lunedì 23 ottobre 2006

Boduf Songs: "Lion Devours The Sun" (Kranky, 2006)


















Non ancora del tutto dissolta è l’impressione originata dalla luce fioca e dai toni dimessi del suo album di debutto “Boduf Songs”, senza dubbio una tra le novità più sorprendenti del 2005: poco oltre un anno è trascorso perché il cantautore inglese Mat Sweet desse un seguito alla ruvidità casalinga di quell’opera in un nuovo lavoro, solo in parte privato dell’immediatezza lo-fi che aveva contrassegnato la sua prima pubblicazione, ma perfettamente coerente con la scarna estetica di composizioni solo accidentalmente rivestite di una dolentissima forma canzone.

Come l’album che lo ha preceduto, “Lion Devours The Sun” raccoglie nove brani ridotti all’osso, costruiti sull’iterazione di pochi, semplici accordi di chitarra, immersi in paesaggi sonori angoscianti, sospesi tra desolazione metropolitana e ascesi isolazionista, appena solcati da effetti distorsivi e ritmi quasi impercettibili, spesso veicolati dalla stessa tenebrosa voce di Sweet, pervicacemente tesa alla ricerca di esitanti melodie, in grado di bilanciare almeno in parte l’oscura inquietudine che ammanta tutto il lento fluire dell’album. Il risultato è ancora una volta un’immobilità solo apparente, che avvolge composizioni esili, di spietata introspezione, nelle quali un timido raggio di sole si affaccia a volte soltanto per enfatizzare il contrasto con un’invariabile malinconia, quasi mai peraltro sfociante in cupezza opprimente.

La discesa nell’oscura spirale di “Lion Devours The Sun” inizia con i battiti in lontananza e gli arpeggi ossessivi che introducono “Lord Of The Flies”, sinistra ballata circolare nella quale la voce di Sweet, ridotta a poco di un sussurro, materializza da subito fantasmi e inquietanti visioni (“around your heart, dark wings beat”) di una realtà marcia, generata da “seeds of death, lost, disease”, mentre quasi incuranti scorrono limpide le poche note di una chitarra dall’austero sapore folk, che sarà l’unico e costante contraltare alle brumose atmosfere di tutto l’album. Qualora il mood dell’album non fosse già ben esplicato, “Two Across The South” provvede ad allargarne lo spettro musicale, introducendovi un incipit di distorsione ambientale sul quale si innestano sensazioni di sconfortato fatalismo (il primo e l’ultimo verso del brano sono: “I built a house from my mistakes”), pure supportate da una più articolata costruzione armonica, comprensiva di un sobrio arrangiamento d’archi che rimanda quasi all’astratta essenzialità di una Jessica Bailiff, qui però privata di qualsiasi lieve grazia.

“That Angel Was Pretty Lame” sembra in un primo momento presagire un’atmosfera più serena e meno plumbea ma, con lo scorrere dei minuti, i suoni sono inesorabilmente disciolti in una melassa torbida e scurissima. Arrangiamenti elementari e scheletrici, flebili richiami alla scena dark-folk (in primis Current 93), metallici field recording, suoni smembrati che sanno di rumore, un’aura di terrore. Elementi che si inglobano l’un nell’altro e si ibridano progressivamente, esplodono, implodono, si strascicano per sei minuti abbondanti di estasi misteriosa. Similmente all’episodio precedente, “Great Wolf Of No Tracks”, dipinge acquarelli stilizzati, semplici ma complessi in un sol frangente, immediati, immobilizzanti. Il risultato finale, nel suo complesso estetizzante, lascia al cuore ferite appena visibili, ma permanenti, non rimarginabili.

“Green Lion Devours The Sun, Blood Decends To Earth” si immerge ancora di più nel contesto congeniale all’artista, rallentando ulteriormente il ritmo di esecuzione. A supporto della chitarra, in questo episodio, par di sentire una piccola percussione ombrosa e silenziosa. Non un attimo di distensione, non un frangente in cui sembra apparire una parvenza melodica, ma soltanto lentezza, timbri, o per meglio dire, sussurri, aneliti, schizzi di un quadro incompleto o semplicemente incompreso. La voce, elemento portante di queste canzoni, si protrae stancamente (o con forza minimale, fate voi) fino alla conclusione, accompagnando la musica con un fare mistico, magico, fatato. In “27th Raven's Head (Darkness Showing Through The Head Of The Raven)” ritornano, in maniera prepotente, schiocchi elettronici finissimi, come successe nella bellissima “Claimant Reclaimed”, presente nell’esordio omonimo a cui s’era accennato all’inizio. Elemento, questo appena descritto, che sa rendersi importante, fondamentale per cesellare forse il pezzo più rappresentativo del disco. Lande malate popolate da una sorta di fantasmi che tagliano l’aria in tanti microscopici brandelli, emanando una melodia arcana.

La sofferenza che porta alla redenzione, il dolore. È questo ciò che significa il titolo della traccia numero sette (“Please Ache For Redemptive”), introdotta da un corposo drone, raggiunto da un lamento digitale dopo pochi secondi. E se ciò che segue appena dopo è un impulsivo rimestare percussivo, tutto ciò che segue si barcamena splendidamente tra fraseggi puramente improvvisativi e fantasie compositive. Le parole questa volta fanno spazio alla pura essenza del suono, se si eccettua uno sciamanico farfugliare, relegato in sottofondo. “Fall Of Cherry Blossom In Long Shadows Of Twilight” rincara la dose, per quanto riguarda l’essenzialità degli accordi, ridotti a semplici rivoli scomposti, fuori fase, gelidi. Fuochi d’artificio si lanciano nell’aria, scoppiettando colorati, con un borbottio insistente.

La conclusione spetta alla composizione più lunga e coraggiosa, “Bell For Harness”: quasi dieci minuti di note cadenzate con estenuante calma, un’apparente pace compositiva, falcidiata dalla voce, ancora, e soprattutto in questo caso, un anelito incombente e continuo, progressivo, sempre in procinto di esplodere ma mai capace di concedersi. È questa la testimonianza estrema e tangibile di come nella fosca visione di Matt Sweet la speranza non sia contemplata e nemmeno necessaria, dispersa tra il compassato scorrere del brano e l’indolente, rassegnato mantra “is your last lonely drive?”.

Una musica che trasporta ed è in grado di segnare profondamente, subito dopo l’ascolto, e nei momenti in cui la mente ritorna a quegli attimi, a tutto ciò che riguarda l’ora scarsa da dedicare a questa opera. Un’opera destinata a rimanere in sordina, per essere magari riscoperta fra qualche anno con clamore moderato, come in definitiva un qualcosa di importante. E importante lo può essere di certo per chi ha la pazienza di dedicarvisi e la voglia di schiantare la luce, immergendosi in un oblio di tonalità mutanti, paurose, taglienti, eppure dense di un calore umano aspro, a tratti urtante, spogliato com’è di qualsiasi rassicurante edulcorazione, ma proprio per questo vitale e autentico.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

mercoledì 18 ottobre 2006

Mo'Some Tonebender: "The Stories Of Adventure"

 















tre rocker giapponesi: Momo, Takei e Fujita.

con alle spalle un buon numero di singoli e un paio di album, arrivano alla loro opera più compiuta con questo The Stories Of Adventure.

trasportato da un singolo bello da far male come Green & Gold, il disco è una commistione variegata e funzionale di noise-pop e art-rock, il tutto condito con una grande fantasia, sopratutto percussiva.

così, quando Green & Gold si tuffa in lande noise-pop (più noise che pop), Red Head si fa scheletrica ed essenziale, deliziosamente melodiosa.

Emperor Sun & Sister Moon si basa su un giro di basso ripetitivo e contagioso, l'inserzione di un flauto nell'impianto rock è alquanto straniante ma si accoppia benissimo, stranamente risulta anche piacevole. Le chitarre sono saturissime di feedback, il suono che ne esce si attorciglia allo stomaco e non si distacca più.

follie hardcore in No Way City, ritmi sincopati e scomposti in Unhappy New Age, una canzone rock sinuosa e sensualissima..

Eppoi, atmosfere post-rock compresse in 2 minuti in Heavy Hurted Song, distorsioni chitarristiche nella torbida Around.

Un'alternanza di animi impressionante nel terzetto finale. Purtroppo non riesco a trovare i titoli scritti con il nostro alfabeto.

comunque, la numero 11 è un rock scintillante e pazzoide dalla potenza inaudita, la numero 12 è un folk-pop alla Akeboshi, la numero 13 un autentico gioiello emo-rock.

e il rock si fa sentire anche dal Giappone.

venerdì 6 ottobre 2006

Le Temps qui reste (Francois Ozon)



















ovvero, il tempo che resta.

l'altra sera sono stato a vedere l'ultimo film di Ozon già autore di un'ottima pellicola qual'è Swimming Pool.

la storia di un fotografo parigino gay a cui viene comunicato la sua imminente morte, da lì a 20-30 giorni morirà per un cancro diffuso.

non emozioni a buon mercato, nè melodrammaticià scontata, proprio per niente.

un profondo viaggiare nella vita del protagonista, scandagliando paure, emozioni, meschinità e cattiverie.

rapporti lasciati a metà da una vita tutt'altro che regolare, valori ri-acquistati grazie alla calma che si crea nel suo animo, una grande voglia di far bene e aiutare gli altri. donare tutto se stesso nelle ultime ore, in quelle ultime ore che mai si dimenticherà prima di iniziare il suo sonno infinito.

film sottotitolato (per fortuna, visto le ultime esperienze di doppiaggio), la lingua originale (il francese) riesce a donare un non so che di vero, autentico.

la metamorfosi fisica e mentale del protagonista è affascinante ma al tempo stesso devastante.. quello che oggettivamente è un bel ragazzo, in fondo si tramuta in un viso smunto, bianco, sfasato.

dialoghi importanti come non mai, incentrati in un registro discussivo minimale e mai sopra le righe, sempre accorto nel svelare le particolarità poco a poco.

il finale, in tutti i suoi colori, si lascia andare in un mare di lacrime, mai gratuite, ma soltanto vere, autentiche.

un film che apparentemente parrebbe scontato, un'opera che nasconde così tanta forza emotiva da lasciare straniti.

Playlist 30/09 - 06/10

Japan-Mania 














Mika Nakashima: "Glamorous Sky" (7)

Mika Nakashima: "Love" (7,5)

Mika Nakashima: "Resistance" (7)

Mika Nakashima: "Will" (6+)


di lei c'è il thread sul primo singolo citato.

gli altri sono i suoi primi album e sono leggermente più pop rispetto ai pezzi di glamorous sky.

il tutto rimane ovviamente su livelli discreti, se non ottimi.

come dicono i voti, il mio preferito è Love, poliedrico e vario. fra folk, giapponesismi vari e una grande varietà percussionistica. Mika is my love.


















Tomiko Van: "Farewell" (7+)
c'è la recensione su ondarock.

comunque sia, un grande album. la title-track è emozionantissima, ascoltare per credere.

Complacence è davvero un pezzo incredibile. mi fa venire la pelle d'oca ogni volta che l'ascolto.

ovviamente i do as infinity non si scordano mai, ma ascoltando farewell mi sento meno triste per quando riguarda la loro definitiva dipartita..
 


Anoice: "Remmings" (7)

Cacoy: "Human Is Music" (7,5)


questo invece è l'altro giappone.

sulla scia dell'ultimo disco dei mono con world's end girlfriend, questi due album si posizionano in un ambito molto vago e poco delineato.

elettronica fredda e glaciale, paesaggi ambientali solcati da note di piano sognanti, ritmi stupidi e scemi.

il primo è più rilassato e silente, il secondo risulta più vario e genialoide.

se da una parte (Anoice) si punta su un'atmosfera dilatata e funerea, dall'altra si marcia sulla strada di un'elettronica arricchita da elementi divertentissimi, come i fiati del'iniziale FUneral March In March o l'organo di Piracle Pa.

la musica per l'autunno che viene, la musica per i cuori infreddoliti.

Il trip-hop che non c'era

Bowery Electric: "Beat" (7+)

Crustation: "Bloom" [8]

Olive: "Extra Virgin" (7)

dei bowery electric parlai a suo tempo di quel capolavoro che è lushlife.

questo è fortemente diverso, dove la voce su lushlife dipingeva paesaggi sonori splendidi, qua si incentra il suono su composizioni più lunghe e sopratutto quasi completamente strumentali.

ritmiche tipicamente trip-hop con accordi di chitarra pieni di feed-back molto rumorosi e taglienti.

il risultato in certi casi è un pò pesante da sopportare fino in fondo (alcuni pezzi sono 16 minuti), ma in certi contesti anche questi suoni risultano funzionali. diciamo che l'album è bello, sì, però la proposta è leggermente più ostica rispetto al loro ultimo album. o forse sono solo io che non ero in condizioni per ascoltarlo?

vabbè, se v'è piaciuto lushlife provatelo.

bloom è un altro di quei capolavori trip-hop che nessuno si è considerato.. dico purtroppo.

andrebbe proprio annoverato alla stregua dei suoi più famosi colleghi, questo disco.

battute basse, campionamenti tra i più disparati, linee di contrabasso grosse e gommose.

una voce semplicemente bellissima, un groviglio di bollicine elettroniche, un suono profondamente notturno. un disco da amare in ombra, distesi su un letto.

eppoi ci stanno gli olive, la versione easy-listening del trip-hop.

più vicini al synth-pop per certi versi, sempre debitrici alla scena madre di Bristol, riescono comunque a mettere insieme un album di tutto rispetto. This Time è pur sempre un signor pezzo, Safer Hands cade in qualche ritmo fuori fuoco, You're Not Alone è un fluido elettronico pennellato con rara precisione. diciamo un album fatto di alti e bassi ma pur sempre di un certo valore.

peccato che non fanno un disco dal 2000, peraltro molto buono, intitolato Trickle.

giovedì 5 ottobre 2006

Mika Nakashima: "Glamorous Sky"


















stasera mi andava proprio di ascoltare mika.

uno pezzi rock più belli usciti in giappone da un bel pò di tempo a questa parte.

il singolo è stato rilasciato sotto il nome nana, che è il personaggio che impersona mika nel film omonimo.

glamorous sky è... j-rock.

la voce è come sempre melodiosa e pungente, il contorno strumentale è semplicemente perfetto, senza un attimo di tregua. batteria incalzante, chitarre sferraglianti, un groove proprio irresistibile.

arrivare in fondo senza impazzire è difficile.

è stato trasmesso anche in italia su mtv, questo fine settimana...

oltretutto insieme ad altri video jappo... ^_^

le altre canzoni contenute sono sempre sul solito livello, improntate su un rock teso ma mai banale.

My Medicine si schianta davanti a un muro di chitarre cattivissime, Blood è un altro colpo al cuore, praticamente perfetta con il suo ritornello profondissimo ed emozionante.

ci sta anche Isolation, leggermente più calma e pensierosa, incentrata su un accordo di chitarra girato e ri-girato, intrecci ritmici per niente banali e un effetto complessivo di pura estasi j-rock.

in fondo ci stanno le versione strumentali di glamorous sky e my medicine.

da non perdere assolutamente l'album con le sue migliori canzoni, pubblicato l'anno scorso, semplicemente con il nome Best.

mercoledì 4 ottobre 2006

Clara Hill: "All I Can Provide" (Sonar Kollektiv, 2006)


















Riuscire a far confluire in un’unica tessitura diverse scuole di pensiero, diverse produzioni, e nasconderle nei giusti ricami, è stata l’abilità maggiore di Clara Hill. La bellissima ragazza, cresciuta tra house ed acid-jazz, è riuscita negli anni a livellare una capacità interpretativa fuori dal comune. Comincia giovanissima a cantare, appena adolescente, con il mito di Madonna nella testa e tanti sogni da realizzare. Con il passare del tempo, arrivata all’età di 17 anni, mette insieme un gruppo chiamato Superjuice, con un amico di vecchia data. Da il via a una serie di concerti all’intero dei club di Berlino che contano e la fama della sua ugola si spande fra i giri importanti. Conosciuto, durante una sua esecuzione, tale DJ Alex, componente dei Jazzanova, prende corpo fra loro una forta stima reciproca dal punto di vista artistico e da qui in poi la strada di Clara sarà solo in discesa. Arriva la collaborazione con i signori dell’house, i Masters At Work, arrivano i concerti con la sua nuova band, gli Stereoton, giunge infine il suo album di esordio, il sogno di una vita, chiamato “Restless time”. Un’opera ambiziosa e sinuosa, splendidamente ingenua, da consumare nei suoi piccoli particolari.

Questo “All I Can Provide”, rispetto al precedente, si mostra molto più curato dal punto di vista dei dei dettagli, si notifica un’apertura netta verso simbiosi electro-pop di svariata natura, sempre percorsi da una forte vena jazz, intrisi da una voce che sa di soul bianco fin dalle più piccole parole. Una disarmante delicatezza al canto funge da cornice barocca alle tecniche elettroniche, mai muscolose, che ne tratteggiano i bordi; al centro un involucro di fusioni eleganti e attraenti, sempre distinguibili per la ricercatezza sonora. Le esperienze del passato vengono gestite con classe, prendiamo ad esempio “Hard To Say”: in ogni suo passaggio la Hill adopera espansioni melodiche, gemelle dei sodalizi passati con  Masters At Work; l’incontro con Slope (“Just Let Me Know”), quindi, diventa ancor più avvincente e sensuale. Stessa direzione per “Did I Do Wrong”. Qui c’è ancora più spazio per aprirsi ad un luminismo vocale ed elettrico, maggiormente articolato; il ritmo digitale, imposto da King Britt, non abbandona (quasi) mai gli accenni soul della Hill. Spesso queste formule erano la ricchezza estetico-musicale dei ricevimenti post sfilata, delle celebrazioni altolocate parigine. Le limitazioni di quei suoni oggi vengono messe da parte, si vira verso una maggiore naturalità dell’elemento (sonoro) “fashion”. In “All i can provide” la cura del beat è svincolata dalle cristallizzazioni , maturando una flessibilità pop che sposa pienamente le strutture melodiche della “Canzone” odierna. I cinque minuti di contaminazioni Sylviane di “Endlessly” sono sufficienti per elevare l’intera caratura del disco, grazie anche al nichilismo esotico inferto da Sandboy. Convulsioni acide e irrisorie si fanno largo nel pezzo d’apertuna, “What For”, una cantilena malsana e ossessionante.  D’altronde, quando a metterci le mani c’è un certo Meitz, asso del future-jazz ed eminente figura del remix trasfigurante, il risultato non può che essere eccellente. Rimarcare ulteriormente le capacità di adattamento vocale della Hill risulta a questo punto noioso e ripetitivo. Sempre e comunque di ottima qualità le sue esecuzioni.

Arrivati fin qui, tutto ciò a cui “noi” possiamo provvedere, non è nient’altro che integrare le nostre fragili movenze alle grazie sonore della seducente Clara, ringraziandola, magari, con un semplice “merci tresor”.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli