venerdì 19 dicembre 2008

Melodium: "Cerebro Spin" (Audio Dregs, 2008)



Giunto all’undicesimo disco ufficiale, Melodium ha chiuso un cerchio immaginario aperto quasi dieci anni fa con l’inizio della sua carriera. Lentamente transitato dall’indietronica attraverso il classico cantautorato folktronico, il suo stile ha assorbito con il tempo tendenze, flussi e strutture armoniche peculiari. Un repertorio di intensa intimità, il suo, fondato su melodie fragili e flemmatiche.

Con “Cerebro Spin”, Laurent Girard è riuscito a mettere insieme l’album perfetto della sua discografia. Il musicista esprime tutto il suo campionario con soffuso narcisismo mai fine a sé stesso, tirando fuori dal sacco introspezione personale (già evidenziata nel precedente “My Mind Is Falling To Pieces”) unita a sensazioni dal sapore bucolico. Lo stesso artista rivela che quest’ultima opera è una fra le più ambiziose mai realizzate, confermando la teoria per cui il recente periodo di attività compositiva sia una fase di definitiva transizione verso qualcosa di nuovo rispetto al passato.

La scrittura classica esercita un ascendente molto forte, raggiungendo livelli di eccellenza (un beat granitico sostiene “Choanal Imperforation” che sfocia negli intrecci di “Eustachian Tube”), l’uso del piano spesso prende il sopravvento tinteggiando quadretti elettro-acustici dalla perfezione certosina (“Not Yet 1”, “Kissing Disease”, “Panic Disorder”), l’essenzialità spesso gioca a nascondino con il ritmo (“Meniere’s Vertigo” risplende all’infinito).

La scelta di differenziare la proposta nell’arco di sole undici tracce favorisce la scorrevolezza, nonostante l’atmosfera sia quasi identica lungo tutti i cinquanta minuti. Scorie del passato fortemente elettronico risorgono con delicatezza (gli incastri fra archi e progressioni IDM di “Social Phobia”, i flussi organistici di “Not Yet 3”), vere e proprie canzoni folk prevedono un futuro non troppo lontano (“Vocal Cord Polypus”, “Not Yet 2”, “Scoliosis + Astigmatism”).

Protagonista di un percorso dagli sviluppi inaspettati, Melodium è ora atteso al varco della prossima prova: la nuova trasformazione della sua musica, che continuerà a guidare i nostri sogni verso l'ennesimo mondo incantato.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Edie Sedgwick: "Things Are Getting Sinister And Sinister"



Justin Moyer si è sempre dimostrato prolifico negli ultimi anni (El Guapo, Supersystem, Antelope), collaborando in svariate produzioni dalle fattezze molto diverse. Ad oggi viene ripresa in mano la sua incarnazione più stravagante, con la pubblicazione attraverso il sito della Dischord solo su download digitale o LP. Edie Sedgwick, diva di Andy Warhol morta di overdose nel 1971, come scritto nel messaggio di presentazione, è tornata per salvare il mondo cantando delle celebrità americane. Un concept veramente fuori dal comune, sostenuto da una filosofia convinta e non da qualcosa di costruito, come si può apprezzare dai testi presenti sul sito ufficiale.

Al di là dei manifesti, la musica è lo stesso miscuglio che aveva sorpreso quasi quattro anni fa con il precedente "Her Love Is Real... But She Is Not". Post-punk al vetriolo mischiato con linee di synth taglienti, condito con la voce irresistibile di Justin, un vero vortice di potenza, ritmo e pazzia.

Diminuita la quantità di melodie elettroniche, la struttura viene quasi sempre sostenuta da un utilizzo geniale del basso, suonato probabilmente dallo stesso Moyer. Proprio da questo elemento si può capire come questa musica sia figlia della grande stagione dei vari A Certain Ratio, Pop Group e Television. Nonostante questi pesanti rimandi, il piglio disinvolto e completamente slegato da un contesto serioso, permette di interpretare ogni singola canzone da un punto di vista goliardico, dimenticando eventuali lacune di originalità. Le liriche giocano con ironia, sbeffeggiando anche la politica americana dell’era Bush con un senso dell’umorismo puntiglioso.

Fra le curve della seducente “Angelina Jolie” (accompagnata da un video esilarante), balliamo con pulsanti vibrazioni ritmiche (“Mary Kate-Olsen”, “Sissy Spacek”) facendoci trasportare da un flusso di cori, marciume e parole pungenti (meravigliosa “March Of The Penguins”, incontenibile “Anthony Perkins”). La capacità di Justin Moyer nel mettere insieme una serie di efficaci singoli (l’ennesima crisi di nervi in “Bambi/G.W.Bush”, soffuse anime psych-pop per “Red Dawn”) con relativa facilità è sempre stato un suo grande vantaggio anche in passato, purtroppo in questo caso l’ultima traccia scivola su una ballata magniloquente un po’ fuori contesto (“Edie Sedgwick II”).

Rimangono altre scorie luciferine a risollevare la seconda parte del disco, cementando uno stile che si è concretizzato con anni di gavetta e sperimentazione (“O.D.B.” potrebbe essere una b-side dei primi Wire, “Rob Lowe” esplode con risonanza).

Edie Sedgwick è tornato a raccontarci con l’usuale dialettica sibillina le sue storie veritiere e colme di cruda attualità, lasciandoci l’amaro in bocca, ma anche un sorriso di sincera soddisfazione.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Carl Craig & Moritz Von Oswald: "Recomposed"



L’interazione fra concezioni musicali agli antipodi s’è sempre rilevata una tentazione irresistibile per i musicisti più ambiziosi. Nel caso specifico, cercare possibili collegamenti fra il genere classico (o jazz) e pulsazioni techno è stato un obbiettivo spesso ambito da diversi anni a questa parte. Partendo dalla fanfare jazz trasfigurate della Matthew Herbert Big Band, passando per il primo splendido disco di Murcof, ed arrivando al progetto dello stesso Carl Craig più attinente all’argomento: il disco “Programmed” dell’orchestra Innerzone. I ritmi, quando scomposti e sostenuti, quando caldi e ammalianti, hanno sempre provato a sollecitare (o assecondare) un’atmosfera tutt’altro che abituata a certi stravolgimenti melodici e strutturali. Il risultato, se non supportato da ispirazione e smisurato controllo dei mezzi, s'è dimostrato spesso fuori centro e anacronistico.

Carl Craig e Moritz Von Oswald sono due mostri sacri della techno e non sarà certo questa prova a provarlo ulteriormente. Le collaborazioni assidue (si scambiano spesso remix), unite alla stima reciproca, hanno condotto in porto un rifacimento a cui soltanto artisti di tale caratura potevano rispondere con tale precisione e solerzia. La storia di questa operazione è molto sbrigativa: l’etichetta Deutsche Grammophon ha proposto la cosa a Oswald il quale ha contattato l’amico afro-americano per coinvolgerlo, quest’ultimo ha accettato ed è partito il processo di rivisitazione. Il materiale scelto riguarda il “Bolero” e la “Rapsodie Espagnola” di Ravel, e la "Bilder einer Ausstellung" di Mussorgsky, due imponenti estrapolazioni classiche dal grande fascino antico.

L’esperienza maturata con anni di sperimentazioni aiuta la coppia a condurre le composizioni dalle parti di un minimalismo classico, scosso da flebili tumulti timbrici (la progressiva “Movement 1”, i magnifici intrecci di fiati digitali in “Movement 2”), elevando con tatto il numero di battiti al secondo nella parte centrale (il punto focale “Movement 3” sfocia nell’implosione di “Movement 4”). In trenta minuti di musica astrale e completamente slegata da un contesto prettamente elettronico, i suoni scorrono liberi senza limitazioni, la lucentezza degli ultimi minuti è un’immersione silenziosa, la gradualità con cui si srotola ogni singola variazione è così fine da risultare impalpabile, rilasciando una sensazione di immobilità catartica, immobilizzante, quasi magica.

“Interlude” fa da spartiacque fra la prima parte, più frammentaria e disunita, e la seconda, composta da sole due tracce entrambe sui quindici minuti. L’adattamento fra due andamenti in sostanza decisamente diversi, viene eseguito con un tocco delicato, con l’usuale perizia, trasportando l’ascoltare in un flusso armonico senza destare cambi troppo bruschi.

I due movimenti finali colgono il bersaglio più difficile: coniugare ricerca elettronica e fedeltà con l’originale. La durata diluita permette di sviluppare i concetti in maniera più adagiata, i brandelli di melodia che serpeggiano nei meandri della mezz’ora finale, paiono sinfonie arcaiche che risorgono stizzite, le percussioni esplodono e si adagiano su un registro d’esecuzione più posato. Più corposa e meno silente, quest’ultima frazione di “Recomposed” esplode di vitalità compositiva, dimostrando la validità del progetto e dell’idea originaria.

Il tentativo dell’etichetta tedesca di avvicinare due mondi inconciliabili è reso possibile dal lavoro di due cesellatori fini e intelligenti, capaci di agire con circospezione in un campo minato senza ferirsi, raggiungendo la meta con il plauso della folla.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 3 dicembre 2008

Lulu Rouge: "Bless You" (Music For Dreams, 2008)



La Danimarca, terra natia dei meritevoli Antenne, regala agli amanti di musica elettronica un altro gioiello da posizionare nel reparto della nostra collezione a nome “esordi da non dimenticare”. Thomas Bertelsen e Torsten Bo Jacobsen sono due dj con sede a Copenaghen molto attivi nei club di tutta Europa. Entrambi hanno collaborato con artisti di un certo rilievo commerciale (Trentemøller su tutti) e giungono quasi a sorpresa con un disco sorprendentemente innovativo.

“Bless You” convoglia dentro di sé diversi stili di comporre canzoni elettroniche, estrapolando i lati positivi di ogni influenza per ottenere un risultato indefinibile. Partendo da una base minimal-techno, vengono aggiunti synth spettrali che donano un’aura d’estrazione gotica, raggiungendo vette di oscuro pessimismo industrial. Il fattore decisivo giunge nell'attimo in cui i bassi ottenebranti spuntano fuori con violenza, arricchendo gli episodi cantati di un sapore dub irresistibile, come a voler trasformare il corpo portishediano in un cadavere malato. Il maggiore merito di queste dieci composizioni è l'eccellente equilibrio fra ritmo e atmosfera, emozioni e frangenti di stasi, sinfonia e terrore. La classica ciliegina sulla torta sta nelle parole decantate da Alice Carreri Pardeilhan, perfetta esordiente dai toni lirici adatti per la specifica inclinazione dell’opera.

Se i momenti strumentali mostrano un fascino artigianale (poco spazio alla melodia per “Lulu's Theme”, “Pitch Black” è pura apocalisse timbrica), la lucentezza scorre a fiotti quando la voce maschile prende il sopravvento (la patinata title-track splende nel suo narcisismo, “Thinking Of You” gioca con la tecnica della sottrazione). La bellezza intrinseca giunge tangibile solo e soltanto quando ci si avvicina agli episodi più propriamente legati alle scosse dub già citate, la trasfigurazione delle emozioni è talmente efferata da ferire sensazioni sepolte. Un mare di pece nerissima ricopre l’iniziale “Melankoli”, curata nei minimi dettagli con squarci di violino e un basso che pulsa senza sosta, il geniale rifacimento della filastrocca italiana “Ninna Nanna” è un capolavoro dalle proporzioni inimmaginabili. Quasi sei minuti sostenuti da un tetro battito appena screziato da qualche squarcio electro, la recitazione della Carreri sfiora l’interpretazione teatrale in un insieme dalle capacità ipnotiche.

La glacialità ancestrale con cui scorre “Runaway Boy” (la fisarmonica dona contrasto deliziosamente fastidioso) introduce i muscoli della parte finale del disco. “Sweeter Than Sweet” sfracella in un dirupo profondo con flussi ritmici decisi, “End Of The Century” ricorda senza calligrafia i Massive Attack di “Inertia Creeps” attraverso una suono scabroso, tagliente e pieno di spigoli.

Cronaca di un conflitto fra armonia e dissonanza, “Bless You” si erge come segno di innovazione, senza dichiarare proclami con presunzione o falsa modestia, mettendo sul piatto elementi la cui peculiarità sarà apprezzata con il tempo.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 1 dicembre 2008

Cranes: "Cranes" (Dadaphonic, 2008)



Provenienti dalla scuola dream-pop inglese e giunti sul mercato leggermente dopo la creatura divina di Robin Guthrie e Elizabeth Fraser, i Cranes hanno segnato la storia di un intero flusso musicale a suon di dischi ineccepibili, sempre più variegati con il passare degli anni, mai stazionari nei dintorni di una moda o trend. Il ritorno di una punta di diamante di un genere così famoso rappresenta dunque una sorta di evento, nonostante la band non abbia mai lasciato passare più di quattro anni da un album all’altro.

In casi di integralismo stilistico come “Cranes”, la difficoltà nel consigliare un‘opera sta tutta nel gusto personale di chi l'ascolta. Siamo infatti di fronte al più classico revival dream-pop, sporcato quanto basta da un’elettronica eterea e omaggiato dalla solita splendida voce dell’interprete femminile Alison Shaw. Ma il deficit di originalità non può certo sminuire il valore di undici canzoni suonate con perizia certosina, condite da sapienza melodica e arricchite da una passione interpretativa vivida e commovente.

Dunque, in poco più di mezz’ora veniamo cullati da docili marcette sognanti (incubi quiescenti nell’iniziale “Worlds”, risveglio rassicurante con “Worlds”), scossi da beat elettronici facilmente irriconoscibili (sfondo electro-pop per “Feathers”, bollicine traslucide in “Wires”) e infine distratti da una voce che si gonfia raggiungendo l’impalpabilità (“Panorama” pare un inno chiesastico, “Collecting Stones” scorre fra scale di piano e sibili sinistri).

L’uso dell’impianto chitarristico quasi folk giova alla varietà dei suoni, mescolando idee che si collocano fra la canzone bucolica di un cantastorie e la composizione di un artista dedito a un trip-hop oscuro. Ne sono esempio le gocce di melodia trasfigurata di “Wonderful Things” e la conclusione “High And Low”, mai così adatta per sancire il commiato.

Le canzoni rimanenti riciclano con fantasia i punti cardine già evidenziati, risultando a tratti un po’ balbettanti ma tutto sommato positive nella loro ingenuità.

“Cranes” si dimostra una raccolta di episodi dream-pop dal gusto naif, composto con poesia e ispirazione, graziato per le sue lacune in virtù della perfezione formale e contenutistica, definitivamente promosso per l’aura che lo circonda.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 28 novembre 2008

Jet Tricks: "Remote Control" (Légerè Rec., 2008)



Il down-tempo verrà ricordato dai più come un’accozzaglia di melodie melense e fuori tempo massimo, nato come momento di svago da parte di musicisti svogliati. Se da un lato tale sensazione può rivelarsi veritiera nei confronti di certe produzioni, dall’altro si può affermare che nel sottobosco sono nate, nascono e continueranno a nascere opere di valore puro e intenso. La fase calante che questo genere ha accusato intorno all’inizio del nuovo millennio (con le dovute eccezioni del caso), non permette di approcciarsi in maniera adeguata nei confronti di uno stile straordinariamente vivo. Nonostante tali suoni non siano molto di moda, proprio nel 2008 si sono presentate sul mercato opere interessanti, tracciando un percorso immaginario con i volenterosi The Atomica Project, facendo tappa dagli smaliziati Khoiba e concludendo proprio con i Jet Tricks. Nonostante le strade percorse si differenzino in maniera sostanziale, i rispettivi risultati dimostrano come la struttura di base possegga un’elasticità al tempo stesso sorprendente e fuorviante.

Nati dall’unione artistica fra un contrabbassista cresciuto a pane e funk, ed un dj dalla solida esperienza nei club, la gemma che fa risplendere tale infrastruttura è la performer nera AdeFunke Ogundare. Ad un ascolto superficiale ciò che risalta in maniera netta è proprio la voce molto calda ed intensa della cantante, capace di esprimere gentilezza nell’interpretare brani dalla cadenza variegata. La stile strumentale, nonostante sovente ricalchi convenzionali strutture down-beat, giace con originalità nei dintorni di un acid-jazz contaminato da morbi soul dalle sembianze aliene. Le già citate capacità complementari della coppia maschile, permettono alla fantasia di sgorgare in direzioni anticonvenzionali, storpiando fraseggi melodici risaputi con risultati a tratti miracolosi.

L’anima nera di questa musica esce fuori attraverso l’ugola femminile, fra arpeggi lisergici di chitarra, scatti ritmici di natura broken-beat e un gusto per l’atmosfera flemmatica ma non indolente.

Splendidi singoli in chiaroscuro dipingono paesaggi al tramonto (malinconia noir in “Bagel Baking”, fumose policromie da spy-story con “Love Hangover”), cataclismi destrutturati ci regalano episodi dal sicuro valore aggiunto (la profetica “Free”, in due versioni ugualmente geniali), la dolcezza non banale delle canzoni più delicate racchiudono una miriade di spunti inediti (un soul meccanico in “Lose You”, emozionanti recitazioni con “Breathe Now”).

Trasportati dai cambi di marcia dell’inesauribile “Dont Touch Me”, ed accompagnati con grazia eterea dalla versione lounge dell’intro “Remote Control“, giungiamo al termine di un’opera atipica, con tutte le carte in regola per essere annoverata fra le migliori prove utili per la rifondazione di un intero movimento musicale.

(7,5)

recensione di alessandro biancalana

Fireflies : "Goodnight Stars, Goodnight Moon (Lavender, 2007)



Animato da un’ispirazione trasognata, il britannico Lisle Mitnik mette insieme un disco tutto sommato innocuo, ma estremamente piacevole. Dopo anni passati passeggiando per le tundre dell’Inghilterra più nebbiosa, il ragazzo si trasferisce in California per studiare composizione e iniziare a realizzare il suo sogno: scrivere canzoni in grado di esprimere tutta la sua passione per l’indie-pop primordiale. Capace di ammorbare timide poesie lo-fi con il folk-pop brumoso dei primi 90 (il riferimento ovvio sono i gloriosi Mazzy Star), il ragazzo infila una dopo l’altra dieci canzoni da cui sarà difficile allontanarsi. Hanno tutto ciò che può ispirare simpatia: voce registrata con timidezza, deliziosamente povera, chitarre altisonanti (la Sarah Records ringrazia per il tributo implicito), strumenti suonati con delicatezza quasi sommessa.

Bollare quest’opera come un tributo di meritevole generosità sarebbe quantomeno ingiusto, anche alla luce dell’impegno che l’artista elargisce per comporre qualcosa di personale e sentito, senza scadere nel rifacimento spicciolo. Una perenne atmosfera boreale circonda ogni singolo episodio, riportando alla memoria paesaggi nevosi, delineando traiettorie emozionali di forte impatto. L’uso di xilofoni e altri ammennicoli acustici impreziosisce un contorno già di per sé ricco, donando frizzante varietà, con punte di eccellenza (l’iniziale “I Was A Brontosaurus”, la natalizia “X-mas Song”) e alcuni scampoli struggenti (la minimale “We Heard The Fireworks”).

Dunque “Goodnight Stars, Goodnight Moon” si ritrova in grembo una manciata di canzoni gentili, ben composte, la cui unica pecca si può ritrovare nella scarsa originalità. Una lacuna ampiamente colmata dalla sconfinata cura che trasuda da ogni nota, un’attenzione ai particolari che, come in questo caso, può sopperire ad alcune mancanze solo in apparenza decisive.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 17 novembre 2008

Psapp: "The Camel's Back" (Domino Recordings, 2008)




Dopo due anni di pausa creativa, il duo antesignano del toy-pop torna con una collezione di canzoni colme di novità. “The Camel’s Back” si costruisce come naturale evoluzione del precedente "The Only Thing I Ever Wanted" e sviluppa percorsi stilistici ancora una volta inediti. La capacità rigenerativa di Carim e Galia sorprende fino a un certo punto, già in passato avevano dimostrato potenzialità evolutive fuori dal comune. Ridotto drasticamente l’uso della toy-orchestra che in passato li ha resi celebri, la band introduce un vago sapore mediterraneo, che contribuisce alla riuscita dell'operazione, tra sapori tropicalisti, arrangiamenti perfetti, voce e strumenti centellinati al grammo, e una sottile elettronica decorativa. Una fanfara tinteggiata con colori a pastello che si rifà il trucco, ma non cambia programma.

Scomposti filamenti di canzone si perdono in mille rivoli, la musica ci guida nei dintorni di melodie ridotte all’osso, arricchite con fantasia e gusto, variando struttura compositiva nel corso delle dodici tracce. Appaiono spumeggianti intrecci fra campionamenti e chitarre imbizzarrite (“I Want That”, “The Monster Song”), lanciando un messaggio di innovazione chiaro e limpido. Canzoni d’altri tempi sfumano leggere e ombreggiate (la frizzante “Part Like Waves” e i pulpiti gentili della title track), le policromie fioccano copiose e aggiungono tasselli ineguagliabili (la gustosa “Fickle Ghost” e le bizzarrie di “Somewhere There Is A Record Of Our Actions” ).

Attraverso due strumentali al limite fra sperimentazione pop e sfumature danzanti (“Marshat” pare una marcetta, “Homicide” è sghemba e disorienta), ci tuffiamo con rigogliosa felicità nei meandri dello spettacolo fin qui giunto solo all’introduzione. Coretti da baracca balcanica si imbellettano con impercettibili linee elettroniche (“Fix It”), “Mister Ant” sboccia fra ritmi doppi e ritornelli micidiali, le emozioni sgorgano inarrestabili con un piano languido e accigliato (“Screws”).

Annunciando una conclusione a sorpresa, il regalo finale che la band ci concede si concretizza con la perfetta “Parker”, un vero capolavoro di arte pop applicata al ritmo, sfrontata quanto basta, capace di comporre un’ideale sonorizzazione per una festa campestre dominata da balli sconclusionati, trombe scintillanti, luci fioche e una luna calante.

Calorosamente consigliato ad ogni amante della giocosità fusa con la tradizione della canzone popolare.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 10 novembre 2008

Les Fragments De La Nuit: "Musique Du Crepuscule" (Equilibrium, 2008)



Proveniente da esperienze di natura cinematografica, l’ensemble francese esordisce con il sorprendente “Musique Du Crepuscule” tratteggiando percorsi stilistici di grande interesse. Nata e concepita come opera magniloquente e profondamente sentita, la nutrita manciata di piéce orchestrali qui raccolte riesce a sedurre con grande fascino attraverso un mistura apparentemente monotona, ma capace di farsi scoprire dopo ascolti approfonditi. Il tempo speso per sviscerare l’anima di tanta profondità viene ripagato con l’abbagliante bellezza dell’atmosfera complessiva, evocata attraverso quadretti dipinti dagli innumerevoli strumenti impiegati. Violini stridono graffiati da un dolore indicibile, voci malinconiche fuggono impaurite come flussi di luce abbagliante, un violoncello balza assieme al piano, accorpati come un’ombra sfuggente nei pressi di una via buia.

Caratteristica preponderante di questa musica è la capacità di non stagnare in luoghi risaputi, sguscia e sfugge da ogni definizione, si ammorba autonomamente e fuoriesce limpida e pura come un liquido divino. Colonne sonore per film d’animazione noir squarciano emozioni celate (“Entre Ciel Et Fer”, “Assault”), aneliti solenni si gonfiano come fanfare opulente (“Devenons Demain I & II”), il minimalismo di note solitarie sboccia in un’angoscia straziante (“Solitude”, “. Solarisation”).

La patina vagamente ancestrale che circonda la parte finale del disco (i canti di “La Chambre Des Fées” e “Le Château Enchanté”, i frammenti notturni di “Soleils Noirs Pour Lune Blanche”) regala attimi di pura magia, rievocando alla mente frangenti musicali presenti in certi videogiochi gotici risalenti ad una decina d’anni fa (Heretic, Diablo).

La glaciale precisione e fluidità con cui il tutto scorre verso il commiato “Alpha Du Centaure” (leggermente troppo indolente) gioca a favore della scorrevolezza globale, qualità rara per questo tipo di prodotto musicale ed ulteriore stimolo per accogliere fra i vostri favori un gioiello raffinato ma non stucchevole.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 5 novembre 2008

The Adventure: s/t (Carpark Records, 2008)



La musica dei primi videogiochi a colori d’inizio anni 90 ha segnato il modo di concepire melodie elettroniche a livello artigianale. Dal Nintendo 8 bit passando per il Sega Mega Drive, le soundtrack di alcuni fra i più famosi momenti di intrattenimento dell’epoca, sono nate come colpi di genio dalle mani di ragazzi con quattro soldi in mano e tanta fantasia in testa. Descrivere la 8 bit music come evento musicale sarebbe compito gravoso all’interno di una sola recensione, tuttavia, risulta doveroso accennare al grande innovatore Rob Hubbard che a inizio anni 80 diede vita a un mondo immenso, una comunità di appassionati, vera e propria scena del mercato elettronico con gli anni a venire. Partendo per i giocosi Dat Politics, Covox e goto80, arriviamo al 2008 con The Adventure.

Nato in North Carolina, ventiquattrenne, Benny Boeldt compone animato dalla primordiale passione per le colonne sonore dei videogiochi della consolle Sega Genesis. Come dichiarato dall’artista stesso sul sito della Carpark, il suo disco non è solo retro-videogame-music, ma un mix fra il suono kitsch di “Popcorn” a nome Hot Butter, la saturazione pomposa dei teatrini electro-pop di Sparks e Yellow Magic Orchestra e un amore sconfinato per le melodie eccessivamente curate.

Incentrata sull’uso volutamente esagerato di synth gommosi e a bassa fedeltà, l’opera omonima del ragazzo americano splende di lucentezza innocente. Non solo capace di esprimere sincera commozione per le giornate passate davanti allo schermo, Benny dimostra sapiente controllo dei mezzi nel dosare al punto giusto ogni singolo elemento. Incastri ritmici non banali si susseguono in un tripudio di linee melodiche elementari, tastiere lanciate in evoluzioni mirabili donano splendore a un prodotto che nasce ingenuo, ma finisce per essere un divertente esempio di elettronica disimpegnata. Un talento il cui obiettivo sarà quello di incamerare intromissioni collaterali che possono rendere i prossimi lavori qualcosa di inimitabile. Da non perdere per chi ha ancora in soffitta la scatola di Zelda.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Bodi Bill :"Next Time" (Sinnbus, 2008)



I Bodi Bill sono un duo tedesco che con questo “Next Time” arriva al secondo disco, preceduto soltanto un anno fa da “No More Wars”. Poiché purtroppo non è possibile conoscere ulteriori elementi circa il loro passato, è opportuno prendere subito in considerazione il contenuto del loro lavoro. Nonostante il materiale a disposizione non sia molto, la coppia di musicisti è già riuscita a forgiare una soluzione musicale ben definita. Dediti a una forma inusuale di pop elettronico con voce vagamente soul (soluzione che ha reso celebre un certo Jamie Lidell), i due agiscono con grande elasticità stilistica, proponendo un prodotto quanto più vario e frizzante.

Il binomio introduttivo “One Or Two”-”Needles” esprime un potenziale di grande spessore: ritmi sincopati, pattern elettronici convulsi, voce calda e carismatica, cesellatura fantasiosa e un gusto retrò a condire il tutto. Le tracce cantate si districano con scioltezza fra i meandri dei pericolosi luoghi comuni del genere, intervallate da sinuosi strumentali dal respiro ambientale, a cavallo fra techno e ambient (“Sorry To Disturb You But I'm Lost”, “Small Sorrows, Great Songs”). Se l’amore per il soul nero viene omaggiato con fare divertito, senza la pestilenziale seriosità di certi interpreti bianchi, la smisurata attenzione con cui l’assemblaggio finale viene concepito merita un convinto encomio.
A mo’ di postilla finale, viene spontaneo elogiare lo sforzo complessivo nel fondere tante influenze con un risultato centrato e ben realizzato, tale da elevare “Next Time” a sorpresa pop dell’anno, capace di attirare un bacino d’ascoltatori molto ampio ed eterogeneo.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 8 ottobre 2008

AGF: "Dance Floor Drachen" (AGF Produktion, 2008)



A circa sei mesi dall’imponente “Words Are Missing”, giunge senza preavviso il quinto lavoro di Antye Greie-Fuchs, “Dance Floor Drachen”. Oltre alla pura musica presente in queste tracce, nella genesi dell'album si nasconde un concept dalle fattezze ambiziose. Innanzitutto non si tratta di una pubblicazione usuale, ma di un lavoro progettato, congegnato, scritto, composto per essere pubblicato solamente in formato digitale sul web. Come da testuali parole dell’artista, l’album non è stato realizzato e solo successivamente reso disponibile, anzi, l’idea di partenza è stata quella di adoperare i titoli delle tracce per lasciare un messaggio. Dunque, se li si legge dal primo all’ultimo, si ottiene: ”If you consider, than reconsider, ripping this track for free, you might slowly turn impotent, (because) this is reduced beauty from a Nazi Stalinist successor”. Pare perciò evidente che in origine sono nati i titoli e solo successivamente la musica.

Oltre a questa trovata molto spiritosa, l'opera sottende un intento decisamente più profondo: quello di dipingere uno sfondo vagamente introspettivo sul tema della fruibilità musicale nel 2008. Non si tratta solo di riflessioni sul cambiamento dei supporti con cui si usufruisce del prodotto musicale, ma il discorso si fa più ampio e va a minare il solido concetto di possesso generalizzato, come a volerlo trasformare in una nozione più astratta. Domande come: ”Possederemo la musica che compriamo o scarichiamo?”,  o ”Posseggo la mia musica?”, sono quesiti che l'artista pone a se stessa e agli appassionati che si avvicinano alla sua arte.

“Dance Floor Drachen” si occupa di sviscerare il lento cambiamento della percezione del possesso e lo fa non con proclami urlati ai quattro venti, bensì attraverso un’operazione studiata per essere silente e strutturata, lasciando alla controparte lo sfizio di percepire il messaggio nella sua interezza.

Quando una pubblicazione discografica ingloba spunti di riflessione, può talvolta riservare sorprese (negative) dal punto di vista strettamente musicale, ma per fortuna questo non avviene in questo caso, poiché la passione riversata da AGF nella sua musica trascende ogni possibile intento intellettualoide.

“Dance Floor Drachen” si discosta in parte dalle sembianze non certo accomodanti di “Words Are Missing”. Nonostante l’ormai usuale lavoro di sperimentazione sulle possibilità timbriche della voce, AGF questa volta scarta cavillosi sviluppi avant per dare spazio a ritmi e strutture più ariose. Il concepimento di questo disco passa per l’idea di voler registrare pattern vocali a cui sovrapporre semplici ed essenziali beat, privi di musica o strumenti aggiuntivi. Inoltre, molte delle tracce qui presenti sono state cesellate riesumando vecchi scampoli di composizioni condivise con altri artisti.

L’iniziale “If You” - la traccia è stata scritta nel 2001 per Vladislav Delay e mai pubblicata - anticipa già questa impostazione, visto che si basa su un pattern timbrico molto regolare e su battute secche. Nello sviluppo della traccia appaiono scuciture rumorose che squarciano una costanza fino a quel punto soltanto immaginata. Vera e propria apertura dell’album, la traccia recita la frase a cui si fa riferimento poc’anzi, rivelandosi un portale d’ingresso all’intera opera.

“Consider” nasce da una improvvisazione ottenuta con radiaL (live software prodotto da Cycling 74) ed è uno splendido quadretto spumeggiante, leggermente improvvisato e schizofrenico. “Than Reconsider” incastra un appeal molto minimale ma non tedioso, sul quale le pulsioni veleggiano con fumosa velocità. La voce rappresenta, come al solito, uno strumento accessorio che pare anch’esso programmato attraverso un software specifico, tanto che l'asetticità che potrebbe riscontrarsi in essa non ha certo una connotazione negativa, anzi la placidità con cui si distende nelle membra delle composizioni è contagiosa. Ispirata da alcuni sample tratti una scena aerea di un film di Hollywood (non è dato sapere quale), “Ripping This Track” è animata da un impeto disconnesso, capace di trasportare in un gorgoglio di scampoli digitali da epilessia sensitiva. “For Free” si basa su alcuni field recordings registrati nel marzo 2008 davanti alla nona strada di New York, testimoniando la placida progressione di una comune giornata urbana. “You Might” esplode e si racchiude in flussi pericolosamente vertiginosi e nasce come remix di una composizione originariamente scritta per un film di Sue.C.

“Slowly” è un rifacimento di “Tunesia”, traccia composta a quattro mani con Vladislav Delay, e pare la sonorizzazione per un teatrino digitale andato in cortocircuito, “Turn Impotent” è una commovente narrazione in presa diretta, in cui suoni e contorno fanno da scenario per una confessione a tratti urlata, in altri sommessa e docilmente sussurrata. “(because) This Is” agisce con folle ripetitività nei meandri più nascosti della percezione uditiva, la frase “This Is” viene incrociata fra decine di piani d’esecuzione accoppiando un beat deciso e muscoloso, fino al raggiungimento di un risultato di ipnosi futurista.

“Reduced Beauty” rimaneggia la traccia "You Stop" presente nel capolavoro “Westernization Completed” del 2003 e, nonostante i cambiamenti, la poliritmia che ingabbia gli sguscianti deflussi vocali di quel glorioso frangente, mostra ancora tutto il suo splendore. La conclusiva “From A Nazi Stalinist Successor” rappresenta infine la discesa negli inferi sotto forma di cronaca astratta.

Opera fortemente concettuale ma non per questo carente dal punto di vista musicale, “Dance Floor Drachen” conferma ancora una volta la statura artistica di AGF, sviluppando spunti ancora una volta inediti, distogliendo l’attenzione da trend stantii per suscitare invece riflessioni finora mai veramente approfondite a dovere.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana




venerdì 3 ottobre 2008

Boduf Songs: "How Shadows Chase The Balance" (Kranky, 2008)



Due anni dopo l'intensissimo "Lion Devours The Sun", riemerge dal suo antro creativo l'inglese Mat Sweet che, ormai giunto al terzo album sotto l'alias Boduf Songs, ha ormai consolidato il proprio profilo di cantautorato lo-fi, sofferto e isolazionista. Sweet sembra davvero un artista fuori dal tempo, immerso in una solitudine agognata quale indispensabile viatico alla scrittura, un artista quasi senza volto, come dimostra la sostanziale assenza di immagini che lo ritraggano e il fatto stesso di non utilizzare in alcun modo le possibilità di diffusione della sua musica offerte dalla rete (caso più unico che raro, non ha nemmeno un pagina Myspace).

Laddove il mercato musicale – persino quello indipendente – riesce con difficoltà a fare a meno dell'apparire e di piccoli e grandi hype, viene invece da immaginare Mat Sweet in una solitaria dimora immersa nella più profonda countryside inglese, dalla quale esterna con discrezione al mondo la sua ispirazione per il solo tramite dei suoi brani. L'isolamento creativo, in "How Shadows Chase The Balance", è anzi accentuato poiché per la sua realizzazione, come sempre casalinga, Mat Sweet ha prediletto le ore notturne, con il dichiarato intento di ridurre al minimo i rumori di fondo delle registrazioni e con quello, consequenziale, di farsi circondare da un contesto ancor più intimo e raccolto, il cui silenzio riempire soltanto con compassate spirali acustiche e con il suo cantato tenebroso.

Tali presupposti generano, non a caso, un album dalle strutture, se possibile, ancora più scarnificate del solito, che vede Mat Sweet rielaborare gli elementi essenziali della sua musica, giustapponendoli per enfatizzarne i tratti più aspri, ora portati in primo piano, ora compressi per lasciare spazio ad un'indole melodica quasi del tutto inedita. Accanto alle abituali litanie al rallentatore, che introducono in una tetra temperie onirica, "How Shadows Chase The Balance" denota una graduale evoluzione verso una serie di approdi possibili. Le scarne componenti folk della musica di Boduf Songs si colorano, da un lato, di più lievi accenti acustici, che fanno capolino in vere e proprie canzoni dalla chitarra pulita e dalle melodie meglio delineate ("I Can't See A Thing In Here", "A Spirit Harness", "Last Glimmer On A Hill At Dusk"), dall'altro perdono i propri caratteri originari, assumendo una dimensione ritualistica in composizioni incrementali, che sfociano in mantra spettrali ("Don't forget to fall apart/ don't forget to come undone"), mai così prossimi a depressive sfumature gotiche.

Fin dall'inizio, il sibilo che si distacca dallo statico silenzio di "Mission Creep" è pura inquietudine solitaria, messa a nudo da un arpeggio di chitarra quanto mai chiarificatore; la voce claudicante pare un lamento protratto con stanca solennità.

Il frequente inserimento del banjo fra le melmose note di chitarra stride con un risultato finale quasi acidulo, addolcendo un contesto in apparenza immobile di fronte a qualsiasi tentativo di levigazione, come dimostra l'imperscrutabile "Things Not To Be Done In The Sabbath".

Parvenze ritmiche prendono corpo con la batteria altalenante di "Quiet When Group", vera e propria discesa negli inferi dall'incedere a tratti indolente ma mai dispersivo, capace di condurre su lidi dove la pioggia non cessa mai e il cielo è perennemente oscuro.

Spirali luciferine avvolgono, poi, "Pitful Shadow Engulfed In Darkness", che si presenta come un mantra folk meditativo e dalla struttura ridotta all'osso, scarnificata fino al limite dell'impalpabile, che pare ispirato da un tormento indescrivibile, evocato da recondite anime piangenti.

In coerenza con certe dilatazioni ambient-folk già riscontrabili nel repertorio passato di Sweet, gli opulenti sette minuti di "Found On The Bodies Of Fallen Whales" sono incentrati su una nota sinistra, costretta a duplicarsi con lentezza, cesellando un immaginario spaziale capace di fare a meno delle parole. Il finale, sorretto ancora da un tintinnante banjo, conclude l'opera strizzando l'occhio a una felicità lontana, ma tanto tangibile da diradare con un soffio di coraggio una nebbia troppo fitta per non essere vera.

Anche a fronte della generale, accresciuta sensibilità melodica, permane tuttavia sempre la costante di uno spirito dolente, esacerbato da una componente lo-fi adesso più pulita che in passato, ma sempre tale da aggiungere efficacia tagliente alla cupezza repressa che promana da questi brani. Ad essere in parte mutato non è allora tanto la sensazione di sofferenza autentica e solo parzialmente esternata, quanto invece l'espressione, adesso più piana e melodica, resa in qualche misura meglio fruibile attraverso una temperata destrutturazione sonora e una maturata capacità di scrittura.

I foschi orizzonti di Mat Sweet restano sempre alieni da ogni rassicurazione e, a modo loro, emotivamente urticanti, tuttavia in "How Shadows Chase The Balance" il suo autoindotto isolamento creativo sembra aver trovato insospettabili veicoli comunicativi, sotto forma di una tormentata vena melodica, che testimonia la compiuta transizione cantautorale dell'enigmatico artista inglese.


(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

domenica 28 settembre 2008

Trouble Over Tokyo : "Pyramides" (Schoenwetter Schallplatten, 2008)


Gli esordi discografici, supportati dall’ansia d’ascolto dovuto alla novità, sono sempre stati origine di grande sorpresa e soddisfazione. Il caso di Trouble Over Tokyo ricalca questa abitudine per la sua freschezza e inusualità. Il ragazzo, nato in un soporifero sobborgo nella zona sud-est di Londra,  da piccolissimo mostra spontanea ispirazione nei confronti della musica. A 9 anni la prima canzone, poi un’adolescenza indolente fra fallimenti ripetuti all’interno di band locali e qualche peccato di gioventù. Dopo questi anni di perdizione, ammaccati ulteriormente da delusioni cocenti, arriva la possibilità di esprimere le proprie sensazioni musicali in maniera concreta. Arrivato un debutto limitato a 1000 copie intitolato semplicemente “1000” (ad oggi irreperibile), nel 2007 giunge una seconda opera a larga scala che lo mette in risalto per il suo stile inconsueto.

“Pyramides” esalta caratteristiche ed esprime potenzialità inarrivabili. Se da una parte abbiamo una voce interessante, la musica non è da meno e distingue per la cura con cui è stata assemblata. Le corde vocali paiono un intrigante mix fra la schizofrenia luciferina di Micheal Jackson, la malinconia del più drammatico Thom Yorke e il pomposo Freddie Mercury. Se da una parte riferimenti del genere possono creare un qualcosa di veramente mostruoso (nel senso negativo del termine), dall’altra va evidenziato quanto il ragazzo si impegni per non risultare anacronistico e stucchevole. In questo l’aiuta il contorno musicale molto curato e mai sovrabbondante, capace di contenere certi assoli d’ugola un po’ autoreferenziali, trincerando il cattivo gusto un attimo prima che sgorghi inarrestabile in tutte le canzoni.

Dal punto di vista tecnico siamo di fronte a una miriade di influenze ben impastate in un qualcosa di quantomeno coraggioso se non a tratti originale. Forti rimandi al synth-pop chitarristico vengono ammorbati da campionamenti classici, beat acidi al limite dell’electro-clash mostrano il lato più ruvido dell’artista, ballate romantiche danno sfogo ad emozioni più distese. Come strumento principe, oltre alla chitarra, abbiamo il piano che riesce a donare dinamicità e a frenare eventuali strutture elettroniche troppo opulente. La tanta carne al fuoco in alcuni frangenti è fuori asse e un po’ azzardata, tuttavia ciò dimostra ulteriormente la voglia di scostarsi dall’ovvietà e provare qualcosa di diverso, sensazione questa che si evince da un ascolto anche solo superficiale dell’album.

Il mood è melodrammatico dai primi istanti dell’album, con l’elegia dell’incipit “Start Making Noise”, prima decantata su una chitarra arpeggiata, poi su un finale electro-pop irto di beats angolari. Pianoforte, tastiere atmosferiche e un battito sintetico fanno da base a “Save Us”, restando sempre nel background, lasciando alla voce da virtuoso del vocalist tutto lo spazio di cui ha bisogno per un refrain in un falsetto conturbante. Il capolavoro dell’album è “The Liar”, pop-song esemplare: sempre sospesa tra melodramma e fiaba, riesce a mantenersi a un passo dal kitsch senza mai scivolarvi, grazie a gorgheggi efebici e un tappeto di violini sempre opportuno e mai eccessivo; altro picco la ballata elettronica-acustica “4,228”, con ospite alla voce Milly Blue (già vocalist per i Basement Jaxx).

I momenti meno entusiasmanti sono quelli in cui viene meno il dinamismo dell’elettronica, a favore di un andamento più dimesso e intimista; è il caso della ballata “Eyes off Me”, con un soffice tappeto d’archi e un’interpretazione forse troppo altisonante. Il disco riprende però quota con “My Anxiety”, con la voce – più black che mai – che si destreggia sinuosa tra synth roventi e un pattern ritmico davvero epidermico; spettacolare anche lo sviluppo di “No-Handed (Part III)”, dalla quiete dell’inizio alla tempesta del finale, epico e in crescendo.

C’è spazio per altri due brani: “The Dark Below (Oh….. My God)” – un po’ blanda, invero – e la giocosa “Pyramids”, ideale conclusione di un disco dalle molteplici sfumature, che si propone come un caleidoscopio di umori e soluzioni tecniche.

Fresco e alle volte spiazzante, “Pyramides” è un ideale punto di incontro di tecnica vocale e fruibilità pop, di atmosfere cupe e suoni ariosi, di tensione e movimento: c’è ancora da lavorare e qualcosa da rifinire, ma possiamo dirci soddisfatti di un album promettente e assolutamente personale.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Alessandro Nalon

mercoledì 24 settembre 2008

Antenne


La musica nata da freddi fiordi settentrionali, sovente evoca atmosfere vagamente misteriose, sul crinale e divisa fra sensazioni glaciali ed emozioni appaganti. Gli Antenne, provenienti dalla meravigliosa Danimarca, ricalcano in maniera più o meno fedele il lemma sopra enunciato. I componenti di questo duo danese sono Kim G. Hansen e Marie-Louise Munch. Il primo, già 42enne, ha militato nel duo industrial Institute For The Criminally Insane riuscendo a pubblicare nel 1994 un album intitolato “Gekippt”, discreto compendio fra EBM scabrosa ed elettronica inferocita. Marie-Louise ha coltivato, sia prima che dopo la conoscenza con Kim, l’esperienza negli Amstrong. In questo caso ci si aggira nei dintorni di un risultato tutto sommato ragguardevole e deliziosamente di nicchia, molto simile agli Antenne, fra trip-hop e cesellature oscure. Gli album sono ben tre (“Sprinkler” (’99), “Hot Water Music” (’01), “Lack Of You” (‘05)) e c’è di che gioire per gli amanti degli intarsi acidi dei Primal Scream di Exterminator. L'incontro con Marie, avvenuto intorno al 1999, unito con la scoperta del computer come “strumento” di composizione, hanno stravolto il modo di concepire la musica per Kim. Una voce femminile così fatata non poteva che meritare un contorno musicale delicato, oscuro, crepuscolare, tutto ciò che non si presagiva dato il background dai lineamenti estremi maturati dalla controparte maschile del duo. Fedeli alla loro passione per un suono grumoso e spesso cadenzato da docili tocchi ritmici, la musica degli Antenne sfugge da ogni definizione mirata e circostanziata. Nel corso delle loro tre tappe coincidenti con le loro tre opere, la formula utilizzata è spesso variata grazie alla rara poliedricità compositiva di Kim, autore di musiche, arrangiamenti e mixing. Imperniati nei dintorni di un trip-hop dalle tinte fosche e straziate, il fattor comune da individuare è l’attitudine all’atmosfera oscura, mai troppo sostenuta, sempre intinta in un’oasi colma di ottenebrante terrore sopito, capace di evocare distese medioevali in cui nebbia, umidità e un timido vento la fanno da padrone. Dal punto di vista tecnico, oltre al già citato trip-hop, si ritrovano timidi rimandi all’era d’oro del dream-pop, retaggi d’una electro ormai sopita (i primi glitch applicati al pop apparirono intorno alla fine dei ’90) ed una leggera brezza new-wave proveniente dalle precedenti esperienze di Kim. L’altro elemento che marchia a fuoco la musica del duo danese è la voce di Marie, paragonabile ad un miracolo divino. Le melodie fin qui accompagnate dal canto, anche dal solo vocalizzo sussurrato a mo’ di anelito, trasformano banale silenzio in frangenti strazianti, sobbarcandosi l’impeto di una decorazione che si eleva ad elemento essenziale.

La loro carriera prende il via con #1 che, anticipando la notizia più succosa di tutta la monografia, risulterà l’opera più riuscita, come un vero e proprio capolavoro di rara intensità. Nove tracce colorate da un grigiore autunnale, disturbate solo minimamente da una componente elettronica offuscata, dove gli strumenti classici si intrecciano per creare un’atmosfera complessiva fuori dal comune. I primi suoni di “Here To Go”, la traccia iniziale, sono l’ingresso ad un mondo a se stante. Parte sommessa, con un rullante attorniato da stelle digitali, dove, dopo pochi secondi, appare, come il sole all’alba, la voce di Marie. Molto simile a una certa Beth Gibbons, forse ancora più caratteristica, le parole incantano, si perdono nel vuoto, mentre le particelle elettroniche sprizzano colori.  Suonano, le parole, insieme agli altri apparati sonori, in un canto dolce, triste e leggero, come sfoglie di legno sotto una luce grigiastra. Il tutto, svanisce, si disgrega, fino al finale, e nemmeno ci siamo accorti che sono già passati sette minuti. “Like Rain” azzarda l’episodio trip-hop in cui la componente ritmica prende il sopravvento, incastrando un groove minimale insieme al cantato quasi sussurrato. I lamenti del sintetizzatore, accoppiati al beat, si arricchiscono, in un secondo momento, con un drone pieno di angolature, una chitarra appena udibile, gracili clangori acustici. In sottofondo, quasi come se fosse un gemito nascosto, la voce viene costretta a ripetersi, in un ciclico loop ipnotizzante. Il passaggio si chiude con un rumore bianco minimale per fare da introduzione al pezzo successivo: “Let Me Ride It”. Episodio completamente strumentale, basato su uno sfrigolio digitale, un tappeto di tastiere ambientali, vari campionamenti sonori, e un tono pacato fino alla metà, quando, all'improvviso, compare un rimbombo percussionistico, poi amplificato progressivamente, accompagnato dal finale magico e fatato, incentrato su un timbro ovattato. Giunge infine “Whispering”, già epitaffio programmato e scintilla lucente. Sciocchi glitch sotto un contorno di sporcizia sonora, una chitarra suonata con il cuore in gola, ancora una volta, la voce di Marie in primissimo piano. Si parla di sussurri, speranze, paure: “There’s no worries, I am just waiting. There’s no hopes, I am just floating..”. Una tromba, nei frangenti in cui non c’è il cantato, borbotta scomposta, insieme alla chitarra che scappa via, veloce e imprendibile. Altro strumentale dal fascino notturno in “PPG Hold PRG.1”, basato su un ritmo a bassa battuta, gocce di suono centellinate con precisione, quasi a scovare un punto di collisione fra le musiche dark-ambient e il trip-hop strumentale.

Si insinua una melodia indecisa nella traccia successiva, “Moving Slow”, facente da anticamera alla solita favola trasognata espressa anche con parole come queste :”Moving slow, across the sky.. Big black pink sky.. Hold on.. to laughing.. Falling away.. in the deep red blue sky”. Sei minuti di completa immersione in un cosmo sospeso e immaginifico. L’asso nella manica, però, deve ancora venire. Come penultima traccia, c’è “Something Not To Do”. La sovrapposizione iniziale fra un sintetizzatore moog d’altri tempi ed un un loop digitale, è già un colpo al cuore. Quando, dopo pochi secondi, il canto inizia a fluire, il tempo si ferma:"Cool braines, is falling down.. Down and down, through the night..Blank night, last forever.. down and down in my eyes.. Something Not To Do but only knows, Something Not To Do but only knows”. La musica, a questo punto, è soltanto un contorno di ottima qualità, compagno di pari importanza per la voce, un abbellimento, come un vestito splendido fra le carni di una principessa incantata. La conclusiva “Memo”, ennesimo strumentale dal fare tenue, chiude il disco senza rancori, con alcuni frangenti molto evocativi, melodie circolari, bollicine elettroniche galleggianti. Subito dopo l’uscita del disco, viene pubblicato il maxi singolo di “Here To Go”, con remix molto interessanti da parte di Full Swing, Zammuto, Accelera Deck e Metamatics. Al suo interno si trova anche un inedito intitolato “Going Nowhere”, astratto ed opera di sottrazione minimalista.


A due anni di distanza dall'immensa opera prima, il duo danese sforna un disco che si pone sulla scia di #1, ampliando i territori esplorati e con una vena particolarissima. Nelle sue sette tracce, #2, ripercorre percorsi già battuti nell'esordio, colorando però il tragitto di tinte nuove. Se la neve, le gelate brezze di gennaio, i cristalli di ghiaccio che paiono pendere dagli aghi dei pini, erano musicalmente quanto di più vicino ci fosse nell'immersione di #1, ecco che con il disco targato 2002 si esplorano tinte autunnali, fatte di note soffuse, chiarori accennati, tratti caldi e un avanzare lento che copre il suono in tutto il suo svolgersi. Proponendo una amalgama tanto originale quanto emozionante, il duo sforna un disco coinvolgente che mischia attitudine trip-hop e le note del miglior slow-core. Non a caso la prima traccia è un remake di 'Black Eye Dog', inedito contenuto nella compilation 'Time To Reply', a nome Nick Drake. Fondendo glitch, respiro affannoso e note di pianoforte, l'impatto iniziale è assolutamente devastante: il canto sinuoso si innesta in un'atmosfera senza tempo, si scorgono visioni mistiche fuori dal mondo, una tastiera dipinge la circolarità del suono che avvolge e scompare. Nei quasi nove minuti di 'Not Sad' l'arpeggio di chitarra, accompagnato da un leggerissimo ed impercettibile rullante, si reitera in maniera quasi ossessiva accompagnato da accenni jazz, come nei migliori Bark Psychosis, in un moto perpetuo che si va via via dissolvendo in un mare magnum di densi sfilacciamenti elettrici che accompagnano la voce di Marie-Louise. 'Annex Aug', che pare un vero e proprio divertissement, è forse la nota stonata dell'album: una coltre elettronica, dai tratti vagamente industrial, che si perde in sé stessa.

A chi pensava che 'Annex Aug' potesse essere l'inizio della fine ecco che giunge alle orecchie 'Across The Way': un glitch granulare in sottofondo disturba in maniera lieve una melodia che si svolge tra una chitarra che insiste sempre sulle stesse note, soavi campionamenti d'archi e una voce da lacrime. E, all'ascolto di 'Dead Dreams', tutto si potrà dire tranne che siano sogni morti quelli teorizzati dal duo. Il moto uniforme, lucido eppure sporcato nella sua limpida essenza da tratti shoegaze, deflagra nella più dolce delle collisioni. La spettrale 'Cleary Wrong', sospesa tra riverberi elettronici e immersionii ambient, apre le porte alla conclusiva 'Sunwalk', sicuramente uno degli episodi più particolari e sperimentali del duo. Fondendo lievi tepori psichedelici e marcate linee di basso, con in sottofondo tenui accenni di tastiere old-school, gli Antenne costruiscono un brano dai contorni dilatati che non sfigurerebbe affatto nei primissimi Air. Innovando e rinnovando il duo danese, nel suo microcosmo sonoro, si destreggia con innata abilità sapendo emozionare e risultando a tratti realmente maestoso. Inferiore al precedente con un solo difetto: quello di arrivare dopo un capolavoro.

Dopo un biennio di discreta prolificità discografica (‘00/’02), la band osserva un periodo di riposo molto lungo, infatti, l’opera successiva sarà proprio “#3”, uscito a metà maggio del 2008. In questi sei anni di inattività della band madre, i due componenti rimangono comunque più o meno attivi con interventi o collaborazioni all'interno di opere altrui.

Nel 2002 la band collabora con un’artista danese (Lise Westzynthius) suonando un paio di strumenti (chitarra e synth) e curando il mixaggio e la produzione in un pezzo: “French Leave”. Sia la canzone in oggetto che l’album (“Heavy Dream”) esplorano territori leggermente più ruvidi con risultati alterni ma molto interessanti.

Fino al 2005 l’attività risulta sopita, finché spunta una stuzzicante partecipazione di Marie-Louise all’unica opera solista di Norken: “Our Memories Of Winter”. La voce donata ad un tappeto sonoro così estraneo alle esperienze precedenti dell’artista, sorprendono e valorizzano le qualità della ragazza come performer. I tratti al limite di certe electronic-song molto ben abituate ad atmosfere da club notturno, rivelano particolarità molto interessanti del timbro vocale, svelando una insospettabile voglia di percorrere altre strade.

Viene pubblicato all’inizio dell’anno un split su un 12” fra la sigla Antenne e la band Cryptic Scenery, in cui si presenta uno dei pezzi di #3 (“Long To Kiss”), a dimostrare come la maggior parte delle canzoni presenti nell’album siano state completate molto prima della data di pubblicazione.

Sempre nello stesso anno indichiamo la presenza di una versione acustica di “Black Eyed Dog” all’interno dell’album “The Bodyshop” dei Beequeen. La struttura spogliata dagli arrangiamenti elettronici donano all’interpretazione di Marie una magia incontrollabile.

Nel 2006 è da segnalare una stretta collaborazione con un altro ensemble danese dal nome Pellarin & Lenler. Nel loro “Going Through Phases” sia Maria che Kim scrivono insieme al duo “Taiko”, uno splendido affresco electro-pop da brividi. Nel complesso, tutto l’album si attesta su una qualità complessiva invidiabile, attraversando pulsioni dub, intromissioni dal calore ritmico soul e un pizzico di sfrontatezza in termini di commistione stilistica.

Nel 2007, viene ancora ripescata la cover di Nick Drake “Black Eyed Dog” all’interno dell’album “Lost Days, Open Skies And Streaming Trees” di Manual, in cui l’artista danese esegue un remix meditativo proponendo una versione placida e docilmente flemmatica.

Nel corso di questi 6 anni ed anche prima, risulta fondamentale indicare le inclusioni in numerose compilation di alcuni brani degli Antenne. Fra raccolte che racchiudono artisti danesi ed altre a tema stilistico, le più significative sono tre. Le prime due sono la colonna sonora di un film danese intitolato “Nordkraft” (2005) in cui è presente la magica “Whispering” e la raccolta “Full Swing Edit” (2001) assemblata da Stephan Mathieu, dove troviamo un inedito già citato nel singolo di “Here To Go”, “Going Nowhere”. L’ultima occasione da citare merita una menzione speciale perché proposta da un’etichetta molto interessante, la Suspicious Records. La compilation si chiama “Broken Nightlights” (2006) e racchiude una serie di artisti elettronici europei dalle capacità inestimabili ma poco conosciuti, fra cui citiamo Sunday Munich, Leaf, Saltillo e Clover. L’operazione di sdoganamento effettuata dalla compagine discografica (e dalla sua etichetta-madre, la Hive Records) è un vero e proprio miracolo musicale per chi ha voglia di scoprire nuove realtà altrimenti relegate nell’oscurità. L’inedito qui proposto si intitola “Redmoon” ed espone un lato incorporeo e molto fine, relegando la ugola di Marie a mero contorno per i suoni sibilanti e scomposti.

Superati i gravi problemi dovuti alla ricerca di una etichetta disposta a pubblicare “#3”, la band sul finire del 2007 riesce a trovare ricovero nella piccola ma interessante Helmet Room Recordings. Pochi adepti erano in trepidazione per l’uscita di quest’ultima fatica del duo, d’altronde, la scarsa visibilità data alle loro gesta non ha certo giovato nemmeno alla distribuzione delle opere, spesso deficitaria ed assassina. Ciò che stupisce maggiormente delle composizioni degli Antenne, nel corso dei tre album, è indubbiamente la capacità di reinventarsi sempre da capo. Discostandosi dalle ombre slow-core del secondo disco e riavvicinandosi al trip-hop propriamente detto, #3 colpisce, ebbene sì ancora una volta, dritto dritto al cuore. L'incedere dismesso, le foglie cadenti, l'incalzare di qualche morbido beat colorano a tinte fosche il terzo disco del duo. L'avvio è spiazzante: gli oltre sei minuti di 'Long To Kiss' si colorano di riflessi medievali, fondendo anima dark e venature (neo)classiche. E se all'ascolto della traccia d'apertura un sentimento di mestizia avvolge il cuore, il dolce tepore di 'Gloves On', accompagnata da un video strappalacrime, riporta al cuore il sangue raggelato. Nel dipingere distese vuote, spoglie d'alberi e d'anime, vive il lento scorrere delle note, accompagnate da uno splendido giro di chitarra.

I chiarori analogici che fanno da apripista e da contorno lungo tutto il suo incedere a 'Days Into Nights' paiono raggi stellati che illuminano a giorno una notte metropolitana, luci al neon in lontananza e il freddo che si insinua tra gli abiti. E se la successiva 'Trreaa#7' riporta alla memoria i frammenti meno cupi e desertici dei Pan Sonic, accenni dub come nei migliori Thievery Corporation si insinuano in 'Blue Light'. 'Ernst', nel suo avanzare tra campionamenti e pianoforte sporcato da una leggerissima coltre nebbiosa, potrebbe essere uscito benissimo dal repertorio dei Giardini di Mirò più sperimentali. Negli archi della penultima traccia, intitolata 'End', in un moto circolare, gli Antenne riprendono l'austerità classica del primo brano, svolgendola divinamente assieme ad una chitarra che regge la melodia  verso una deliziosa deriva folk. Ancora una volta, come in #2,  la traccia finale, 'All Of Us', ricalca le note di un'elettronica che gioca a contaminarsi con una vena psichedelica decisamente sixties, in pieno stile Air.
Il terzo capitolo del duo danese emoziona, stupisce, commuove. Fondendo elementi distanti con una innaata naturalezza, gli Antenne fotografano tepori metropolitani in odor di una soave tenebra. Ed è dolce perdersi nel loro mare. “#3” rimane coerente alle scelte stilistiche colte in passato, sintetizzando tutto ciò che c’è ancora da dire in 8 canzoni, capaci di scorrere via come pugni di sabbia polverosa o di sedimentare negli spazi più reconditi della memoria di ogni ascoltatore anche casuale. 

di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

Antenne: "#3" (Helmet Room Recordings, 2008)


La musica nata da freddi fiordi settentrionali, sovente evoca atmosfere vagamente misteriose, sul crinale e divisa fra sensazioni glaciali ed emozioni appaganti. Gli Antenne, provenienti dalla meravigliosa Danimarca, ricalcano in maniera più o meno fedele il lemma sopra enunciato.

Con alle spalle una carriera non molto proficua, composta da soli due album, la band cerca di tornare alla riscossa con un’opera completa dopo ben sei anni da “#2”. Fedeli alla loro passione per un suono grumoso e spesso cadenzato da docili tocchi ritmici, la musica degli Antenne sfugge da ogni definizione mirata e circostanziata. Nel corso delle loro tre tappe coincidenti con le loro tre opere, la formula utilizzata è spesso variata grazie alla rara poliedricità compositiva di Kim G. Hansen, autore di musiche, arrangiamenti e mixing. Imperniati nei dintorni di un trip-hop dalle tinte fosche e straziate, il fattor comune da individuare è l’attitudine all’atmosfera oscura, mai troppo sostenuta, sempre intinta in un’oasi colma di ottenebrante terrore sopito, capace di evocare distese medioevali in cui nebbia, umidità e un timido vento la fanno da padrone. Dal punto di vista tecnico, oltre al già citato trip-hop, si ritrovano gracili rimandi all’era d’oro del dream-pop, retaggi d’una electro ormai sopita (i primi glitch applicati al pop apparirono intorno alla fine dei ’90) ed una leggera brezza new-wave proveniente dalle precedenti esperienze di Kim. L’altro elemento che marchia a fuoco la musica del duo danese è la voce di Marie-Louise Munch, paragonabile ad un miracolo divino. Le melodie fin qui accompagnate dal canto, anche dal solo vocalizzo sussurrato a mo’ di anelito, trasformano banale silenzio in frangenti strazianti, sobbarcandosi l’impeto di una decorazione che si eleva ad elemento essenziale. 

Superati i gravi problemi dovuti alla ricerca di una etichetta disposta a pubblicare “#3”, la band sul finire del 2007 riesce a trovare ricovero nella piccola ma interessante Helmet Room Recordings. Pochi adepti erano in trepidazione per l’uscita di quest’ultima fatica del duo, d’altronde, la scarsa visibilità data alle loro gesta non ha certo giovato nemmeno alla distribuzione delle opere, spesso deficitaria ed insufficiente. Ciò che stupisce maggiormente delle composizioni degli Antenne, nel corso dei tre album, è indubbiamente la capacità di reinventarsi sempre da capo. Discostandosi dalle ombre slow-core del secondo disco e riavvicinandosi al trip-hop propriamente detto, "#3" colpisce, ebbene sì ancora una volta, dritto dritto al cuore. L'incedere dismesso, le foglie cadenti, l'incalzare di qualche morbido beat ,decorano di sfumature oscure il terzo disco del duo. L'avvio è spiazzante: gli oltre sei minuti di "Long To Kiss" si colorano di riflessi arcaici, fondendo anima dark e venature (neo)classiche. E se all'ascolto della traccia d'apertura un sentimento di mestizia avvolge il cuore, il dolce tepore di "Gloves On", accompagnata da un video strappalacrime, riporta al cuore il sangue raggelato. Nel dipingere distese vuote, spoglie d'alberi e d'anime, vive il lento scorrere delle note, accompagnate da uno splendido giro di chitarra.

I chiarori analogici che adornano tutto l'incedere di "Days Into Nights", paiono raggi stellati che illuminano a giorno una notte metropolitana, luci al neon in lontananza e il freddo che si insinua fra gli abiti. E se la successiva "Trreaa#7" riporta alla memoria i frammenti meno cupi e desertici dei Pan Sonic, accenni dub come nei migliori Thievery Corporation sono le intarsiature principali di "Blue Light". 'Ernst", nel suo avanzare tra campionamenti e pianoforte sporcato da una leggerissima coltre nebbiosa, potrebbe essere uscito benissimo dal repertorio dei Giardini di Mirò più sperimentali. Negli archi della penultima traccia, intitolata "End", in un moto circolare, gli Antenne riprendono l'austerità classica del primo brano, svolgendola divinamente assieme ad una chitarra che regge la melodia verso una deliziosa deriva folk. Ancora una volta, come in "#2",  la traccia finale, "All Of Us", ricalca le note di un'elettronica che gioca a contaminarsi con una vena psichedelica decisamente sixties, in pieno stile Air.

Il terzo capitolo del duo danese emoziona, stupisce, commuove. Fondendo elementi distanti con un'innata naturalezza, gli Antenne fotografano tepori metropolitani in odor di una soave tenebra. Ed è dolce perdersi nel loro mare. “#3” rimane coerente alle scelte stilistiche colte in passato, sintetizzando tutto ciò che c’è ancora da dire in 8 canzoni, capaci di scorrere via come pugni di sabbia polverosa o di sedimentare negli spazi più reconditi della memoria di ogni ascoltatore anche casuale.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

martedì 9 settembre 2008

Shed: "Shedding The Past" (Ostgut Tonträger, 2008)



Nel mondo della musica, quotati esperti sostengono che ogni piccola nicchia di suono abbia sempre un punto di (ri)generazione, e che quel punto sia proprio lo stesso da cui è germogliata. Nel caso del genere di cui tratteremo, si parla della Germania, patria e punto focale di lucenti sviluppi, massacranti delusioni, scintillanti sorprese della musica techno. Nonostante la scena abbia dato i suoi frutti, negli ultimi anni è la mediocrità a far da padrona in questo mare scuro come la pece. Mediocrità non dal punto di vista qualitativo, bensì riguardante il preoccupante livellamento delle scelte compositive da parte di artisti nuovi e vecchi, senza nessuna differenza d’età o prestigio. Questo fenomeno ha ben poco giovato al settore che, vedendosi sottrarre mercato da altre frange dell’elettronica (hardcore da una parte, house dall’altra), s’è ingegnato per riprendere in mano il controllo della situazione.

Un ragazzone come Shed, colmo di idee quanto di sferraglianti intuizioni, non può che dare una scarica di adrenalina a un corpo che necessitava di ventate rivitalizzanti. La portata di questa novità, rappresentata da lui e pochi altri, si concretizza tutta nello svincolamento da stilemi prestabiliti. Tagliate fuori schematizzazioni minimal, escluse rigidità ritmiche ormai superate, si dà libera uscita ad una fantasia in odor di genialità. Elementi techno vengono abbracciati da plastici retaggi electro che, corroborati da sostrati dub, miscelano un risultato finale dal sapore acuminato, sprezzante e acidulo.

Skull Disco ha tirato le fila di un dubstep ormai alla frutta proprio perché diventato clone di sé, inserendo nuovi elementi a un discorso quasi sopito. Shed risponde prendendo il furore percussivo di Shack e Appleblim, andando a sondare la vitale deepness lungo un viaggio diretto agli inferi del suono, un magma denso e caldo, lontano mille miglia dalla freddezza di una techno diventata sfoggio di austerità, travisando tutto quello che i Basic Channel avevano scritto in soli nove passi. I bassi ragga che esplodono senza timore, scortati da una guardia di pad e synth cosmici che richiamano Carl Craig, Mad Mike e Rolando: melodie tristi, ma melodie. Shed ha lasciato lontani i sequencer lanciati in autopilota e si è seduto a suonare per dare vita alla sua musica.

“Flat Axe” è l'unico episodio che sentirete dal vostro dj di fiducia, ma “That Beats Everything” con quella cassa dritta intinta nel riverbero, come solo una macina del Mulino Bianco saprebbe assorbire, è il rullo compressore che Joey Beltram ha voluto ungere del suo verbo. Non c'è scampo, sappiatelo, perché chi avrà il coraggio di farla girare sul deck dovrà tenere al guinzaglio un bulldog inferocito. Ma sono solo due episodi, perché il resto non è la stessa partita, non è nemmeno lo stesso campo da gioco.

“Ostrich-Mountain-Square” squarcia filamenti ambientali e li giustappone ad un magma rumoroso che si protrae con guisa efferata, i tre minuti scorrono fra sibili sinistri e pulsioni da oltretomba, facendo da anticamera alla paradisiaca “Boose-Sweep”. Quest’ultima traccia si compone e si scompone a livello molecolare con omogeneità spaventosa: se il pattern ritmico evolve trasmutando da lieve a sostenuto, mantenendo impatto e ricerca, il gorgoglio analogico che lo circonda tinteggia atmosfere aliene da viaggio interstellare. Fa addirittura meglio la seguente “Another Wedged Chicken”, ancor più audace e sinistra, sbattendo in primo piano un sostanzioso beat metallico, coadiuvato da un mormorio granuloso e incontrollato; arrivata al minuto numero uno, si instaura una ramificazione timbrica dal sapore marziano.

Le sorprese continuano a fluire in maniera spontanea: i sample di piano smembrati ed accoppiati a reticoli glitch di “Slow Motion Replay” mostrano versatilità e gusto, la leggera sterzata ambient-techno di “The Lower Upside Down” è puro respiro rilassante, la distensione spaziale lievemente sferzata è caratteristica principe di “Waved Mind\Archived Document”.

E se, come spesso succede, i capolavori terminano con una traccia memorabile, “Shedding The Past” ha le carte in regola per rispettare questa prassi. “IHTAW” è una marcia danzante farcita da voci che ondeggiano ubriache, stomp laceranti come lame affilate donano ritmo terreno, l’intelaiatura plasma se stessa come un organismo autonomo ed autonomamente consapevole. Applausi a scena aperta.

Un esempio per tutti, per dare definitivamente la misura di questo disco che salva infine la techno da se stessa (mandiamo un grosso bacio anche ai ragazzi della Border Community). Ci salva da Ellen Allien, dalla M_nus e dalla Cocoon: statue su cui ormai cacano i piccioni. “Estrangé”. Scaricatela, compratela, rubatela perchè è la techno ai tempi del dub, dell'analogico riscoperto con la Deepchord e di un Aphex Twin che riecheggia nei suoi fasti più lontani. Che bisogno c'è di non voler più trasmettere nessuna emozione? Nel voler monetizzare direttamente tutto in funzione di una pista da ballo? Che gusto c'è nell'ascoltarsi l'ennesimo remix uguale ai sei o sette precedenti di "Dubfire"? Ve lo diciamo noi da qui, pronti a farvi fare due grasse risate: zero. Ecco il gusto che c'è.

“Estrangé” invece è il rinnovato ardore di una musica rivoluzionaria, che riscopre il proprio gusto antico nel farsi contaminare da tutto ciò che vive attorno a lei: senza paura. Dal futuredub di Londra, dalla malinconia di James Holden e Fairmont da tutto ciò che Detroit ha rappresentato per generazioni di musicisti. Shed è uno che si dedica sviscerando l’anima, svolgendo le sue trovate con naturalezza e dedizione, anche quando tutto il resto vuole convincerci che girare la manopola su minimal sia la soluzione per comprarsi un Korg nuovo. Niente da fare per gli altri lì fuori, ”Shedding The Past” ha riscoperto l'utopia.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Guidetti

sabato 6 settembre 2008

The Atomica Project: "Greyscale" (Positron! Records, 2008)



Brutta storia quella del trip-hop. Nell’anno in cui chi l’aveva visto nascere è tornato a farsi vivo (Portishead, Tricky), sorge spontaneo dare risalto a chi quel genere ancora lo apprezza e tenta in tutti i modi di forgiarne amabili sembianze alternative. Negli anni (circa 15, preso come milestone-year l’anno di pubblicazione di "Dummy") un nugolo di temibili ed assatanati compositori s’è cimentato in elucubrazioni più o meno riuscite sul tema, creando un ambiente di veri appassionati, capaci di cesellare autentici piccoli capolavori. A scapito di questi ultimi, a beneficiarne in termini di visibilità, sospinti da una stampa sovente molto generalista, sono stati sempre e solo i tre dell’Ave Maria: Portishead-Tricky-Massive Attack. Niente di male in questo: obiezioni di ogni tipo sarebbero ingiustificate, vista la caratura degli artisti presi in esame. Rimane però spietato il modo con cui certi epigoni sono stati relegati in un oblio senza speranza.

Non essendo questa la sede per sviscerare anni e anni di esperienze gratificanti, cerchiamo di cogliere un piccolo sassolino da un oceano di ciottoli lucenti. Americani e pieni di belle speranze, gli Atomica, ora conosciuti come The Atomica Project, hanno iniziato da poco il loro percorso artistico. Di base a New York, danno sfogo alla loro irrefrenabile passione per i ritmi down-tempo con il loro esordio intitolato “Metropolitan”, licenziato nel 2005 dalla stessa Positron! Records di “Greyscale”. Splendido compendio umorale e colmo di soluzioni sorprendenti (tanto per citare la più bella: “Delorian”), il disco metteva in risalto già allora potenzialità di grande levatura: beat elettronici sempre centrati e ottenebranti, voce femminile proveniente dalle stelle (Lauren Cheatman), arrangiamenti orchestrali di pregio assoluto. Un crescendo di canzoni che tinteggiano una parvenza d’ignoto, costruite su ritmi che si sfaldano e si rigenerano nel volgere di un attimo, capaci di raffigurare la tremula luce della passione.

Ora, a tre anni dall'opera prima, il gruppo torna sulle scene dando alle stampe “Greyscale”. Tratteggiando notturni scenari metropolitani, i cui contorni paiono tanto indefiniti ed aerei quanto quadrati, le dodici tracce che compongono l’opera assumono forma e sostanza piuttosto differenti da quelle dell’esordio. Volgendo l’attenzione verso suoni decisamente meno solari ed elidendo parzialmente i campionamenti orchestrali, “Greyscale” esplora territori nuovi, musicalmente più cupi, ma rasserenati dalla sinuosa voce di Lauren. “When I Was Just A Young Girl”, traccia d’apertura che funge da vero e proprio trait d’union con “Metropolitan”, ondeggia tra violini che paiono lamine affilate e tipico gusto trip-hop. Ciò che colpisce maggiormente nelle sinfonie del trio è la capacità di creare atmosfere ovattate e cinematiche, dilaganti a macchia d’olio, fino a coprire ogni angolo del suono. Manifesto programmatico delle qualità del complesso è certamente “Forecast”, brano che procede ripiegandosi continuamente su se stesso, una continua risacca di un mare nero petrolio. I bozzetti che si insinuano sotto la cute sono limpidi nella loro essenza, sporcati solo da una sottilissima coltre nebbiosa, che trasmette all’ascoltatore un lieve senso di disagio e inquietudine. Esemplare la stupenda “Gravity”, il cui beat tenace si alterna a momenti di stasi emotiva che non risultano affatto tediosi né semplici riempitivi, ma fungono senza forzatura da attimi di riflessione. A dimostrare come la band sappia anche regalare frangenti di apertura orchestrali, palpiti che paiono ridestare l’ascolto da uno stato di asfissia, si staglia “Afraid”, vero e proprio ossigeno rigenerante.

Il lato più austero del trio inizia invece ad emergere nella seconda parte dell'album: se “I Woke Up In This World” procede in maniera fredda e ossessiva, ricordando i Portishead meno malinconici, il canto analogico, leggermente spogliato della sua purezza, di “All The Lonliness In The World” rappresenta uno degli episodi interlocutori e leggermente azzardati, accanto al piatto incedere senza sussulti di “Evaporate”. Vista la vicinanza dei due passaggi a vuoto, parrebbe di attraversare una fase calante del disco, invece tra essi appare “Into The Arms Of Strangers”, brano adagiato su un incipit a bassa fedeltà (lo sfrigolio in sottofondo riproduce il rumore del vinile), la cui struttura si sviluppa con naturalezza sorprendente. I bassi attraversano tumulti altisonanti, le tastiere sono fragorose e dilatate, la voce ha saliscendi vorticosi, fino a raggiungere picchi di spaventosa intensità emotiva. La frase del ritornello suggella i suoni con parole di rassegnazione:”I try so hard to be someone, as I try hard to explain, if we can do someone together, then we’ll try do it again”.

Il tocco psichedelico della bellissima “The War Is Over”, traccia il cui andamento ondeggiante, in bilico costante tra gusto classico e azzardi elettronici, riporta alla memoria i migliori episodi trip-hop, dimostrando come l’album sappia variare con grande omogeneità complessiva. La title-track dispensa oltre tre minuti completamente strumentali di pura profondità prospettica, un tunnel lungo e buio oltre il quale non c’è luce ad attendere l’ascoltatore. Luce che viene parzialmente ritrovata nel mix conclusivo di “Gravity”, sottraendo respiro onirico ed estremizzando il lato movimentato del tappeto ritmico, con un risultato a metà fra house vocale e techno-pop.

L’essenza del trio di Chicago non muta, a mutare semmai è la forma. Gli Atomica Project, aggiornando il marchio trip-hop in maniera a tratti audace e personalissima, confezionano un viaggio tra mondi oscuri e spazi angusti, al limite fra gusto classicheggiante e trovate degne dell’olimpo bristoliano. No signori, il trip-hop non è morto.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

giovedì 7 agosto 2008

Tearwave: "Different Shade Of Beauty" (Projekt, 2008)



Le sensazioni provenienti dal passato spesso sono quelle che colpiscono più nel profondo. In particolare, infatuazioni di quel suono definito dream-pop sono ricercabili un po' ovunque e numerosi fan di vecchio stampo, e anche nuovi discepoli dell'era oro della 4AD, sono ancora pronti ad accogliere con grande entusiasmo nuovi saggi di quel suono ancestrale.

Il perché di un tale successo ininterrotto dopo quasi 20 anni è un dato interessante, che comprova anche la validità di certe operazioni di "recupero". Molto si deve a quella scuola americana che ha continuato a coltivare il genere nella sua accezione originaria, quella coniata nei primi anni Ottanta dai Cocteau Twins: una scuola a sua volta maturata sotto l'ala protettiva di Sam Rosenthal e della sua Projekt Records, in una linea che negli anni si è mossa attraverso le gesta di gruppi straordinari come Lycia, Mira, Love Spirals Downwards.

I Tearwave sono una band relativamente di primo pelo. Superato il traguardo della prima fatidica prova, giungono oggi al secondo esame, a poco più di un anno dal debutto, che aveva sorpreso e spaccato in due la platea. Le loro melodie, costruite su un procedere flemmatico, colmo di pathos etereo, non erano certo facili da digerire per quanti non sono mai stati avvezzi a certe sonorità. Per questi ultimi non andrà certo meglio con il qui presente "Different Shade Of Beauty". Un'ossessiva verve creativa ha spinto la band a una mastodontica prova di forza: 17 tracce, 77 minuti di ballate languide e eteree, specialità nella quale i Tearwave si dimostrano maestri, riuscendo nell'arduo compito di far tornare vivo e pulsante il sound degli albori del dream-pop, senza contaminarlo con null'altro. Non con l'elettronica di qualsiasi tipo, né con strutture più pop-rock come appena prima di loro hanno fatto i compagni di etichetta Autumn's Grey Solace.

Il sound del quartetto di Buffalo, New York, è denso, oscuro e di non facile accesso, malgrado la delicatezza della scrittura. Gran parte del merito è dell'illuminato chitarrista Doug Smith, capace di accendere fiamme di geniale creatività all'interno di canzoni che si susseguono all'apparenza senza grandi variazioni.

Troppo lungo e ripetitivo, si dirà: eppure sono proprio la durata kolossal e l'omogeneità di fondo che permettono a questo album di espandersi oltre i suoi stessi limiti, raggiungendo un effetto ipnotico d'insieme difficilmente riscontrabile in altre produzioni dello stesso genere, più o meno recenti.

Le invenzioni di Doug Smith consentono poi a ogni singolo traccia di imprimersi nella memoria: basti ascoltare ciò che il chitarrista riesce a creare nel crescendo finale di un brano straordinario come "Holding On", qualcosa per cui lo stesso Robin Guthrie dovrebbe rendere onore al suo giovane discepolo, o ancora gli imprevedibili ruggiti che disturbano la magnifica "Question". E leggiadri e fragili, i suoi compagni ne assecondano ogni idea, pur restando avvinghiati a un costante mood rilassato, arcano e psichedelico.

Sezione ritmica modesta e mai invadente, mentre la vocalist Jennifer sussurra incantata testi tutt'altro che rassicuranti. "The Message" e "Claiming Life" sono contese tra bellezza e disperazione, campi di battaglia dove l'unico punto fermo resta la straziante intensità di musica e parole. E urlano di angoscia le chitarre di "Reflection" e "First Time".

A suo agio nei panni gotici, specie nel perduto addio di "Read Me", Doug Smith è però anche capace di tramutarsi in un novello The Edge nel bel mezzo della vibrante "Nothing's Wrong", portando un brano che inizia come un sogno irrealizzato degli Slowdive di "Souvlaki" verso una epicità commovente, e assai più terrena e energica rispetto al tono generale di un album che sempre più si abbandona estatico alle sue inquiete visioni e invocazioni, con picco di astrazione nei suoni in cascata di "Forgettable Name".

Fluviale e appassionato compendio di un genere di musica trasversale di cui la giovane band sa esaltare le più affascinanti e visionarie potenzialità. Soprattutto questo è il merito di questo album ambizioso, e proprio per questo i Tearwave non hanno il benché minimo bisogno di cercare strade nuove e originali. Nel suo lungo cammino "Different Shade Of Beauty" si fa strada senza fretta, ma con forza straripante, imponendosi come un autentico monumento alla storia del dream-pop. E della storia del dream-pop.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Mauro Roma

giovedì 5 giugno 2008

Andrea Parker: "Kiss My Arp" (Mo Wax, 1999)



non ho mai ben capito se andrea parker, e sopratutto il disco oggetto del topic, sia mai stata famosa o un minimo riconosciuta.

kiss my arp è capolavoro di sintesi, influenze e tensioni, catalizzatore di ritmi e voci provenienti da ambienti fra i più disparati.

dj di grande tocco e finezza (lo dimostra lo splendido dj kicks da lei compilato nel 1998) andrea è un'artista molto taciturna, poco prolifica, capace di lavorare nelle quinte e pur sempre sorprendente.

suo unica vera unica prova sulla lunga distanza (ad eccezione di 'Here's One I Made Earlier' uscito l'anno scorso, raccolta di vecchie registrazioni) le 12 canzoni che compongono questo album si influenzano a vicenda e compongono un flusso melodico di rara compattezza e concisione, capace di instaurare un rapporto empatico con l'ascoltatore dai rari tratti simbiotici.

trip-hop che non è lui e si trasforma in musica colma di sofferenza, nata da inquietitudini urbane, in odor di sensazioni danzerine mai sopite o nascoste.

la gestione delle varie correnti è magistrale: se i pezzi cantati sembrano geniali deviazioni disturbate provenienti da Bristol, gli strumentali, che prevalgono numericamente, si snodano su binari a dir poco inusuali. electro kraftwerkiana che cambia sembianze per diventare ambient luciferina ricoperta da un ritmo che viene fuori a spintoni, devastando la porta principale e per di più senza chiedere il permesso.

l'iniziale Breaking The Code è già un colpo al cuore con la sua enfasi sopra le righe, fra archi celestiali che incespicano davanti ai beats che pullulano i quasi 6 minuti fatti di romanticismo lirico, dolcezze digitali ed emozioni dismesse.

la più pessimista (sia nei suoni che nel testo) In Two Minds possiede capacità d'intrattenimento incredibili; se l'intro splendidamente cinematografico fa da corollario alle parole che verranno, il fiume di lettere che ne consegue balzella indeciso fra i suoni perfettamente calibrati: frammenti di classicità operistica (violino, cello), campionamenti strambi (chissà cosa c'è sotto), splendidi patterns analogici. un duo iniziale che sa di capolavoro.





la potenza di questa manciata di canzoni però è la varietà di sensazioni che non sono disomogeneità scontata, nè confusione amatoriale, ma splendide capacità riassuntive, forte personalità e controllo dei mezzi a disposizione smisurato. il down-tempo scosso e inestriscabile di Clutching At Straws si discosta da stilemi risaputi (non essendo di per sè un difetto avvicinarsi) perchè non è semplice emulazione ma sviluppo e continuazione; l'ossessione per i tagli operistici ritorna con più tatto, in sottofondo. gli squarci digitali provenienti da drum-machine e synth splendono di luce oscura e nebbiosa, sovrastata da rumori e sibili sinistri.

Melodius Thunk percorre tensioni sotterranee pericolose che sanno di colonna sonora per un club a 3000m sotto il livello del terreno, fra frammenti di recitazione gotica (pare di sentire muse misteriose durante lo svolgimento) e certosine concatenazioni ritmiche e strutturali.

Some Other Level ondeggia in senso fisico con i synth che oscillano pericolosamente smossi da ritmi post-techno o post-qualcosa, ciò che volete va benissimo. la fluidità dei suoni è talmente lampante che sembra di sentire la sonorizzazione di una vasca acquatica..

l'epopea elettronica di The Unknown mette in risalto ulteriori capacità in sede di assemblamento timbrico, fra singulti IDM, echi industrial e campionamenti urban. nonostante la composizione superi il limite dei 7 minuti, i secondi scorrono veloci e non c'è il pericolo della prolissità, nè dispersione di idee. il cambio di toni nel finale è testimone di ciò: dalla calma serafica dei primi 6 minuti si passa ad una mitragliatrice digitale da pura crisi epilettica.

estensioni chiarificatrici di questo calderone colorato si posso rintracciare nella successiva Elements Of Style, più accessibile ma enigmatica fino al midollo, o nei tribalismi fumosi di Going Nowhere, splendidamente cantata e recitata ancora da Lei. in quest'ultimo episodio c'è anche un uso sapiente e perfetto delle percussioni acustiche; se in precedenza le macchine prendevano il sopravvento, qua un battito preciso scandisce le frasi che scorrono fra clangori metallici e un groove irresistibile e ipnotizzante.

le strambe fantasie psicotiche di Sneeze (2 minuti di glacialità perfezionistica), sono l'anticamera per Lost Luggage compendio e saggio dell'arte musicale di Andrea Parker. il solito violino contorto fa da apripista ad una serie di percussioni tribali (provenienti direttamente dal dub) che accompagnano la voce, elemento chiave di questo pezzo. non contorno, non mero sostituto di un vuoto ma punto focale. le distorsioni che si dipanano con il passare dei secondi, le stilettate al limite del noise e la ciclicità degli archi sono alcuni degli elementi che vengono a maturare all'interno di 7 minuti, lucenti e ombrosi al tempo stesso.

gemella di sangue è la successiva Return Of The Rocking Chair, opulenta e inesorabilmente dilatata, capace di contenere tutto e niente nello stesso istante. la dolcezza della voce si scontra con beat pachidermici, frammenti di stabilità classici si corrodono al cospetto di una bass-line possente. il pathos graduale e calcolato dell'interpretazione canora è da appluasi, si arriva in fondo con il groppone in gola tanta è la tensione incamerata nei minuti precedenti; lo sfogo in corrispondenza dell'urlo finale è d'obbligo.

la conclusione spetta alla turbolenta Exclamation Mark!, marcio pattume elettronico inebriato da tentazioni concrete, chiusura adatta e progressivamente sbriciolata.

masterpiece.

giovedì 22 maggio 2008

Toob

Band formata 5 anni or sono, i toob si compongono di due figure chiave dell'elettronica degli ultimi 10 anni. Jakeone aka Jake Williams e Richard Thair hanno avuto dalla loro una carriera di grande rilievo, mai sopra le righe ma a tratti decisiva. se il primo lo si può rintracciare in svariati dj mix di pregevole fattura, il secondo ha militato in alcune band fra le più significative delle ultime due decadi. The Aloof e Red Snapper hanno tracciato percorsi a dir poco sorprendenti, commistionando ombrose influenze trance e grandi intuizioni che vanno dall'acid-house ambientale dei primi fino all'industrial trip-hop dei secondi.

il percorso artistico dei due si unisce nella ragione sociale Toob che prende il via nel 2003 con un paio di EP molto corposi ed opulenti, improntati su un ritmo sostenuto ma mai ossessionante, una strana miscela di breaks, house e acide spore psichedeliche, a tratti capace di riesumare i fasti del maestro Andrew Weatherall.

il 2005 è l'anno dell'esordio targato Lo Recordings ed è una grande sorpresa ascoltare il risultato.



Toob: "How To Spell Toob" (2005, Lo Recordings)

10 tracce perlopiù strumentali, in cui le varie indicazioni sopra riportate vengono ulteriormente amalgamate con grande perizia e senso della melodia, introducendo la voce di Shingai Shoniwa, africana già presente nello splendido Bodily Functions di Matthew Herbert.

Sin dall'iniziale 4 Walls l'album scorre con continuità, dando risalto a ritmi monchi, contorti e pieni di vitalità. Gli intrecci pastosi fra bassi altisonanti (spesso simili a martelli pneumatici) e percussioni regolari sono un gran bel sentire per gli amanti della musica avvolgente, che non si concede mai in maniera completa. esempio di ciò è la cantanta Clawing Its Way Back, sorretta da un giro di synth dai tratti ondulatori, pungente, che spicca nei sottofondi di una composizione preziosa.

Non semplice trip-hop, nemmeno rigurgito post/electro-clash, il disco si innalza con grande forza sopra ogni pregiudizio, raggiungendo vette di grande forza e coesione.

pochi mesi fa è uscito un nuovo 12" intitolato Clipto che vanta la collaborazione anche di Wendy Stubbs, già presente nei trip-hoppers Alpha. Adagiato su ritmi colmi di fascino, i due pezzi (title-track e Mr Brown) segnano un cambio di marcia rispetto a tre anni fa, prospettando ulteriori sviluppi per un eventuale nuova prova sulla lunga distanza.