per l'iniziale assenza di fotografie e informazioni biografiche, l'artista inglese si dimostra fin da subito assai ambizioso, visto che, da perfetto sconosciuto, invia il proprio primo demo a un'etichetta di grande tradizione quale la Kranky di Chicago. I nove bozzetti sonori in esso raccolti impressionano a tal punto i responsabili dell'etichetta da essere, di lì a poco, fedelmente tradotti nell'omonimo album di debutto, senza alcuna modifica, produzione o reincisione.
L'immediatezza lo-fi da "musica da cameretta" traspare tutta nella mezz'ora scarsa di durata di Boduf Songs, così come anche si intravede attraverso essa l'ambientazione nella quale l'album è stato creato, nell'intimo isolamento di un autore alle prese con la sua ispirazione e i pochi mezzi tecnici a disposizione, al riparo dal fin troppo banalmente immaginabile paesaggio grigio del sud dell'Inghilterra, tra alberi spogli battuti dal vento e una natura dai contorni aspri ma sublimi al tempo stesso. Gli stessi contorni presenta infatti la musica di Sweet, sospesa tra un approccio cantautorale degno del Kozelek più depresso e l'attitudine concettuale a un'asciutta psichedelia rurale, che intreccia oscure componenti elettroniche all'acusticità più cristallina, in ciò conseguendo un risultato di uno spessore forse mai più raggiunto dall'epoca di "Further" dei Flying Saucer Attack.



Lo scorrere del disco descrive un itinerario in una foresta maledetta, dall'atmosfera sempre più oscura e morbosa, incorniciata dalle note di una chitarra spartana, il cui puntiglioso incedere che sa di dolore e inquietudine, mentre un'elettronica tagliente sfigura i rari interludi di apparente dolcezza armonica.
Il viaggio di estenuante malinconia inizia con la toccante "Puke A Pitch Black Rainbow To": una nota di piano alimenta le ombre, una voce malandata sussurra la sua poesia, gelide folate elettroniche procurano un dolore persistente e piacevole al contempo.
La successiva "Claimant Reclaimed" è un ulteriore passo negli inferi, con un accordo di chitarra frenetico e incessante che viene ripetuto in maniera pedissequa, alternato con cambi di tono e con un lacerante strappo elettronico. Non mancano, tuttavia, intermezzi vagamente ambientali ("Our Canon Of Transportation") e stranianti mantra folk che disegnano un cielo color pece ("This One Is Cursed"). Mentre lo slow-folk di Sweet assume contorni più netti nelle timbriche mistiche di "Lost In Forests" e "Grains", piccoli squarci di luce e linearità melodica, seppure percorsi da prolungati silenzi, incursioni di drone e ondeggiamenti di un suono ferroso, stridente e completamente aritmico.
Boduf Songs non è un disco per animi felici, è un oblio di oscurità, fatto di litanie biascicate, indolenti arpeggi acustici e abrasive dissonanze; un'opera che sa di male e dolore, la narrazione di un universo intimo fantastico e misterioso, attraverso suoni che sanno essere delicati e sinuosi, ma più spesso scostanti e impervi.

Tra i tempi di invio del demo e quelli necessari alla pubblicazione ufficiale, Mat Sweet getta le basi per dare immediato seguito alla ruvidità casalinga del suo debutto. Avviene così che il seguente Lion Devours The Sun venga realizzato ad appena un anno di distanza dal primo album, alla pari del quale raccoglie nove brani ridotti all'osso, costruiti sull'iterazione di pochi, semplici accordi di chitarra, immersi in paesaggi sonori angoscianti, sospesi tra desolazione metropolitana e ascesi isolazionista. La voce di Sweet resta tenebrosa, pur protendendosi pervicacemente alla ricerca di esitanti melodie, in grado di bilanciare almeno in parte l'oscura inquietudine che ammanta tutto il lento fluire dell'album. Il risultato è ancora una volta un'apparente immobilità, che avvolge composizioni esili, di spietata introspezione, nelle quali un timido raggio di sole si affaccia a volte soltanto per enfatizzare il contrasto con un'invariabile malinconia, quasi mai peraltro sfociante in cupezza opprimente.

La discesa nella nuova spirale oscura di Lion Devours The Sun inizia con i battiti in lontananza e gli arpeggi ossessivi che introducono "Lord Of The Flies", sinistra ballata circolare nella quale la voce di Sweet, ridotta a poco di un sussurro, materializza da subito fantasmi e inquietanti visioni ("around your heart, dark wings beat") di una realtà marcia, generata da "seeds of death, lost, disease", mentre quasi incuranti scorrono limpide le poche note di una chitarra dall'austero sapore folk, unico e costante contraltare alle brumose atmosfere di tutto l'album. Qualora il mood non fosse già ben esplicato, "Two Across The South" provvede ad allargarne lo spettro musicale, introducendovi un incipit di distorsione ambientale sul quale si innestano sensazioni di sconfortato fatalismo (il primo e l'ultimo verso del brano sono: "I built a house from my mistakes"), mentre gli scheletrici arrangiamenti di "That Angel Was Pretty Lame" delineano flebili richiami alla scena dark-folk (in primis Current 93) attraverso metallici field recording e smembrati clangori. Elementi che si inglobano l'uno nell'altro e si ibridano progressivamente, esplodono, implodono, si strascicano per sei minuti abbondanti di estasi misteriosa.



Nel corso del lavoro i ritmi di esecuzione rallentano ulteriormente, che tuttavia non concedono un attimo di distensione, né un frangente in cui si manifesta una parvenza melodica; soltanto lentezza, timbri, o per meglio dire, sussurri, aneliti, schizzi di un quadro incompleto o semplicemente incompreso, che descrive la sofferenza che porta alla redenzione attraverso corposi drone e lamenti digitali ("Please Ache For Redemptive"). La conclusione spetta alla composizione più lunga e coraggiosa, "Bell For Harness": quasi dieci minuti di note cadenzate con estenuante calma, un'apparente pace compositiva, falcidiata dalla voce, un anelito incombente e continuo, progressivo, sempre in procinto di esplodere ma mai capace di concedersi. È questa la testimonianza estrema e tangibile di come nella fosca visione di Mat Sweet la speranza non sia contemplata e nemmeno necessaria, dispersa tra il compassato scorrere del brano e l'indolente, rassegnato mantra "is your last lonely drive?".
Opera dalle tonalità mutanti e paurose, eppure dense di un aspro calore umano, nella sua totale assenza di edulcorazione, Lion Devours The Sun offre una coerente testimonianza della schietta vitalità di Mat Sweet e della sua graduale crescita in termini di fluidità espressiva, verso il superamento del mero guscio lo-fi in favore di una scrittura, senza rinunciare alle fosche ambientazioni dell'esordio, le sviluppa secondo un'inquieta dimensione comunicativa.

L'itinerario artistico di Boduf Songs sembra dunque indirizzato verso una matura evoluzione in termini di cantautorato isolazionista, caratterizzato da atmosfere angosciose e stranianti, benché tendenzialmente più "pulite". L'ulteriore passo in questa direzione arriva a distanza di due anni, quando Mat Sweet torna a trasmettere dispacci sonori dalla sua solitaria dimora nella countryside più profonda, nel terzo lavoro How Shadows Chase The Balance.
La sensazione di isolamento è anzi accentuata, poiché per la realizzazione del disco Mat Sweet ha prediletto le ore notturne, con il dichiarato intento di ridurre al minimo i rumori di fondo delle registrazioni e con quello, consequenziale, di farsi circondare da un contesto ancor più intimo e raccolto, il cui silenzio riempire soltanto con compassate spirali acustiche e con il suo cantato tenebroso.

Tali presupposti generano, non a caso, un album dalle strutture, se possibile, ancora più scarnificate del solito, che vede Mat Sweet rielaborare gli elementi essenziali della sua musica, giustapponendoli per enfatizzarne i tratti più aspri, ora portati in primo piano, ora compressi per lasciare spazio a un'inedita indole melodica. Accanto alle abituali litanie al rallentatore, che introducono in una tetra temperie onirica, How Shadows Chase The Balance denota una graduale evoluzione verso una serie di approdi possibili. Le scarne componenti folk della musica di Boduf Songs si colorano, da un lato, di più lievi accenti acustici, che fanno capolino in vere e proprie canzoni dalla chitarra pulita e dalle melodie meglio delineate ("I Can't See A Thing In Here", "A Spirit Harness", "Last Glimmer On A Hill At Dusk"), dall'altro perdono i propri caratteri originari, assumendo una dimensione ritualistica in composizioni incrementali, che sfociano in mantra spettrali ("Don't forget to fall apart/ don't forget to come undone"), mai così prossimi a depressive sfumature gotiche.
Anche a fronte della generale, accresciuta sensibilità melodica, permane tuttavia sempre la costante di uno spirito dolente, esacerbato da una componente lo-fi qui più pulita che in passato, ma sempre tale da aggiungere efficacia tagliente alla cupezza repressa che promana da tutti i brani. A essere in parte mutata non è allora tanto la sensazione di sofferenza autentica e solo parzialmente esternata, quanto invece l'espressione, più piana e melodica, resa in qualche misura meglio fruibile attraverso una temperata destrutturazione sonora e una maturata capacità di scrittura, che testimonia la compiuta transizione cantautorale dell'enigmatico artista inglese.

Reduce da un tour e - a quanto pare - anche dall'inizio di una relazione con Jessica Bailiff, Mat Sweet perviene al quarto album, restando fedele all'isolamento creativo e all'essenzialità della strumentazione dalla quale le sue sofferte composizioni e il suo humming sussurrato vengono originariamente catturate. Anche This Alone Above All Else In Spite Of Everything vede dunque la luce in maniera casalinga, con il solo ausilio tecnico di un microfono; ciononostante, risulta ben più complesso rispetto ai predecessori, non solo in quanto si colloca su una linea di progressivo affinamento sonoro in sede di post-produzione, ma soprattutto perché il percorso evolutivo dell'enigmatico artista inglese giunge al compimento di una sempre maggiore articolazione strumentale e varietà di registri espressivi.
Sfumature fosche e testi di aspra allucinazione trovano adesso il supporto di un songwriting più fluido e melodicamente coeso e, soprattutto, sono arricchiti da contesti sonori non più limitati alle elongazioni di note di chitarra e inserti elettronici, ma comprendenti decise incursioni elettriche, nonché pianoforte, elettronica e ritmiche.
E proprio con una spettrale composizione per piano e voce si apre This Alone Above All Else In Spite Of Everything; non si tratta tuttavia dell'introduzione a un lavoro di ovattato intimismo, poiché le prime brusche scosse arrivano già nella successiva "Decapitation Blues", la liquida quiete del cui incipit a base di gentili tocchi di vibrafono viene squarciata da un'impetuosa irruzione elettrica, che la scaglia in un vortice incandescente, percorso da schegge rumoriste.

Una lentezza esasperante prende corpo e si materializza con dolce insolenza (le gocce di mestizia in "Absolutely Null And Utterly Void", sette minuti di pura rarefazione per "The Giant Umbilical Cord That Connects Your Brain To The Centre"), mentre in altri frangenti si scoprono lati finora nascosti, come l'estensione timbrica e tonale della voce di Mat ("I Have Decided To Pass Through Matter") o strutture fortemente innovative, capaci di proporre una sorta di goth-rock allucinato (le splendide chitarre sulfuree di "They Get On Slowly").
Oltre alle piccole differenze già citate in precedenza, rispetto al passato si percepisce un suono della chitarra più puro, cristallino, meno lo-fi. Questo elemento aiuta a far emergere la bellezza di un fingerpicking ispirato, non virtuoso ma scheletrico, visivamente maturato e cristallino.
Anche in questo caso si tratta di opera di non faclissimo approccio, che richiede impegno e dedizione per essere fruita nelle sue tante sfumature; eppure, ancora una volta, lo sforzo profuso per immergersi nel mondo sonoro di Boduf Songs viene ripagato da sensazioni uniche, che confermano ogni impressione maturata durante i cinque anni trascorsi dal primo omonimo miracolo acustico, che diede l'abbrivio a un incanto che non cessa di turbare i nostri sogni.

di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

10/09/20109 The Field @ Bologna, Estragon



Raggiunto un discreto successo dopo la pubblicazione di due album epici, The Field sbarca a Bologna in una tiepida serata di settembre. Nonostante la fama conquistata a suon di esibizioni la folla presente all'Estragon è decisamente esigua e indolente; infatti il concerto inizierà con più di un'ora di ritardo.

La presenza di una struttura tutto sommato da rock band, rende lo spettacolo decisamente differente da ciò che si può aspettare da un'artista elettronico. Basso e batteria sono il perfetto collante per amalgamare in maniera coerente tutto il groviglio di intelaiature elettroniche. Una scelta coraggiosa ma decisamente azzeccata, visto che il crescendo dei pezzi gode di straordinaria efficacia anche grazie al supporto di un comparto ritmico così corposo. Gli assoli sulle pelli da parte del percussionista donano una carica senza eguali ai rintocchi della drum-machine puntuale e chirurgica, rendendo il tutto una poltiglia dance atipica e godibile.

Pescando con giustificata parsimonia dalle due prove sin qui rilasciate, il terzetto sul palco propone una jam session senza pause, in bilico fra spirito da club e vigorosità rock. Prediligere la lunghezza dei brani rispetto alla quantità risulta un nodo cruciale dell'esibizione, grazie a ciò gli episodi guadagnano moltissimo e il pubblico è capace di gustare ogni singola variazione di battito. Dove il batterista si esalta con gesti più o meno da rocker vissuto, gli altri due sono taciti e timidi, eseguono il loro sporco mestiere senza proferire parola o interagire con il pubblico. Il loro atteggiamento rispecchia il più banale dei luoghi comuni riguardo i nordici: freddi, distaccati, inespressivi.
La scaletta, così omogenea e priva di vere e proprie pause (ad esclusione del bis finale), raggiunge vette di pathos incontenibile (“On The Ice” è un momento indimenticabile) dove la platea si scatena in un pogo più o meno esagitato, fra tripudi di sudore ed emozioni.

Una serata da ricordare per il divertimento genuino e la gustosa dimostrazione delle capacità infinite di questo artista. Uno spettacolo da non perdere, per ogni tipo di appassionato, sia esso tacito ascoltatore appartato o terribile animale da pista.

Sparkle In Grey & Tex La Homa (Blackfading Records, 2010)



Quando due esperienze, due vite e una coppia di menti si uniscono, il risultato è sempre un'incognita, un salto nel buio dopo il quale gioire oppure essere costretti a leccarsi le ferite.
L'incontro fra gli italiani Sparkle In Grey (all'attivo già l'ottimo “A Quiet Place”) e il cantatuore Matt Shaw, in arte Tex La Homa (il cui ultimo album è l'essenziale “Little Flashes Of Sunlight On A Cold Dark Sea”), è inusuale quanto genuino e vitale. La condivisione di uno split è un'operazione strana, trattandosi di un qualcosa a metà fra una collaborazione e due dischi solisti accorpati più o meno alla rinfusa, soluzione con cui è facile realizzare un prodotto di spersonalizzato e disomogeneo.

In questo caso, l'atmosfera chiaroscurale rappresenta il tratto comune a tutte le composizioni, tanto che, durante lo scorrere delle tracce, il passaggio fra un artista e l'altro risulta persino di difficile percezione. C'è comunità d'intenti - e lo si sente da ogni singola nota - fra le due lunghe partiture degli italiani e le più immediate istantanee dell'inglese. Per i primi, le sonorità acustiche (fra chitarra e violino) sono abilmente intrise di una veste malinconica e fascinosa, grazie a intrusioni elettroniche mai invasive, mentre Shaw gioca la carta della desolazione ambient disturbata, incantando con distese di synth glaciali (la magica “Dorchester Sunrise”) e percussioni giocose (la buffa giostrina di “To Home”).

Mentre gli Sparkle In Grey tessono trame elettro-acustiche di grazia inusitata, arrivando a usare la registrazione di una voce infantile (l'intreccio con il violino di "L'Innocence du Sommeil" è semplicemente incantevole), Shaw completa la sua opera con una brumosa partitura scorbutica (il piano squarciato di “Becoming”) e la finale, intima “Born On A Friday”, un commiato personale e toccante.

Impossibile da definire o da inquadrare, “Whale Heart, Whale Heart” tocca il cuore e stuzzica la mente con un misto di desolazione e sentimenti vividi. Ode alla musica disincatata e fuori dagli schemi, il disco sancisce la completa riuscita dell'unione di due artisti che sanno lasciare dietro di loro tracce indelebili.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 21 settembre 2010

Saycet: "Through The Window" (2010, Mvs)


SayCet è un progetto musicale e visuale che ruota intorno al compositore e produttore francese Pierre Lefeuvre, che propone un prodotto desueto e fuori moda. Commistione di ritmi e sensazioni ormai accantonati, la miscela sonora dell'artista transalpino costituisce una naturale congiunzione fra esperienze sognanti lontane ormai tre decenni e l'elettronica di taglio fine esplosa con tanto fragore una decina d'anni fa. Naturalmente non una formula inedita e in superficie pure ovvia, tuttavia i dodici pezzi presenti in "Through The Window" costituiscono un ottimo viatico per scoprire un microcosmo di confortevole serenità.

Nel bel mezzo della fioritura di mistiche nenie stellari, ritmi edulcorati e voci smorzate, la carta decisiva del progetto SayCet risiede nelle melodie. Nonostante l'ottima fattura delle decorazioni (sporcizia elettronica, drum machine, samples vari), a far emergere queste canzoni dalla pletora di opere simili sono i motivi portanti eseguiti volta per volta da vari elementi, tra i quali pianoforte, synth, voce e xilofono. Mentre in altri ambiti viene elogiata la ripetizione, la dissonanza e la cacofonia, qui (come del resto in ciascuna delle sottocategorie nelle quali si può ripartire il pop) la presenza di una struttura portante salda è fondamentale perché cattura i sensi, permettendo di focalizzare l'attenzione anche sugli altri particolari che in molti casi sarebbero ignorati. A ciò si aggiunge l'alternanza tra strumentali e cantati, a chiudere il cerchio con grande maestria.

Con coerenza e continuità si succedono marcette elettroniche indefinibili (l'iniziale "15", il magnifico crescendo di "Her Movie" e "Daddy Walks Under The Snow", che sembra quasi una b-side dei Lali Puna) ed episodi impalpabili, nei quali il cantato non altera di molto l'equilibrio generale (brividi commossi per "We Walk Fast", il calore lo-fi di "And Mama Said: It's Amazing", i battiti cupi della drum machine di "Opal").

Lefeuvre riserva tuttavia anche vere e proprie istantanee melodiche, nelle quali sono liquide componenti dreamy a prendere il sopravvento, incastonate su gentili tocchi di tastiere o saltuari impeti in crescendo: è il caso, ad esempio, della deliziosa "Easy", un sogno ad occhi aperti che la soffice voce di Phoene Somsavath trasforma in una ballata dai tempi dilatati, tra Cocteau Twins e Trespassers William, soltanto filtrata attraverso l'elettronica.

Sospiri sinuosi e melodie eteree sembrano infatti costituire il perfetto completamento delle fluide trame sintetiche dell'artista francese, impegnato a bilanciare folate elettroniche opalescenti con l'umanità la fragile e aggraziata che dà luogo a vere e proprie canzoni, quali anche "Bruyère" e "Sunday Morning". Segno evidente che sotteso al progetto SayCet non vi è solo l'intento di riecheggiare l'indietronica di stampo Morr Music affermatasi nell'ultimo decennio, ma soprattutto quello di trarre le mosse da quelle sonorità, ibridandole attraverso sentori dream-pop, abbracci ambient e accenni di cadenze idm, per dar luogo a una sentita formula di dream-tronica del terzo millennio, che nei tre quarti d'ora di "Through The Window" trova una sintesi equilibrata e di sicuro fascino.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

martedì 14 settembre 2010

Audio Bullys: "Higher Than Eiffel" (Cooking Vinyl, 2010)



Fin dai tempi di maestri come i Rage Against The Machine, il crossover è stato un filone abbastanza inflazionato, per quanto ricco di ispirazione. Successivamente caduto in disgrazia a livello di qualità e concretezza, si è smarrito in una miriade di formazioni attente più al mercato che ai risultati artistici.

Titolare di due discreti album di hip-hop a metà fra tentazioni urban-pop e violenza lirica ("Ego War" è il migliore), il duo Audio Bullys, che ha tratto origine da quella temperie stilistica, giunge al nuovo "Higher Than Eiffel" con immutato spirito di sperimentazione e sfrontatezza compositiva. Mentre in precedenza le radici hip-hop non erano sporcate quasi per nulla, in questo nuovo capitolo gli elementi sono innumerevoli: rock d'assalto, hip-hop, ritmi techno, pop. La durata ragguardevole, sviluppata lungo quattordici tracce, rende possibile lo svolgimento di queste idee in modo fluido e coeso. Il tutto è perfettamente condito da un'atmosfera vagamente scabra e violenta, che si distingue agevolmente, facendo pensare quasi alla colonna sonora per un film di fantascienza torbido e tormentato.

Mentre ritmi serrati scorrono inarrestabili (il riff incandescente e reiterato di "Only Man", i synth allo stesso tempo giocosi e ferrei di "Drums (On With The Story)", gli assalti techno-pop di "Feel Alright"), gli intervalli sono incentrati su episodi pop-rock niente affatto banali (il basso tellurico di "Twist Me Up", l'approccio brumoso e scuro di "Daisy Chains", perfetto incrocio fra fiati e percussioni  in "Dynamite"). Non c'è limite né timore di sbagliare il tiro, fra una versione stravolta dei Police (la finale "Goodbye"), gioielli di urban-pop (l'accoppiata "London Dreamer"-"The Future Belongs To Us" è davvero inappuntabile) e cadute di stile marginali ("Kiss The Sky" è un electro-clash che sa di già sentito).

"Higher Than Eifeel", oltre ad avere il merito di rilanciare un gruppo rimasto un po' in sordina, mette in ordine tanti tasselli con precisione certosina, rivitalizzando suoni ormai dimenticati. Un esempio di rara audacia e coraggio stilistico, tipico di chi ha ben presente ciò di cui è capace. Gli Audio Bullys sono fra questi fortunati.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 13 settembre 2010

Arandel: "In D" (Infinè, 2010)



Chi l'ha detto che la techno sia un affare per palati giovani e che la classica sia roba da vecchi con la pipa? Confinato in un alone di mistero, il progetto Arandel nasconde le proprie origini per far parlare di sé solo con la musica. Non sappiamo né il nome, né la provenienza dell’autore e questo poco importa al cospetto di un’opera così magica.
L’album danza con disinvoltura fra partiture oscure, mistiche, colme di passionalità e gusto melodico. Non c’è limite alle idee che sgorgano impetuose come il riflusso di un corso d’acqua impazzito: techno minimalista ottenebrante, voci e atmosfere al limite del dark, sperimentazione ambientale adornata da docili field recordings. Il risultato della mescolanza di così tanti ingredienti porta alla realizzazione di un cumulo informe, attraente, inusuale.

Si parla quindi di techno, di musica classica, di beat secco, ma anche di post-rock-glitch futurista, dub, e perchè no, di jazz e sperimentazione. Non un prodotto di facile catalogazione, perché intriso di profumi e influenze variegate. Nonostante l'elemento minimale sia preponderante, le decorazioni di contorno evidenziano riferimenti incrociati non omologati.
Le strutture ritmiche estrapolate dai capolavori di maestri come Basic Channel e finanche Riley, vengono introdotte da cori dal sapore dark/industrial, registrazioni concrete ed echi canterburiani, drappeggi modern classical e disfunzioni glitch. Questa copertura ad ampio spettro evidenzia una ricerca e una curiosità maniacale che conduce dalle parti di un formula non certo inedita ma perlomeno originale, non distante dalla rilettura del Bolero operata da Von Oswald e Craig.

Fra pattern di drum machine insistenti, solo solcati da alcune voci lontane (la delicatezza dell’iniziale “In D#1”, echi dub sognanti per “In D#5”) e strambe litanie funeree (“In D#6” non è distante dalla Islaja più gelida, “In D#10” e “In D#9” paiono uscite da un album free-folk con sfumature noir), prende spazio un largo uso degli archi, capaci di introdurre con grazia lo sviluppo immacolato delle trame ritmiche e melodiche (echi sci-fi alla Redshape per “In D#7”, la simbiosi fra le controparti nella fanfara “In D#3”). E mentre la restante “In D#8” scioglie iterazioni acquose, l’album vaga verso la conclusione con un fare aggraziato e rispettoso.

Oltre alla qualità delle intuizioni presenti, “In D” si distingue per la potenzialità di attrarre un ampio pubblico. Non troppo settoriale per essere di nicchia, la sua forza sta anche nell’attingere da vari stili e generi. Divoratori di techno e affini non saranno delusi ma piuttosto incuriositi da un album che non si fa riconoscere mai completamente per il suo essere multiforme e camaleontico.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini con collaborazione di Alberto Guidetti

lunedì 6 settembre 2010

Greie Gut Fraktion: "Baustelle" (Monika, 2010)



Le collaborazioni femminili hanno sempre ispirato AGF. A partire dal lontano “Before The Libretto” con le Lappatites, passando per ottimi dischi come i sodalizi con Zavoloka (“Nature Never Produces The Same Beat Twice”) e l’artista visiva Sue Costabile (“Mini Movies”), Antye ha sempre associato grande valore simbolico alle opere tutte al femminile. Questa volta è una sua conterranea a unirsi: Gudrun Bredemann. Componente principale di una delle migliori band della new-wave berlinese anni 80 (Malaria), la musicista si è riciclata egregiamente con lo pseudonimo Gudrun Gut. Autrice da diversi anni di un moderniato techno tutt’altro che trascurabile, la compositrice pare la perfetta spalla di AGF.

Nonostante venga mantenuto un certo appeal sperimentale, le due artiste lasciano andare fantasia e giocosità in un album solido e compatto. Si notano decise differenze rispetto all’ultimo lavoro di AGF e alla sua carriera solista in generale. Come avviene con gli album sotto il moniker AGF/DELAY, il ritmo è più regolare, preciso, monolitico, la ricerca di una forma perfetta di pop tecnologico è quasi viscerale e spasmodica e in ogni episodio si percepisce uno sforzo di idee che porta spesso dalle parti di un techno-pop disarticolato deciasmente poco ordinario. L’influenza della vena luciferina di Gudrun Gut condiziona il tutto, conferendo un tocco etereo e mistico ad alcuni pezzi, trasformati in una massa informe di suoni e voci.

Mentre le pulsazioni prendono il sopravvento (in “Wir Bauen Eien Neue Stadt” e “Mischmaschine” splendono pattern di drum-machine efferati), le quiescenti manie industrial sporcano non poco il normale incedere del disco (la nenia “Drilling An Ocean”, i riflessi metallici di “Betongiessen”, miasmi silenti per “Grossgrundbesitzer”). Le scosse dub fanno parte di un campionario di suoni mai domo (“Cutting Trees”, “Baustein”), al cui interno riesce a farsi spazio anche il proto-rock fittizio e imbestialito di “White Oak”.

Acclarata la serietà delle artiste, non si può che decretare l’ennesimo centro per AGF, la cui immancabile genialità sfuggente costituisce l'essenza di un progetto artistico che ha già offerto numerosi frutti. La sua arte sgorga da una filosofia di vita capace di sviscerare melodie da ogni spunto, creando sempre nuovi stimoli ed entusiasmi per lei e per gli ascoltatori.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

CliffordandCalix: "Lost Foundling 1999-2004" (Aperture, 2010)



Da una parte una delle più coraggiose e ispirate interpreti dell’elettronica d’avanguardia internazionale: Mira Calix. Dall’altra una leggenda del pionierismo ambientale anglosassone degli anni 90: Mark Clifford. Se le strabilianti prove di forza della ragazza sono storia recente e ben nota, le prodezze di Mark sono tutt’altro che celebrate. Fondatore e leader dei Seefeel, la sua fama non è mai stata proporzionata alla bellezza della musica proposta. Oltre alla curiosità per il risultato di un’unione artistica così insolita, la vera notizia per gli appassionati sta nel ritorno alla pubblicazione ufficiale dopo molti anni da parte di Clifford.

“Lost Foundling” raccoglie varie session, eseguite dalla coppia dopo vari incontri susseguitisi nel tempo, la cui collocazione diacronica è indicata dall’anno di produzione, posposto al titolo di ciascuna delle tracce. Il contenuto, nonostante l’ampio arco temporale, risulta compatto e senza uscite di pista poco coerenti. Le potenzialità di entrambi i musicisti sono ben amalgamate in un album che propone una perfetta mediazione fra ricerca in ambito melodico/ritmico e momenti di candore sonoro estatico, nei quali la voce della Calix è il contrappunto ideale per gli scenari più disparati. L’onnipresenza del cantato contribuisce a mitigare scenari spesso ostici, mentre l’alternanza fra stasi e caos aiuta a diluire il contenuto fino alla conclusione. In termini squisitamente tecnici, siamo dalle parti di un pop ambientale che mischia in un gran calderone disfunzioni glitch, chitarrismo sognante, tappeti ambient e noise.

La già accennata varietà di toni permette di alternare interpretazioni vocali irriconoscibili (il magma sonoro attorcigliato di “Someone Like Me” e “Dream Of You” ammanta la voce della Calix donandole incisività) con deliziosi acquerelli serafici (la splendida “You And I”, l’intreccio inestricabile di synth per “One 2 Far”). Mentre il tocco magico di Clifford alla chitarra si rivela in tutto il suo splendore  (la psichedelica sospesa nel vuoto di “Beethaven”, il dream-pop mistico in “He Promised It All”, la corrosione metallica di “In Her Room”), si susseguono qua e là ossessioni ritmiche (i tribalismi oscuri di “Myrie”, la drum-machine sostenuta di “Pull It A Part 1”), brevi scampoli di ambient malsana (“Cket”, “Mintle”, “Alkaline”) e strutture pop più riconoscibili (“To Stay Changed Forever” possiede un fascino tormentato rarissimo).

In questa sede, siamo dunque obbligati a plaudire il sodalizio di “Lost Foundling”, poiché riassume con lodevole sagacia compositiva le varie influenze dei due musicisti. Considerando che siamo di fronte soltanto a degli assaggi sparsi nell’arco di dieci anni, la curiosità di ascoltare una sessione di composizione intensiva è molto alta.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana