domenica 16 dicembre 2012

Playlist 2012

1. Poliça – Give You The Ghost
2. LHF – Keepers Of The Light
3. Belbury Poly – The Belbury Tales
4. Crossover – Gloom
5. The Big Pink – Future This
6. Leila – U&I
7. Den Mother - Insides Out
8. Barbara Morgenstern – Sweet Silence
9. Chairlift – Something
10. Elsiane – Mechanics Of Emotion
11. Stumbleine - Spiderwebbed
12. Mushy - Breathless
13. Nina Kraviz - Nina Kraviz
14. Raime - Quarter Turns Over a Living Line
15. Saint Etienne - Words And Music By Saint Etienne
16. Silent Servant - Negative Fascination
17. Trust – Trst
18. Memoryhouse – The Slideshow Effect
19. Alt J – An Awesome Wave
20. Fenster – Bones
21. Amanda Mair - Amanda Mair
22. Dva - Pretty Ugly
23. Shed - The Killer
24. First Aid Kit - The Lion's Roar
25. Kreidler – Den
26. Tristesse Contemporaine - Tristesse Contemporaine
27. Chromatics - Kill For Love
28. Audrey Ryan – Thick Skin
29. Neil Young & Crazy Horse - Psychedelic Pill
30. Andy Stott - Luxury Problems
31. Archive - With Us Until You'Re Dead
32. Beach House – Bloom
33. BEAK> - >>
34. Bersarin Quartett - I I
35. Bill Fay - Life Is People
36. Claro Intelecto - Reform Club
37. Deepchord Presents Echospace – Silent World (OST)
38. Jessie Ware – Devotion
39. Jherek Bischoff – Composed
40. Flying Lotus - Until The Quiet Comes

mercoledì 5 dicembre 2012

Deniz Kurtel: "The Way We Live" (2012, Wolf + Lamb Records)















Eroina della musica dance, legata sempre di più all’immaginario che gira intorno al collettivo Wolf+Lamb, Deniz Kurtel esce fuori dal suo nascondiglio dopo le magie di “Music Waching Over Me”. Dj e produttrice di finezza spropositata, la Kurtel decide di mollare temporaneamente il ritmo per approfondire la sua personale versione dell'house.

Schiva, vagamente disorientata da fumi oppiacei, l’americana compone un album molo rilassato, ambientale, la sua musica diventa quasi meditata, psichedelica e fuori dai canoni. Piccoli battiti sporadici, giri di synth cosmici, voce in combutta con l’oscurità, mistici soffi e schiocchi; questi e tanti altri suoni compongono un disco che seduce e tormenta senza affondare mai il colpo decisivo. “The Way We Live” è così delicato e mai sopra le righe per cui è necessario scomodare la definizione di soft-house. Con il sapiente uso di collaborazioni esterne in sede vocale (soprattutto il rapper Gadi Mizrahi), l’americana disegna un album variegato da ogni punto di vista, incarnando in modo magistrale la figura della produttrice matura e minuziosa. Mai colori sfavillanti o un tratteggio solare, il fumo alberga costantemente in un’ora scarsa di sessualità scabrosa, mali noir e tanta, profonda e piovosa notte.

Ed è proprio la notte il richiamo perpetuo di questa timida ragazza dalle origini turche. La notte intesa nella sua essenza più seducente, nei cui meandri regna il fascino immutabile dei club, l’atmosfera elegante e cupa dell'avvenente underground della Grande Mela. Stanze adornate con classe. Luci basse. Fiumi di vodka e Chanel. La vecchia house chicagoiana in penombra e quella voglia matta di stupire senza mai alzare il velo, come accade nell’introduttiva” I Knew This Would Happen”.

Deniz vola basso. Cassa dritta, synth dolcissimo, mai invasivo, qualche pausa appena abbozzata, tenue ripartenza, voce-vocoder posta sullo sfondo che balza qua e là e un motivetto leggerissimo a cullare tacchi e culi. La successiva “ You Know It's True” con il fido Mizrahi segnala d'un tratto lievissime smanie eighties, mentre il groove roteante e catalizzatore di “Hypocrite” sollecita praticamente tutti ad alzarsi dalle poltrone e ad invadere immediatamente la pista. L’ipnosi continua con “There's Enough for All Of Us”, si assesta nelle tracce successive, in cui la Kurtel continua a compiacersi in questa sua incantevole divagazione ritmica, raggiungendo una quiete apparente nella carica sensualissima di “Safe Word”.

C’è classe in questo secondo disco di Deniz Kurtel. Tanta classe. Ma c’è soprattutto una maggiore profondità nel delineare il ritmo, assecondarlo gradualmente al proprio corpo e sospingerlo dritto al cuore, mentre la mente si svuota del quotidiano e lo sguardo punta altrove, laddove l’estetica sposa il suono e il divertimento una morbida illusione.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

domenica 28 ottobre 2012

Seefeel

«Durante tutta la notte io sono un corpo immobile, e dall’altra parte della città un rotolo di carta si sta trasformando nel giornale del mattino, e alle otto e quaranta io uscirò e alle otto e venti il giornale sarà arrivato all’edicola all’angolo, e alle otto e quarantacinque la mia mano e il giornale si uniranno e cominceranno a muoversi insieme nell’aria, a un metro dal suolo, avviati alla fermata del tram…»

Horacio Oliveira e la metafisica.


Seefeel: polifusioni psichedeliche.

Nella Londra bene dei primi anni Novanta si muoveva un giovane un po’ introverso e stralunato, di quelli che raramente si vedono in centro a far caciara coi propri coetanei e che alle partite del Chelsea preferiscono la solitudine della cameretta, i libri e lo strumento musicale come confidenti. Potrebbe sembrare l’introduzione al profilo dell’ennesimo menestrello, non fosse che questa storia va fortunatamente in un’altra direzione: quello di Mark Clifford è infatti un percorso di ricerca, di studio ossessivo delle potenzialità dello strumento e delle possibilità espressive connesse.
Mai appagato e mai auto-indulgente, Clifford ha esplorato a lungo le soluzioni che l’elettronica applicata alla sei corde era capace di offrire, indagando da vero cultore i sistemi di loop, sequencer e manipolazioni sul suono dello strumento.
Allo stesso tempo teneva ben salda in mente una propria idea di prodotto musicale che esulava la forma-canzone pur conservandone l’approccio caldo e istintivo, uno spazio personalissimo e a sé stante, per la cui concretizzazione si rendeva tuttavia necessario allargare i confini tutto sommato stretti dello studio privato al progetto di gruppo.

I primi vagiti di una band tutt'altro che banale come i Seefeel, seguono in verità una trafila piuttosto ordinaria: Clifford passa diversi mesi tra il 1991 e il 1992 ad affiggere annunci e vedere musicisti, alcuni dei quali particolarmente dotati e virtuosi. A condividere queste prime avventure, lo strambo amico e bassista Mark van Hoen, che nelle fila del gruppo transiterà in realtà solo pochi mesi, a mo’ di collaudo per i suoi futuri programmi solisti, ma che resterà in ogni modo nel dietro le quinte della band, costituendone un punto di riferimento irrinunciabile.
Il destino, l’ispirazione del momento, vuole infine che la scelta sui musicisti da arruolare cada sulla giovane cantante e chitarrista Sarah Peacock, Spacemen 3 e My Bloody Valentine nel walkman, il percussionista Justin Fletcher e il bassista Daren Seymour, profondo conoscitore di kraut-rock e psichedelia, che subentrerà a van Hoen.
Prima ancora che musicisti affidabili e dotati, si tratta di persone con cui Clifford avverte una sorta di affinità personale ed intellettuale, fattore di enorme importanza per approdare ai risultati prefissati che necessitavano soprattutto comunione di intenti e di “visione”.
Da qui ai primi demo e ai primi live (quasi sempre dei flop di critica e pubblico) e alla firma di un contratto il passo è insolitamente breve e sul finire del 1992 è già tempo di pensare al primo EP.

Nel manifesto ideale di Clifford e soci vige la regola essenziale di disintegrare la forma-canzone tradizionale e lavorare solo con i cocci raccolti, abbattere tutte quelle che possono essere avvertite come limitazioni estetiche al loro concetto di psichedelia, all’intuito e all’istinto che costituiscono il perno di ogni loro incisione. Filtri, delay e sampling, da orpelli decorativi quali erano tradizionalmente trattati nel pop-rock, diventano fiamma vitale della materia.

Il primo extended-play More Like Space, esce quindi nel 1993 per la Too Pure e manda subito in crisi la critica di settore, incapace di cucirgli un’etichetta appropriata: dub? post-rock? noise? ambient? In pochi afferrano la brillante novità della formula dei Seefeel, sostanza ibrida che raccoglie una buona quantità di generi codificati (gli ampi spazi fisici e mentali del dub, le reiterazioni della psichedelia e della techno, le “esperienze” trasognate del post-rock e finanche dell’eterea 4AD), rimestati di continuo in una poltiglia fluttuante e cangiante, dove tutti gli elementi sono ancora ben distinguibili, ma che in qualche modo hanno senso solo in un rapporto di compresenza e fusione continua.
Tra i quattro pezzi dell’ep, spicca la splendida title-track, primo dei tanti capolavori della band, densa di delay e pochi limpidissimi vocals della Peacock, il ritmo più sostenuto di “Time To Find Me”, riconducibile a un certo trip-hop ambientale, e la strumentale “Blue Easy Sleep”, scritta a quattro mani da Clifford e l’amico van Hoen.
Tutto è pronto insomma per il capolavoro, che, mai come in questo caso, è letteralmente dietro l’angolo.

Passano pochissimi mesi quindi e i Seefeel consegnano il loro primo album, Quique, disco che per profondità e chiarezza d’intenti porta già tutti i requisiti dell’opera matura e completa oltre che di stampo fortemente innovativo.
I nove pezzi di Quique si inseriscono nel solco di una techno-ambient intrappolata a mezz’aria che se da una parte volge lo sguardo verso il sole artico di Aphex Twin e u-Ziq, dall’altra è attratta magneticamente verso i bisogni della terra da quelle movenze dub sinuose e irrimediabilmente fisiche.
I brani procedono così in equilibrio tra questi due poli, enfatizzando talvolta la componente incorporea e “aeriforme” (si sentano “Imperial” e “Through You”), altrove il genuino groove, per quanto trasognato e intorpidito (l’incedere robusto di “Polyfusione” e il dream-dub di “Filter Dub”, antipasto di quella formula esplorata qualche anno dopo dai Massive Attack).
Pur trovando nell’elettronica un rifugio felice e fortunato, l’esperienza dei Seefeel nasce pur sempre negli ambienti “rock”, nella corrente shoegaze e soprattutto nella psichedelia, tanto quella delle radici quanto quella aggiornata degli Spaceman 3: i brani di Quique si sviluppano così quasi sempre attorno ad un riff di chitarra in loop su cui tutti gli altri elementi entrano progressivamente, mutando in continuazione colore e velocità, spesso sfuggendo all’attenzione dell’ascoltatore.
I vocalizzi di Sarah Peacock sono infine il valore aggiunto, eterei e privi di senso compiuto, che omaggiano in più di un’occasione i Cocteau Twins di Liz Fraser, come negli splendidi gorgheggi impalpabili di “Charlotte’s Mouth”.

Quique è materia complessa e stratificata, che vive di confluenze e fusioni continue, costante nel suo essere colta perennemente in farsi. Anche per questo si colloca di diritto tra le opere più originali e significative della sua generazione.

Come previsto, Quique non è propriamente un successo commerciale (vende appena quindicimila copie), ma dà inizio ad un culto sotterraneo di portata crescente che darà i suoi frutti solo molti anni dopo, grazie soprattutto alle enormi risorse e agli archivi sconfinati dell’era del file-sharing.
Mark Clifford riceve però apprezzamenti “importanti”, uno su tutti quello di Robin Guthrie, che lo convocherà nel 1995 per la raccolta di remix “Otherness”. Fra loro inizierà una sorta di collaborazione, marchiata nuovamente con l'esperienza Sneakster.

Sempre nel 1995 arriva il secondo lavoro di studio, dopo una lunga attività live. Se Quique era un’opera ariosa e solare, con Succour la formula del gruppo resta come intrappolata in qualche grigia nebulosa che sospende ogni cosa tra fitti strati di caligine.
Succour esibisce da subito un suono più scheletrico e asciutto, a partire dallo scuro drone di “Meol”. Le chitarre, pur curate in maniera più “live” e meno effettata rispetto a Quique, retrocedono sullo sfondo, lasciando al centro della scena sezioni ritmiche scarne e imprevedibili e un ambient che arriva a lambire territori isolazionisti.
È un’esperienza tutta astratta e cerebrale, quella di Succour, schizofrenie che pulsano alla maniera degli Autechre (“Fracture”), beat ipnotici che conservano irriconoscibili brandelli dub (“Gatha”, “Rupt”) claustrofobie simil-techno (“Vex”) e soprattutto un lavoro certosino sugli armonici che consente le poche aperture melodiche del disco. Anche i vocals della Peacock sono scomparsi quasi del tutto, riemergendo compressi solo in sparuti rigurgiti su “Ruby-Ha” e “Rupt”.
Succour insomma allontana i Seefeel da quegli ambienti tradizionalmente rock a cui erano ancora sommariamente associabili con le loro prime incisioni, inserendoli in una sorta di limbo tra le produzioni tipiche della Warp (che sarà non a caso l’etichetta che pubblicherà il disco) e gli umori del trip-hop bristoliano.

La gestazione di Succour evidenzia però in maniera ancora più lampante le tensioni intestine alla band, sempre più Clifford-centrica, mentre Fletcher e Peacock maturano le proprie idee artistiche, non sempre conformi alle direttive di Clifford e che rendono difficile proseguire con l’attitudine istintiva e visionaria del progetto.

Alla consegna di (Ch-Vox) dunque, sul finire del 1996, la band è praticamente già sciolta.
Si tratta di una raccolta di sei tracce, per poco più di mezzora in totale, che procede sul tracciato atmosferico di Succour, abbandonando però le pulsioni ritmiche in favore dei flussi ambient costruiti spesso attorno ad un singolo loop (“Ashdecon”) o a battiti digitali (“Hive”), quasi sempre ricoperti da un alone profondamente “dark”, che culmina nella fosco finale di “Net”.

All’uscita di (Ch-Vox) i membri della band si sono già sparpagliati in una quantità di progetti ed esperimenti paralleli, cristallizzando per diverso anni i Seefeel tra i nomi leggendari dell’underground dei Novanta. Di anni ne passeranno ben quindici, fino al tanto chiacchierato ritorno in pista.

I Seefeel che si riaffacciano in un 2011 cybernetico sono ormai un nome underground di culto e l’omonimo album di ritorno viene accolto con grande trepidazione da più parti, creando attorno alla band persino un più che discreto livello di hype.
Accanto a Clifford è tornata Sarah Peacock, mentre novità assoluta sono Shigeru Ishihara e E-Da, al basso e alla batteria, che contribuiscono al sensibile cambiamento di rotta della band, sfoderando un suono più ruvido e vigoroso.

Seefeel sorprende per trovate e impatto. E' una elettronica cruda e primordiale, che recupera dub e glitch, li eleva a colonne portanti, intrecciandoli con gelidi bollori metropolitani, trip-hop a tratti e una sensazione di freschezza che accerchia e colpisce. Tra reminescenze dreamy incastonate a diamanti grezzi ("Faults") e Autechre che riappaiono nella loro forma più basica ("Gzaug"), si giocano le carte di una partita che si indirizza sui binari dell’inaspettato. Crudezze elettroniche cui fanno da contraltare ora soffici rivoli ambientali in un sottofondo molto lontano, ora tiepidi canti di sirena in evanescenza. Oltre che fini musicisti i Seefeel si dimostrano anche aggiornati sulle mode e ne danno una lettura particolarissima: "Making" recupera i primitivismi chillwave, ricalcandone i tratti salienti, ma immergendo le dolci nenie targate Washed Out nell'acido. Il beat di Bristol in chiusura fa il resto. Non c'è spazio per sentimentalismi di sorta, Seefeel è un raga metallico che dipinge un quadro di crudezze e ambienti gelidi, mai però dimenticando di sottolinearne l'esistenza dell'opposto, di un calore forse nascosto ma pur sempre presente.
Raramente un coming-back può dirsi più riuscito e fortunato di così.


Sneakster: ebbrezza melodica.

Sophie Hinkley e Mark Clifford si conoscono in un locale di Londra chiamato Milk Bar e da lì iniziano a scrivere del materiale assieme. Uscito su Bella Union il loro primo EP ("Fifty Fifty"), nello stesso anno (1999) viene alla luce anche l'esordio "Pseudo-Nouveau". Se in futuro verrà l'ora di riesumare capolavori nascosti del trip-hop, questo album avrà di diritto un posto d'eccezione in quella lista. Cesellato da mani sapienti, l'album, perfettamente in sintonia fra melodie e ritmi, oscurità e candore vocale, è un perfetto compendio di tutto ciò che è stato e sarà il genere dei più quotati Portishead. L'esperienza elettronica di Clifford è palese e i ritmi sono costruiti con una perizia tecnica mostruosa, ogni suono è collocato al posto giusto ed ogni canzone, che sia strumentale o cantata, sprigiona sensualità e forza. La Hinkley, perfetta nel districarsi fra lo sciabordare elettronico, mostra una voce sinuosa sfruttando doti di duttilità, alternando diversi registri di interpretazione all'interno di un album di certo non facile. Grazie alla collaborazione in sede di scrittura a fianco di Clifford, si completa una simbiosi artistica come solo una coppia maschio-femmina sa fare.

Si parte subito alla grande con "Whileaway". Il beat metallico che introduce il pezzo è tagliente, lascia spiazzati; solo dopo l'inizio del ritmo martellante di stampo industriale ci si rende conto che il disco è iniziato. La voce di lei è un canto candido, pieno di calore, mai sopra le righe, un misto di capacità interpretative e passione emozionante. Ricerca sonora di grande qualità mette a nudo un potenziale sconfinato, dove inserti percussionistici concentrano l'attenzione su un impatto sordido e misterioso, confezionando un'ossessionante cantilena notturna che si potrae per quasi sei minuti.
Sulla stessa falsariga proseguono la non meno rarefatta "Firehearts" (ammaliante l'incrocio di drone e synth analogici) e "Splinters" (ambient-pop imbastardito da un ritmo portante putrido e distrutto), facendo da apripista per le velleità ambientali di Clifford, vero marchio di fabbrica del musicista anglosassone. "Full Echoes", con un organo sintetico poi accompagnato da angeliche note di chitarra e uno scricchiolante beat di puro stampo minimal-techno, è una nenia dal grande impatto, i ritmi di estrapolazione industrial in "Stolen Letter", e il piccolo inframezzo ambientale "Trust & Blush", sono ulteriori esempi di uno stato di forma irripetibile.

L'organo torna a far male in "Static", con progressioni melodiche da manuale, lasciando ad "Heavy Heat, Heavy Time" il compito di calcare le mani sul lato più ritmico della formula stilistica, mentre la conclusiva "Sweet Melody" mette in riga tutti i tratti salienti di "Pseudo-Nouveau" con il solito incedere lento e asfissiante.

Nel 2000 viene rilasciata una versione dell'album con l'aggiunta dei pezzi presenti in "Fifty-Fifty" fra cui due remix di sua maestà Robin Guthrie. La mente pensante dei Cocteau Twins rilegge alla sua maniera "Fireheart" e "Stolen Letter", accentuando la grazia della voce femminile con vibranti accordi di chitarra. L'inedito "Kinda Blue" coniuga singulti classici (cello) con incastri martellanti, non discostandosi in termini di qualità dai migliori episodi dell'album.

L'esperienza della coppia termina prematuramente dopo solo un album e la Hinkley sparisce dal panorama musicale con un'immediatezza fulminea. Clifford continuerà negli anni a farsi vedere con qualche opera sparuta, tornando a sorpresa con i Seefeel dopo quindici anni. Il totale oblio con cui questo disco è stato accolto alla sua uscita, continuando a rimanere ai margini della discografia trip-hop, è segno di come spesso la fortuna sia una componente fondamentale per fare quel passo in più verso il riconoscimento del pubblico. Forse parlarne non sarà sufficiente per riabilitarlo, tuttavia l'assoluta validità di queste canzoni è un fatto con cui ogni appassionato di musica dovrebbe avere a che fare.

Scala: acredine trip-hop.

Fra i side-projects più interessanti fra quelli citati, gli Scala sono composti esclusivamente da ex-componenti dei Seefeel. Estrapolando dal gruppo madre la caratura tecnica in termini di melodie e ritmi, il gruppo riesce a pubblicare fra i più fulgidi esempi di trip-hop sia in termini di originalità che di efficacia. Mai completamente fedeli alla battuta bassa, la loro interpretazione dei suoni bristoliani è acida, sulfurea, mistica. Se si vuole dare un'etichetta si può parlare di acid-trip-hop. Con alla voce la meravigliosa ugola di Sarah Peahcock, la musica degli Scala affonda le radici in un'atmosfera plumbea, dove i ritmi serrati e la durezza delle melodie sono il perfetto corollario per canzoni che sfiorano l'esplosione senza mai deflagare.

Storia breve quella degli Scala, infatti la loro produzione si limita al biennio '96-'98, tuttavia in questo periodo le pubblicazioni furono molteplici. Si parte con “Beauty Nowhere”, album composto da nove tracce e magnifico residuato dall'epopea trip-hop in chiave noir. Il disco, perfettamente calibrato su un registro di basso profilo, giganteggia manipolando materie come l'ambient, il trip-hop, l'elettronica in generale. Si percepisce che dietro ci sono personaggi pionieristici, superbi artigiani del suono e sensibilità fuori dal comune. I toni desolanti ed emaciati sono un perfetto biglietto da visita per gli amanti del non ordinario (l'iniziale “Naked”, la progressione forsennata in “Torn”), mentre la distensione dei momenti pacati ricordano soluzioni ambient-pop di pregio assoluto (le magie di “Hold Me Down”, le particelle noise in “Ride Me”). Gli strumentali ovviamente ricordano i miracoli di “Quique”, fra cui piace ricordare le sconnessioni ritmiche di “Something about Brigitte Nielsen” e gli sprazzi angelici dei vocalizzi dream-pop in “Think In Japanese”. Nel complesso è un esordio estremamente positivo, capace di forgiare una formula originale e decisamente interessante. La capacità di uscire dall'ovvio dopo le precedenti esperienze di artisti più blasonati è lodevole, addizionando un'appeal pop con “Heart Of Glass”. Lo stesso anno esce l'EP “Lips & Heaven” che sviluppa ulteriormente lo spettro di soluzioni, mettendo la voce in primo piano in contesti fra i più disparati: “VDT”, con la sua resa del suono terrosa e povera, imbastardisce la dolcezza della voce femminea, mentre “Pain & Pleasure” unisce  il solito beat con effluvi di arpa ottenendo un risultato quantomeno seducente se non bizzarro. Con “Tears”, e sopratutto in “Tryptic”, la band addolcisce parzialmente il suono con qualche concessione melodica.

Due anni dopo è tempo dell'accoppiata “To You In Alpha” e “Compass Heart”, canto del cigno e pure la conclusione di un'esperienza infruttuosa in termini di vendite ma mai così meritevole di attenzione postuma. Questi due album contengono canzoni semplicemente belle ed efficaci, con un'insospettabile appeal pop ed originali, miracolose perché capaci di coniugare le esperienze dei componenti nei Seefeel con la corrente trip-hop, riuscendo a realizzare qualcosa di peculiare. E' difficile scegliere le parole per descrivere la magia di “Honeylike” - pop bastardo e malinconico -, dare un senso alla cattiveria del beat industrial di “Remember How To Breathe” o “Slide”, mettere in fila le emozioni davanti a strumentali come “Spread Your Wings And Fly” o “Broken Dawn Beauty”. Con “To You In Alpha” che in alcuni casi inietta elementi rock (“Colt”, “Wires”), o decide di scherzare con il lounge-pop (la divertente “Black Narrow Shut”), “Compass Heart” si fa più rarefatto, impalpabile, polveroso. Infatti le varie “Ride On” - noise-pop stellare -, “Fearsome” e “Fuser” poggiano le proprie basi su flebili ritmi sintetici o su un giro di chitarra appena riconoscibile, giocando con il minimalismo pop degli Stereolab inconsapevolmente. Solo “Words And Thoughts” fa risplendere la voce di Sarah Peacock sotto il martellante incedere di una drum-machine monolitica.

Il consiglio per godere appieno di questi due album è quello di ascoltarli uno dopo l'altro, senza soluzione di continuità, preferibilmente in modalità casuale. La mescolanza continua aiuterà a infittire il senso di immersione in un mondo speciale e catatonico, capace di fagocitarci quanto di farci innamorare. Si perderà traccia della musica degli Scala da lì a poco con il temporaneo scioglimento dei Seefeel, lasciandoci in eredità qualcosa di prezioso, con il rammarico di non poter mai vedere il prosieguo di un suono unico quanto sperduto.


January: effusioni pop.
Sarah Peacock, artista poliedrica e dal grande piglio melodico, oltre ad aver militato nei già citati Scala, ha fondato e pubblicato due album con la band January. Insieme a Jonny Mathers, Jonny Wood e Simon McLean (produttore di “To You In Alpha” degli Scala), il gruppo si dedica con risultati proficui in un pop-rock psichedelico dall'appeal atmosferico e avvolgente. Senza raggiungere le vette delle band che gravitano fra ex-Seefeel, “I Heard Myself In You” e “Motion Sickness” propongono una musica delicata, profondamente segnata da una malinconia di fondo figlia degli anni in cui è stata pubblicata (quasi immediatamente dopo attentato dell'11 settembre) e da una scrittura non miracolosa ma nemmeno ordinaria, sovente toccata da alcune impennate di sicuro rilievo.

Il primo disco, pubblicato nel 2001, contiene alcune gemme dal sapore agrodolce, intrise da una psichedelia soffusa, mai invadente, sonnolenta ma mai statica. Le chitarre al vetriolo sono il sale di questa opera, a cominciare dell'iniziale “All Time”, proseguendo con altri episodi discreti come “Contact Light”, la title-track e la delicata “Invisible Lines”. Lo shoegaze acustico di “Sequence Start” è ulteriore segnale di quanto ci sia fermento in una band che tuttavia non riesce sino in fondo ad esprimere una musica convincente. Qualche bella canzone circondata da alcune incertezze: la scelta di un cantante non all'altezza, il poco coraggio per puntare sul lato ritmico-rumoroso, l'indecisione su quale aspetto (noise-rock o dream-rock?) far risaltare nel risultato finale.

In “Motion Sickness” le cose vanno molto meglio grazie ad alcuni particolari e una produzione più centrata, efficace e funzionale. Infatti l'iniziale “Paul O Reilly” ha un magnifico dialogo batteria-chitarra, “Someone” riprende alcuni tratti a metà fra post-rock cantato e psichedelia ma con un deciso risalto agli squilli scintillanti della chitarra, risultando liquida e ispirata. Questo andamento viene confermato un po' da tutto l'album, calibrato in maniera egregia fra accordi liquidi e un'interpretazione vocale più convincente, come dimostrato nella toccante “Caught” o nelle corpose progressioni della title-track. In questo disco anche gli intermezzi sanno incantare, infatti lo sciabordare del mare attorniato da xilofono e chitarra appena sfiorata di “The Square Is Closing”, mettono insieme un quadretto zen impossibile da ignorare. Con l'aggiunta della lunga e finalmente acidula “Sandwood” e del finale in punta di accordo-voce con la cover di Yoko Ono “Have You Seen A Horizon Lately”, l'album esplode in tutta la sua lucentezza con un trittico finale veramente emozionante.

La sensazione che si ha è che la band non abbia avuto il tempo necessario per sviluppare le proprie idee in maniera veramente incisiva. Infatti poco dopo la pubblicazione di “Motion Sickness” i quattro scioglieranno la band lasciando per strada due album solo discreti, smarrendo per strada potenzialità e talento per lasciare tracce più resistenti al tempo.

Cliffordandcalix: frattaglie immacolate.

Poco prima il ritorno de Seefeel Mark Clifford si concede una collaborazione con la celebre artista elettronica Mira Calix. La curiosità per il risultato di un’unione artistica così insolita è davvero molto alta.

“Lost Foundling” raccoglie varie session, eseguite dalla coppia dopo vari incontri susseguitisi nel tempo, la cui collocazione diacronica è indicata dall’anno di produzione, posposto al titolo di ciascuna delle tracce. Il contenuto, nonostante l’ampio arco temporale, risulta compatto e senza uscite di pista poco coerenti. Le potenzialità di entrambi i musicisti sono ben amalgamate in un album che propone una perfetta mediazione fra ricerca in ambito melodico/ritmico e momenti di candore sonoro estatico, nei quali la voce della Calix è il contrappunto ideale per gli scenari più disparati. L’onnipresenza del cantato contribuisce a mitigare scenari spesso ostici, mentre l’alternanza fra stasi e caos aiuta a diluire il contenuto fino alla conclusione. In termini squisitamente tecnici, siamo dalle parti di un pop ambientale che mischia in un gran calderone disfunzioni glitch, chitarrismo sognante, tappeti ambient e noise.

La già accennata varietà di toni permette di alternare interpretazioni vocali irriconoscibili (il magma sonoro attorcigliato di “Someone Like Me” e “Dream Of You” ammanta la voce della Calix donandole incisività) con deliziosi acquerelli serafici (la splendida “You And I”, l’intreccio inestricabile di synth per “One 2 Far”). Mentre il tocco magico di Clifford alla chitarra si rivela in tutto il suo splendore  (la psichedelica sospesa nel vuoto di “Beethaven”, il dream-pop mistico in “He Promised It All”, la corrosione metallica di “In Her Room”), si susseguono qua e là ossessioni ritmiche (i tribalismi oscuri di “Myrie”, la drum-machine sostenuta di “Pull It A Part 1”), brevi scampoli di ambient malsana (“Cket”, “Mintle”, “Alkaline”) e strutture pop più riconoscibili (“To Stay Changed Forever” possiede un fascino tormentato rarissimo).

In questa sede, siamo dunque obbligati a plaudire il sodalizio di “Lost Foundling”, poiché riassume con lodevole sagacia compositiva le varie influenze dei due musicisti. Considerando che siamo di fronte soltanto a degli assaggi sparsi nell’arco di dieci anni, la curiosità di ascoltare una sessione di composizione intensiva è molto alta.

Nello stesso anno viene pubblicato un EP di remix di brani tratti dall'originale “Lost Foundling”. Gli artisti messi in gioco mescolano le carte trasfigurando deliziosamente: Andrea Parker e Daz Quayle iniettano un cancro nebbioso in “Beethaven”, mentre Majestic 12 gioca la carta del minimalismo giocoso con la stessa traccia. Luke Vibert gioca a fare il mago dell'electro con la bella colata cibernetica di “One 2 Far”, con Simon Pyke che pennella nebbie grigissime sempre con “Beethaven”.


Woodenspoon – Disjecta: sbronza IDM.

In piena esplosione del movimento IDM targato Warp, Mark Clifford si concede un'uscita solitaria con due progetti solisti strettamente legati con l'etichetta britannica, lasciando solo un piccolo EP sulla sua etichetta Polyfusia Records.

Con Woodespoon Clifford esplora il lato più estremo dell'IDM, sviscerando un'anima hardcore della sua personale interpretazione della musica elettronica. Sia le title-track che “Friendly Aside” sono una stilettata di bassi ottundenti, con “Dig Deep Bin” e “Jujasm” che rincarano la dose in modo più sordido ma egualmente potente. Niente di cui non avevamo già sentito parlare, ma passo decisivo nella maturazione artistica di un Mark Clifford in forte ascesa. Per gli amanti dell'era warpiana sarà comunque un bel sentire.

Disjecta, oltre ad essere un'esperienza decisamente più sviluppata della precedente, richiama toni più posati e distesi vagamente associabili ai Seefeel. “Looking For Snags” è un disco brumoso, vagamente dark, pessimista e molto notturno. Non c'è melodia nei ritmi di “Here”, mentre in “Dorming” i battiti sono così stracciati da risultare un'unica folata di vento tagliente. “K-Bop” gioca con toni concreti con un risultato bizzarro, mentre “Gyric” e la title-track alzano il tono con una frequenza più alta, al limite dell'hardcore di Woodenspoon. Le restanti tracce veleggiano con sapienza fra delicate nenie robotiche (magico il fino xilofono di “Alum Chime”) e frenetici schizzi di follia (la velocità supersonica di “Skeenie”). Un ottimo esempio di come l'era warpiana sia stata qualcosa di più dei nomi più blasonati.

Clifford continua il suo percorso con “Clean Pit & Lid.” in modo più che egregio, svincolandosi dagli stilemi del genere con l'iniezione di più elementi: si passa dalle tentazioni techno (l'andamento pachidermico di “Kracht”) fino agli accenni ambient (i miasmi di “Gammi” e “Conviction Hic”). L'album cede il passo a qualche episodio meno positivo (tuttosommato banali “Cheekchops”, l'irrisolta “Are You An Echo?”), risollevandosi in alcuni frangenti (l'acquarello ambient-pop di “Pit”) con un fare però indeciso o quantomeno zoppicante. Oberato dagli impegni del gruppo madre Clifford mette da parte il progetto per diversi anni (quasi dieci) riesumandolo nel 2003 con un EP omonimo.

“Disjecta EP” è totalmente differente dai suoi predecessori, infatti a partire da “True_Love By Normal” si sentono influenze glitch e una grande voglia di sperimentare toni decisamente meno strutturati rispetto all'IDM dei primi tempi. Droni di chitarra fanno da collante in quattro tracce atmosferiche e molto contorte, mai completamente risolte in una direzione melodica precisa. “Flos”  rivela influenze minimaliste accentuate, infatti la traccia é composta da sole note di chitarra processata e qualche flebile delay, il tutto impastoiato con una sapienza da grande pioniere dell'assemblaggio qual è Clifford. Definitivamente immerso in una ricerca sonora assimilabile a certe produzione della Mille Plateaux, il nostro completa l'EP con altre due tracce (“Lumina_Lamina” e “Feeding Buzz”) che fanno della sottrazione il loro punto di forza, disegnando strutture avant di pregio finissmo.

Simon Kealoha & Zavoloka: deviazioni ambientali.

Negli anni Clifford stringe alcune collaborazioni sporadiche con artisti di spicco della scena elettronica sperimentale. Nel 2005 pubblca "Running Taper" assieme a Simon Kealoha aka Calika, mentre nel 2007 dà alle stampe uno split con l'artista ucraina Zavoloka. Il disco con Calika è un prezioso album di ambient-glitch con picchi di pregio finissimo, mai rumoroso e tendente al delicato. Ossequiosi alla tradizione della sperimentazione tonale glitch dell'ultimo decennio, Clifford e Kealoha splendono con tracce come "Forming Take" - puntellata con briciole sonore splendenti -, "Extract:Taper______" e "February 02_02_1" in cui si sente una cura del suono da ingegneri della sperimentazione musicale.

Sulla stessa falsariga del progetto condiviso con Mira Calix, le quattro tracce ricalcano un approccio frontale con la chitarra come strumento centrale delle composizioni. Attorniata da toni elettronici manipolati sapientemente, le corde vengono dilatate e smembrate in due deliziosi tappeti policromatici ("Blue-Fi 1", "Blue-Fi 2"). Zavoloka, rispettando il suo marchio di fabbrica, innesta temi world-music (un flauto) in grovigli di reticoli techno-glitch con la solita naturalezza, concludendo lo split con grande stile.

Nonostante siano casi isolati, dato che queste esperienze non hanno avuto seguito, questi due piccoli dischi hanno il merito sia di mostare prospettive inedite del Mark Clifford musicista e artista, sia di rafforzare la statura squisitamente musicale del personaggio.

Scritto da Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo.
Contributi di Alberto Asquini ("Seefeel").

domenica 30 settembre 2012

LHF: "Keepers Of The Light" (Keysound Recordings, 2012)















Fin da quando il genere elettronico ha iniziato a spaccare in due il mercato discografico, le opere monolitiche si possono contare sulle dita di qualche mano. Viene in mente, uno su tutti, il capolavoro, vera e propria bibbia dell'arte del remixing, “The Tenth Anniversary Collection” dei Masters At Work, nome d'arte di due personaggi di capitale importanza come Louie Vega e Kenny “Dope” Gonzalez. Quest'esempio serve solo a rendere l'idea dell'imponenza cui siamo di fronte con “Keepers Of The Light”. Altro elemento per rendersene conto è la definizione del “genere”. Con la scorciatoia “elettronica” si è voluto evitare una lista di generi e sottogeneri infinita, fra cui si può includere dubstep, post garage, jungle, breakbeat, soul e influenze jazz. Ciò che il collettivo LHF ha voluto esprimere con i due cd, i cento quarantaminuti e le ventisei tracce è un qualcosa di forte, stentoreo, se si vuole esagerare, epocale.

LHF vuol dire Amen Ra, Double Helix, No Fixed Abode, Low Density Matter, Octaviour, Escobar Seasons, Solar Man e Lumin Project. Elementi di un super collettivo segreto che da tre anni inonda la nostra mente con ascolti alieni, mischiando sacro con profano e tradizione con innovazione. Fra i vari componenti solo alcuni appaiono nei crediti come produttori, infatti le tracce vengono spartite in maniera più o meno omogenea, con una preponderanza del lavoro di Double Helix e Amer Ra. Il materiale qui presente raduna canzoni già uscite sui tre singoli “Enter In Silence...”, “The Line Path” e “Cities Of Technology”, con l'aggiunta di altre quindici mai pubblicare ufficialmente.

Addentrarsi in “Keepers Of The Light” è un po' come sedersi e ripercorrere la propria vita passata su pagine di diario ingiallite. Per un appassionato di elettronica questo disco è una festa fatta di dolci sogni nostalgici, emozioni straripanti e incontenibile piacere. Ciò che si percepisce è la volontà di plasmare una materia viva e nuova, magari in alcuni frangenti sconnessa e verbosa, una musica nuova, magmatica e  avvolgente. Plastica e macchine, fondendosi in una sinfonia lunga due ore abbondanti, mischiano bassi tellurici, synth taglienti, visceralità urban e nebbie, in un flusso sonoro che è per sua natura cinematico. LHF racconta una storia lunga decenni attraverso un'operazione di sintesi che forse rimarrà nella memoria per la sua sfrontatezza e il rumore ingiustificato. Tuttavia l'album sale ascolto dopo ascolto, richiedendo pazienza e sudore, le stesse qualità che i musicisti hanno impiegato per offrirci tale bellezza.

Fra i tanti episodi piace ricordare le sconnessioni ritmiche con i segnali di una radio indiana in “Indian Street Slang” e “Sunset (Mumbai Slum Edition)”, le fluenti delicatezze jazzy style (l'immacolata dolcezza di “Blue Steel”, il rullante infuocato in “Questions”), magiche sferzate breakbeat (“Supreme Architecture”), oltre ai tagli techy di classe innata (gli stomp di “Akashic Visions”). Ma è davvero arduo arrivare all'essenza di un'operazione dettagliando traccia per traccia, a costo di risultare poveri di definizioni la cosa migliore è lasciare la parola alla musica. Con i frangenti finali l'album scioglie le tensioni in un brodo primordiale densissimo e acido, fra cui spiccano il procedere marcio e stentato di “Inferno”, le effusioni cinematic di “Voyages” - macchiata da brandelli classici campionati -, e il bollore inesploso della conclusiva “One Toke Wonder”, un frullato midtempo segnato da sporcizie varie.

È quasi impossibile determinare la portata dello sforzo creativo degli otti inglesi, i quali non si risparmiano e danno alle stampe un qualcosa che esce fuori dai binari da ogni punto di vita. Forse distinto da urgenza espressiva efficace quanto annichilente, “Keepers Of The Light” mette un punto ben marcato sulla linea retta cronologica della storia dell'elettronica.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 23 settembre 2012

Giulio Aldinucci: "Tarsia" (Nomadic Kids Republic, 2012)
















Messo temporaneamente in soffita il progetto Obsil, Giulio Aldinucci pone in copertina il suo nome di battesimo per una nuova uscita discografica. Sempre contraddistinta da una grazia inusitata, la musica del senese si colloca nei pressi di un'avanguardia sempre più peculiare e caratteristica. Devoto ai suoni dell'ambiente e della terra, l'artista concentra in questo album tutte le qualità dei suoi precedenti album a nome Obsil con un tocco di personalità in più. Dopo aver cambiato varie etichette, il nostro approda alla mini-label Nomadic Kids Republic, piccola realtà creata e gestita da Ian Hawgood.

Con l'uso sapiente e misurato di field-recording rurali ed essenziali, la natura primordiale della sua musica viene confermata dal titolo. Come spiegato dallo stesso autore in un'intervista radiofonica, il titolo “Tarsia” è ispirato alla tecnica dell'intarsiatura. Nello stesso modo con cui centinaia di anni fa pazienti artigiani del legno usavano tale metodo per realizzare opere stupefacenti, il musicista elettronico sovrappone, con la stessa capacità di giustapporre, fini strati di suono per comporre la sua musica. Ed è una naturale conseguenza il fatto che tale termine e ciò che evoca, sia il perfetto corollario per immergersi in un disco che trasuda autenticità e distensione. Suoni che vengono dall'aldilà donano pace interiore con metodi mai violenti, rivelando il lato gentile dell'avanguardia e dimostrando che la musica sperimentale può e deve essere godibile anche da orecchie non avvezze a tali melodie.

Tracce l'una fusa all'altra compongono un unico bozzetto naturalistico vivido, semplice, dalla forza interiore che sfiora il mistico. Con il picco di ispirazione nell'immacolato procedere di “Pianura (con gli occhi di F.”), il compositore toscano approfondisce la sua persona e mostra a noi ascoltatori un mondo tutto suo, a cui noi possiamo accedere bussando, senza far rumore.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 28 agosto 2012

Crossover: "Gloom" (Desire Records, 2012)
















L'electro-clash, corrente tanto esplosiva quanto fugace, creò molta confusione gettando nella mischia una miriade di band. Tale successione frenetica offuscò talenti difformi dai suoni in voga, oltre a distorcere le reali qualità della musica proposta. I Crossover, duo americano formatosi proprio nel 2002, pubblicò in tale periodo il bellissimo "Fantasmo", perlopiù lasciato da parte da stampa e pubblico. Trascorsa questa decade con una produttività ben più che sonnecchiosa, Vanessa Tosti e Mark L. Ingram giungono nel 2012 con molto dilemmi e poche certezze. Proporre soluzioni electro-pop vagamente prestate alla club-music, con reminescenze dark, può essere una scelta rischiosa e fuori fuoco.
"Gloom" riassume varie tendenze in ambito elettronico fondendo il tutto in un'unica anima inscindibile, donando il giusto apporto di novità senza strafare, dando il suo meglio quando c'è bisogno di puntare al cuore. Su basi electro multiformi, i ricami melodici sono un perfetto apporto per Ingram che con salda ombrosità noir colora le canzoni di un pregevole effetto disorientante.

La coppia a stelle e strisce salmodia poesie macabre, inscena balli spastici e si adatta perfettamente ad atmosfere ben poco balneari ma bensì fumose, distorte, abilmente malate. La musica fluisce senza pause dando la sensazione di opera studiata globalmente, non composta da singoli da rampa di lancio, concepita per dare una sensazione di totale immersione sensoriale. Mai completamente sbilanciato sul lato passionale ma perennemente tormentato, "Gloom" rivela un'anima introspettiva, prende in prestito il battito della dance music e lo trasmuta volta per volta in uno strumento adattabile in base all'esigenza della canzone. Non una pesantezza di comodo o costruita ad arte, la profondità dei suoni e la ruvidità delle melodie donano un'autentica sensazione di seduzione morbosa e insana.

Le pause non esistono, ed è un piacere soccombere all'estenuante giravolta di synth circolari, drum-machine e voci. L'efferato incipit di "Wraith In The Woodz" è solo l'inizio di un viaggio che prosegue con toni coerenti, dove il ritmo non straripa mai, ma implode su se stesso con effetti ben più devastanti ("Luv Sich Vampires", i magistrali stop & go di "How Couvl I", gli accenni dark-dance nella bellissima "Mother Ov God"). Le parentesi electro-pop non scalfiscono una corazza fatta di nero e orrori (il sex appeal della voce femminea in "The Bvrning" e "Yr A Ghost" oltre alla finale, parzialmente solare, "Fog Machine"), coadiuvate da due abissi neri come la pece: "Svummer In Oslo" (il pezzo più opulento e scuro dell'album) e "Don't Tvrn Yr Back On Magic" (inarrestabile e massiva).

Crossover, nome adatto per l'attitudine dei due componenti a mixare tendenze e stimoli, è un progetto che dona linfa vitale alla scena elettronica dando in pasto agli appassionati un prodotto strano e inclassificabile, apprezzabile tanto dai clubbers quanto dagli amanti dell'elettronica intesa in senso più ampio. Messo sul mercato nel periodo pre-vacanziero con scarsa fortuna, "Gloom" ha tutte le potenzialità per sparigliare le carte in tavola e mettere in difficoltà incrollabili certezze.

 (7)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 10 giugno 2012

Davide Matrisciano: "Traffico Di Pulsazioni (9 Modi Di Intendere Il Frastuono)" (Prehistorik Sounds ,2012)















Nato nel 1985, il precoce artista Davide Matrisciano compone la sua prima canzone a diciassette anni. Dopo un vario peregrinare fra associazioni culturali e studi teorici e pratici, la sua decisione di dedicarsi completamente alla musica arriva inequivocabile e necessaria. Per un compositore – sopratutto se produce musica non “pop” - riuscire a completare il primo album è un po' come nascere una seconda volta. Il musicista partenopeo mette insieme un'opera prima variegata, esplosiva, figlia di un'inesperienza genuina condita con la tanta voglia di tirar fuori le proprie idee.

“Traffico di pulsazioni” è un piccolo disco di musica elettronica, dove per musica elettronica si intende una serie di composizioni non necessariamente sintentiche ma con un sviluppo comandato da strumenti quali synth, drum-machine, campionatori e quant'altro possa ricondurre alla tradizione di tale genere. Il talento profuso per questi nove pezzi è evidente e viene a galla in maniera palese e forse un po' disomogenea, dove tuttavia il piacere dell'ascolto non viene inficiato da uno sviluppo frenetico e opulento. Un esordio che ricopre tutti gli stilemi dell'iniziazione: potenzialità ancora inespresse, furore da esordiente, voglia di sorprendere.

Una dopo l'altra, le canzoni si succedono secche e rigorose. “Passeggio tra luci psichedeliche” è un gommoso centrifugato fra IDM ed electro, “Gente in piazza” ricorda certi quadretti ethereal di metà anni '90, “Aria nuotatrice” è un interessante colloquio fra field-recordings, chitarra e brandelli di melodie classiche. Se “Noia e affanno” pare un carillion fatato, il resto dell'album diventa più ambientale - vagamente screziato seppur lievemente – dove le varie “Spine inermi” e “Incredibili visioni” richiamano la kosmische musik quanto le influenze ambient-techno di fine anni '90. Questa parte d'album è quella che più avrebbe meritato un maggiore sviluppo in termini minutaggio, da cui si sarebbe potuto apprezzare un potenziale melodico-ritmico di grande pregio. Non ne risente tuttavia la riuscita finale, considerando che la musica che ne esce fuori è comunque gradevole ed efficace.

Dove il frastuono – come da titolo - diventa timido candore, l'artista da il meglio di sé. Leggendo la sua biografia si apprende che è già in lavorazione il secondo album, la cui natura prenderà una piega più pop. Ciò che ci auguriamo è che l'essenza non cambi assolutamente, ed anzi, si potenzi sempre di più verso la direzione di questo suo primo lavoro.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 5 giugno 2012

Barbara Morgenstern: "Sweet Silence" (Monika, 2012)

Inframezzato dalle prove in gruppo con i September Collective ("Always Breathing Monster" del 2009) e l'esperimento jazz insieme a Bill Wells, Annie Whitehead e Stefan Schneider ("Paper Of Pins" sempre del 2009), "Sweet Silence" arriva a quattro anni di distanza da "BM" accompagnato da una buona dose di sorprese.
Con le ultime uscite l'artista berlinese sembrava aver abbandonato l'electro-pop tipicamente tedesco, marchio di fabbrica molto in voga ad inizio anni Zero. Lo stesso "BM" si smarcava in modo netto da certe trame proponendo un pop orchestrale dal fascino irresistibilmente retrò e raffinato, la cui componente elettronica si riduceva ad alcuni ricami.
"Sweet Silence" sembra invece tornare indietro di una decina d'anni. Infatti la struttura è quasi completamente sintetica, tanto che nei pezzi cantati sembra di sentire un synth-pop primordiale, robotico, in cui l'evocazione dei Kraftwerk è quasi scontata (si ascolti l'intro di "Highway", in cui lo spettro dei maestri di Düsseldorf si aggira già nel titolo).

In questo disco la prima cosa che risalta in maniera lampante è la bellezza dei suoni. Un album elettronico riesce a sollevarsi dalla media se le melodie sono belle, inusuali, frizzanti e non statiche. In "Sweet Silence" troveremo un campionario sterminato di composizioni impossibili da dimenticare - infatti, fin dall'iniziale title track, passando per la magnifica e gelida "Spring Time", saremo assaliti dall'inappuntabile grazia di ogni singolo pertugio.
Il nuovo lavoro si muove però anche su un ulteriore livello, che potremmo definire quasi "cantautorale". Forte delle recenti esperienze di reading poetry (il progetto "Only My Pen Tolerates My Choices"), senza dimenticare il cameo nel canzoniere della concittadina Antye Greie-Fuchs, la Morgenstern sembra voler allargare il proprio raggio d'azione, abbandonando per una volta la lingua tedesca e abbracciando un campo lirico alquanto esteso, che spazia da frammenti di routine quotidiana a quiete riflessioni esistenziali, con la solita penna sottilmente canzonatoria, ma con una marcia in più in termini di poetica e comunicatività.

È grazie a questa combinazione, quindi, che "Sweet Silence" funziona alla perfezione come disco pop brillante e maturo, composto da tredici tasselli che si reggono peraltro benissimo anche singolarmente: il leggiadro synth-pop di "Need To Hang Around", il gioco a incastri di sampling vocali di "Kookoo", il gentile upbeat di "Jump Into The Life-Pool" (che riproduce sinteticamente quell'eterno movimento a spirale qual è il cerchio della vita) fino alla sinuosa deviazione electro di "Auditorium", in cui è più percepibile la mano di T. Raumschmiere in regia, e il bel crescendo glitch-techno di "Status Symbol", unico pezzo ad osare oltre i quattro minuti.

Diretto e incalzante, "Sweet Silence" è un esempio magistrale di leggerezza e lavoro certosino, di essenzialità e freschezza primaverile. Per un disco che si rifà a modelli creduti morti e stantii non è davvero niente male.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo

giovedì 22 marzo 2012

Ciao Fernando.


Una delle tue più grandi vittorie. Ci mancherà il tuo tennis, pazzo, sregolato, sempre al limite. Ciao mano de piedra.

sabato 17 marzo 2012

Chairlift: "Something" (Kanine Records, 2012)















Finiranno mai, gli anni Ottanta? Sembra davvero di no. Certo, col revival Nineties alle porte sbilencaggini post-punk e giri di basso alla Joy Division cominciano a odorare un po' di stantio, e la no-wave newyorkese non appare più il non plus ultra della figaggine indie. Ma proprio ora che tutti sembrano pronti a imbracciare chitarre grunge e tastieroni eurodance, qualcuno bussa alla porta con un cestone di lp e fa "Ehi, vi siete dimenticati di questi".

Kate Bush, Eurythmics, Talk Talk, Tears for Fears, Naked Eyes: è il synth-pop più arty e solare a fornire l'ispirazione a questi importunatori del naturale ciclo ventennale della retromania. Quel pugno di band metà anni Ottanta che aveva visto nel campionatore Fairlight lo strumento di redenzione da darkumi e sgangheratezze, l'occasione per riconciliare la propria generazione col sound sgargiante e raffinato dell'era sunshine-pop.

Dunque presentiamoli, questi guastafeste. Sono Caroline Polachek e Patrick Wimberly, in arte Chairlift. Newyorkesi come altri "ripescatori" dello stesso tipo di caleidoscopica vitalità (Vampire Weekend, MGMT), arrivano a “Something” dopo un primo disco più scuro e sonnolento, sicuramente con un impatto differente. La tenera bellezza di “Does You Inspire You” metteva a nudo un approccio scanzonato ma non solare, una composizione brillante ma non straripante. Le canzoni di “Something”, nonostante la fantasia rimanga intatta, esplodono prorompenti, si ergono a perfette pop-song dal ritornello killer, sanno ammaliare in maniera diretta.

Oltre all'enorme talento melodico e di varietà sonora - si alternano magistralmente toni differenti e registri strumentali opposti -, la voce candida di Caroline Polachek rappresenta la fonte del magnetismo della musica dei Chairlift. Versatile e intimamente folk, passa dall’usignolo (l'estatica “Turning”) alla femme fatale (la malia irresistibile delle varie “Take It Out On Me”, “Ghost Tonight” e “I Belong In Your Arms”), dai gorgheggi ai sussurri nell’arco di un solo brano. Ma il vero punto di forza pare essere un altro: una timidezza mai del tutto nascosta, un velo di imbarazzo o immaturità che leva ogni ostentatezza e mette a nudo – in perfetta sintonia con lo spirito indie – una creatura fragile e incerta. Una fata esile e luminosa, che sta in una mano e chiede col suo canto protezione.

I cali di tensione in qualche circostanza smorzano il tono passionale dell'album (la melensa “Cool As Fire”, il folk-pop incerto e fuori contesto di “Frigid Spring”), senza tuttavia inficiare la qualità complessiva che rimane alta e vibrante. Fin dall'essenzialità delle ultime note di “Guilty As Chargee” - tripudio tambureggiante di finissmo pregio - si scorge l'immenso, sregolato e palpitante potenziale di questo duo. Con un pizzico di discrezione in più e qualche autorefenzialità in meno, il disco dell'esplosione a livello di critica e pubblico possono permetterselo senza dubbio.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Marco Sgrignoli

lunedì 12 marzo 2012

Sparkle In Grey - Sbuffi strumentali all'italiana


Dopo l'uscita del loro secondo album "Mexico", gli Sparkle In Grey si concedono per un'intervista a tutto campo per spiegarci cosa significa far convivere tante anime in una band, barcamenarsi all'interno del mercato musicale italiano, oltre al senso dell'improvvisazione nella musica strumentale.

Ciao ragazzi, grazie per aver scelto Ondarock come sede per una vostra intervista. Innanzitutto complimenti per "Mexico", la vostra carriera sembra avere sempre meno punti di riferimento e questa la ritengo una cosa positiva. Vista la vostra peculiare fusione fra elettronica e struttura canonica post-rock, la prima cosa che vi voglio chiedere è: com'è nato il disco? come fate a far convivere due anime e due processi di produzione?

Alberto Carozzi: Grazie per i complimenti… siam contenti di quel che stiamo facendo, trovarsi in sintonia in un'esperienza musicale non è per niente scontato. A noi è capitata questa fortuna e ne abbiamo consapevolezza, ce ne prendiamo cura e ci piace anche sfidarla, la consapevolezza, provando ogni volta combinazioni per noi inedite: alla fine i conti tornano, le idee si moltiplicano e fatichiamo a stargli dietro.
Matteo Uggeri: Da tempo non ci poniamo più il problema di come far convivere elettronica e strumenti "veri". Il nostro metodo compositivo, se così lo si può chiamare, consiste nell’andare in sala prove ogni giovedì sera e lì improvvisare assieme su basi elettroniche che di norma io ho preparato in parte in precedenza. Ma ultimamente facciamo anche senza elettronica, e ce la mettiamo dopo. La "struttura canonica post-rock" tendenzialmente cerchiamo di evitarla, ossia i classici crescendo ritmici e malinconici tipici di gruppi come Godspeed You Black Emperor! (che peraltro comunque ci piacciono, ma hanno troppi imitatori), e il fatto di avere le ritmiche sintetiche a tenerci ancorati a terra a volte aiuta. Comunque non potevi farci un complimento migliore dicendo che non sembra che abbiamo punti di riferimento… in realtà ne abbiamo molti, ma si mischiano e non si riescono più forse a individuare!
La sensazione che ho avuto io è che spesso i pezzi abbiano una sovrabbondanza di elementi, in alcuni casi lo sviluppo mi piace ma sento quel di più che mi disorienta. Amando molto la musica elettronica il mio è un approccio minimale, tuttavia capisco che una band non possa assecondare lo spirito di un solo componente. Come vi comportate voi sotto questo aspetto? Ci sono discussioni o tutto è limpido e lineare?
AC: Dalle prime cose che abbiam fatto ad oggi siamo stati accostati a moltissimi artisti anche distanti fra loro.. probabilmente la morale è che la percezione di prevalenza di uno stile o di un altro dipenda solo dal vissuto dell'ascoltatore.
MU: Di sicuro secondo me uno dei nostri grandi punti di forza è che a tutti noi piacciono tante musiche e molto diverse… quindi dire che un brano piace a tutti e decidere di registrarlo e metterlo su disco significa che quel brano piace a tutti e quattro, il che è un miracolo visto che c’è chi ama i Nine Inch Nails e chi Eric Satie… o magari entrambi.
Discutiamo abbastanza, ma finora senza mai esserci uccisi. Aiuta molto cenare assieme prima delle prove. Sul serio.

A supporto delle vostre risposte mi viene in mente  “These Nightmares Are Ending”, uno dei miei pezzi preferiti, pubblicato nello split “Whale Heart, Whale Heart”. In quei nove minuti c'è la perfetta sintesi della vostra musica. Collegandomi a questo episodio, vorrei chiedervi come vi approcciate a uno strumento sottovalutato come il violino. Nelle vostre canzoni è spesso presente e da un valore aggiunto al tutto. Ditemi la vostra.
Franz Krostopovic: Il violino, a mio modo di vedere, più che sottovalutato, è uno strumento rischiosissimo nella musica non riconducibile a quella cosiddetta “colta”: il rischio è di tendere al virtuosismo o al manierismo. O sei country o svisi come un pazzo. Quello che cerco di fare con fatica, anche grazie ai preziosissimi consigli dei miei sodali, è tendere a un timbro e a delle soluzioni che vadano nella direzione dell’essenzialità e della particolarità più che della velocità e dell’esibizionismo che questo strumento porta tatuati nel legno.
AC: Nemmeno io ho mai pensato al violino come uno strumento sottovalutato, anzi mi sembra sia uno strumento che si ritaglia ruoli di primo piano da diversi secoli; è lo strumento che più si avvicina alla voce umana, quindi da un lato estremamente eclettico e versatile, dall'altro in grado di stabilire un legame privilegiato all'ascolto… e in questo senso son d'accordo che si debba stare attenti al rischio di una sovraesposizione del suo timbro. Ma una cosa bella e interessante che stiamo sviluppando è creare dei brani intorno a una proposta del violino: "Phennel Song" è nata così, e pure alcune cose nuove nuove che ci “costringono” a cambiare l'approccio a un brano.
MU: “Più disteso, meno note!”: questo è il modo in cui fino a un po’ di tempo fa rompevo le palle a Franz. Da un po’ di tempo invece tutto quello che fa mi piace da morire. Mi ha pure presentato ai suoi. Se non fossi già sposato…

Non intendevo assolutamente definire il violino uno strumento sottovalutato in assoluto, bensì solo in certi contesti strumentali negli ultimi 10-15 anni. Come dite voi è un passo difficile per un gruppo che fa musica strumentale, il rischio di risultare troppo virtuosi è palpabile. A tal proposito mi vengono in mente i Kreidler, band che io adoro e che ho cercato di spingere sempre in questi anni. Li avete mai ascoltati? Ritengo che la perfezione formale ed emotiva dei loro pezzi sia assimilabile al vostro stile. A supporto della domanda ditemi se durante le fasi di scrittura avete degli artisti/dischi a cui fate riferimento o che sono per voi fonte di ispirazione.
MU: I Kreidler li ho scoperti quest'anno perché Bureau B mi ha mandato da recensire il loro “Tank” per Sands-Zine (la piccola webzine per cui sia io che Al ogni tanto scriviamo). Mi ha colpito molto e ho apprezzato da morire alcuni brani, oltre ad essere da sempre fan di ToRococoRot e Tarwater. Hai ragione: il loro minimalismo e lo scarsissimo uso della chitarra sono esemplari, un po' il disco che stiamo preparando va in quella direzione. Però gli artisti a cui si potrebbe dire che facciamo riferimento in fase creativa (scrittura è una parola grossa! improvvisiamo sempre per creare) sono tantissimi. Di volta in volta alle cene del giovedì sera, prima delle prove, uno di noi arriva con nuove suggestioni che vanno da Ali Farka Toure ai Cindy Talk, passando per i Seeds (quelli di Saxon) o Marracash, senza escludere Caparezza o la Penguin Café Orchestra e i Cop Shoot Cop. Se solo nella nostra musica poi finisce una briciola – consapevole o meno – di ciascuno di loro noi siamo felici. Ma chi lo sa? Certo è che ascoltiamo un sacco di roba diversa.
AC: A me succede regolarmente di avere in testa un modo di suonare di qualcuno, un certo suono, uno stile, e cercare di portarlo più o meno coscientemente in quello che faccio, oggi questo, domani quello; per esempio mi lasciano di merda lo stile compositivo dei The Necks, gli attacchi dei brani di Tiken Jah Fakoly, lo spirito punk di Pascal Comelade, l'odore di kebab degli Zebda...
FK: Tipicamente mi innamoro di alcuni gruppi, compositori o semplicemente modi di suonare rispetto a quello che ascolto in quel preciso momento. Ogni volta che vedo un concerto dal vivo, per esempio, mi dico quanto sarebbe bello suonare così e creare quelle atmosfere. È un atteggiamento ingenuo e romantico, ma, salvo ovvie eccezioni, mi innamoro di tutto quello che sento.

Sempre relativamente allo split, com'è nata la collaborazione con Matt Shaw (Tex La Homa)? Vi chiedo questo perché la vostra musica è essenzialmente molto diversa dalla sua, infatti l'annuncio della pubblicazione dello split mi sorprese molto al tempo.
AC: La collaborazione con Tex La Homa è nata da un invito gentilmente accettato. L'abbiam fatto con leggerezza, nel senso buono del termine, anche se in effetti molti ce ne chiedon conto... chi sa se anche a lui. Di fatto poi si è trattato di una collaborazione molto a distanza, dividendoci in parti uguali i due lati di un vinile, uno split appunto. Quindi artisticamente non c'è stato mescolamento: magari valeva la pena.
MU: Io ne avevo ascoltato alcuni brani da compilation e poi abbiamo scambiato dei dischi. E' una persona squisita e la cosa strana è stata che suo figlio è nato nei giorni in cui abbiamo fatto il disco... che lui ha interpretato in chiave di amore paterno. Cosa che ci stava benissimo.

Altra curiosità, perché nei vostri pezzi spesso ci sono campionamenti di voci bambinesche? C'è un motivo particolare o semplicemente vi piace quel tipo di suono?
FK: Ecco, le voci bambinesche e gli scrosci d’acqua sono i marchi di fabbrica di Matteo Uggeri. Lo prendo in giro da un decennio per questo, quindi l’occasione mi è ghiotta per continuare a farlo.
AC: Nel prossimo disco ci saranno campionamenti di bambini annegati.
MU: Abbiamo pure perso la possibilità di esser pubblicati su Boring Machines a causa di questo: pare che a Onga scoppiasse la bile per quelle vocine. A mia discolpa posso solo dire che i bambini registrati sono tutti figli di cari amici (Sofia, che canta in “Teacher Song” è la figlia della mia capa al lavoro, e Ileana e Lukas - “L'innocence du Sommeil” - son figli di un mio amico greco/tedesco), quindi c’è comunque un legame affettivo con loro, non sono voci a caso. "Teacher Song" è nata proprio per un concerto ormai mitico che abbiamo fatto nel 2007 in un asilo dove c’erano proprio i figli della mia capa…

Credo che i campionamenti nella musica strumentale siano un’arma a doppio taglio, abusandone si va incontro a una poltiglia indefinibile. Come vi approcciate a queste pratiche? Quali sono per voi le potenzialità di un suono registrato? Come fate a far colloquiare questi elementi esterni con il resto?
MU: Mah... io vengo da un contesto musicale in cui il campionamento è parte integrante della musica. Rimasi colpito nei '90 da un'intervista agli Outoff Body Experience (chi se li ricorda mi mandi una mail e gli regalo un nostro disco!) in cui dicevano “c'è chi suona la chitarra, chi la batteria, chi le tastiere o il campionatore... noi suoniamo i dischi degli altri”. La musica che faccio è intrisa di campionamenti, potrei ricevere più denunce dei MARRS, ma la cosa più bella è che non li riconosce nessuno. Sia in “A Quiet Place” che in “Mexico” ci sono anche delle citazioni di film o altri artisti che finora nessuno ha individuato...
Però ci sono anche casi in cui non ci stanno per niente, vedi “Nefelodhis”... e recentemente Alberto mi ha fatto notare che nel disco acustico che stiamo preparando quelli che avevo scelto erano troppo didascalici. Aveva ragione.
Insomma, non so come facciamo a farlo colloquiare con il resto, dipende molto. A volte li metto prima e fanno da ispirazione (o disturbo) per gli altri, altre li aggiungo dopo per vedere se ci stanno. Certo è che ci penso a lungo su cosa mettere e dove e gli altri spesso mi maledicono per le strane voci che li mandano fuori tempo mentre suonano.
AC: "Sunrising", dopo averla registrata ci lasciava un po' perplessi, era incompleta, non ne venivamo a capo, poi Matteo ci ha messo sopra la voce di Salvatore Borsellino, ed ha fatto un balzo orbitale che ancora mi manda insieme lo stomaco. Trovo molto affascinante qualsiasi forma di riciclo, e credo sia stata una delle cose che mi aveva fatto venir voglia di provare a suonare con Matteo. Rimettere in ciclo, magari in una dimensione completamente improbabile.. bisognerebbe farlo anche con le persone, così per mescolare un po' le carte..

Sia questa che le altre risposte, mi fanno capire che il vostro modo di mettere insieme un album è essenzialmente basato sull’improvvisazione. Ritrovarsi in una stanza una volta alla settimana e suonare liberamente, inserire campionamenti in base all’ispirazione del momento, non lasciarsi imbrigliare da schemi fissi. Secondo il vostro modo di lavorare e sentire, dove sta il limite fra improvvisazione e scrittura? O detto in altri termini, nella musica strumentale esiste una scrittura vera e propria? O ci si lascia andare a sensazioni volatili del momento? Se l’improvvisazione per voi è tutto, è corretto dire che un album potrebbe essere completamente diverso a seconda del vostro umore, di quello che avete ascoltato il giorno prima, o influenzato da altri fattori esterni?
MU: È da un po’ che rifletto su questa domanda… non è facile rispondere e descrivere come nascono i nostri brani. Di sicuro posso dire che no, l’improvvisazione per noi non è tutto, di solito è il momento creativo iniziale, ossia proprio quello che accade al Silos, il luogo dove proviamo ogni giovedì sera. Forse è più facile descrivere proprio per passaggi: magari io a casa, in un momento di rara creatività domestica, mi metto davanti al laptop a spippolare per creare una nuova base ritmica, spesso campionando dischi altrui per poi modificarne radicalmente i samples e mischiarli con altri. Dopo, quando ci si trova al Silos, se mi sento abbastanza coraggioso e soprattutto se abbiamo tempo da dedicare a pezzi nuovi (spesso dobbiamo preparare i live) la faccio partire e vedo cosa fanno gli altri. Ultimamente è Cristiano che, con il basso, ci trova un giro che magari ci sta bene… poi si sovrappongono gli altri, Alberto con la chitarra, Franz con il violino. Di solito queste sessioni durano almeno una decina di minuti, finché non ci stanchiamo e ci guardiamo in faccia chiedendoci a vicenda come ci sembrava. E poi lì comincia il difficile, ossia una fase di affinazione del brano che può durare anche mesi o anni… ma non tanto perché siamo super perfezionisti, è che abbiamo poco tempo per lavorarci e non sempre l’ispirazione arriva. Magari dopo decine di tentativi ci accorgiamo che la mia base è troppo incasinata e la buttiamo, oppure decidiamo che al posto del violino ci sta la tastiera, o che magari possiamo metterci due bassi o chiamare il nostro amico batterista (Simone Riva, il proprietario del Silos, suonava con Alex Baroni!).
Di solito Cristiano registra con un semplice lettore mp3 le nostre impro o le prove su come forgiare un pezzo, poi sua moglie ce lo manda via internet e a casa ognuno se lo riascolta, magari si fa venire delle idee… Alla faccia dell’improvvisazione dirai! Quando un brano è decente magari lo proponiamo dal vivo, ed è lì che ci rendiamo conto se funziona davvero o no (spesso no), e allora lo ri-modifichiamo. A volte non è del tutto definitivo nemmeno quando lo registriamo, tanto è vero che poi aggiungiamo parti o anche togliamo dopo, in fase di mixaggio.
Poi ci sono altre modalità, ad esempio “Nefelodhis” e “Whale Heart” sono nati in modi del tutto diversi… il disco acustico su cui sta lavorando Alberto è ancora differente.
AC: Cerco di raccogliere soprattutto la parte iniziale e quella finale della tua domanda. L'improvvisazione per noi è innanzitutto una pratica di riscaldamento, per cominciare a far girare un po' i suoni nell'aria. Improvvisare per improvvisare non so se sia una cosa che mi interessa perseguire, sebbene resti un'esperienza a volte spaventosa per quanto riesce a rivelarti della sintonia fra te e chi sta condividendo quel momento. Sull'improvvisazione sto lavorando molto invece in tutt'altro contesto, in cui l'obiettivo principale è proprio la relazione, e l'estetica è un valore aggiunto, a volte cercato a volte no. Alcuni dei nostri brani hanno all'interno uno spazio elastico in cui ci si può lasciar andare, uno spazio circoscritto, quindi delimitato, non del tutto imprevedibile, ma comunque soggetto alla spontaneità del momento. E per concludere, anche se la maggior parte delle cose che registriamo sono più o meno fissate, mi piace pensare,  per noi e anche per tutti i dischi che amo, che contengano l'odore di quel che si è mangiato quel giorno lì.

Considerando il contesto in cui siete nati artisticamente, e il fatto che siete italiani, voi vi sentite parte di una scena? C’è un rapporto con altri artisti a voi simili o facenti parte di un “giro”? Credete che costituire una sorta di unione fra vari artisti possa contribuire a far divulgare musiche meno note al grande pubblico?
MU: Personalmente devo tantissimo a tre contesti musicali italiani: Oltre il Suono, ossia il forum (ormai chiuso) “ambient” fondato da Giuseppe Verticchio alla fine dei '90, la breve esperienza di iXem e del festival Superfici Sonore a Firenze (2003) e poi il Tagofest a Marina di Massa, cui ho partecipato dal 2007 all'anno scorso (e mi vien da piangere a pensare che non ci sarà più). Poi non so se si può parlare di scena, però di amici e collaboratori sicuramente sì (parlo di Harshccore, OvO, St.ride, Afe, My Dear Killer, Onga, Luminance Ratio, Bob Corn, Palustre, Malagnino, Comaneci...).
Alla fine comunque siamo praticamente rifiutati in blocco dai contesti cosidetti "indie" e quindi ci troviamo molto più a nostro agio in quelli sperimentali, anche se la nostra tendenza sarebbe quella di frequentare anche altri salotti. Ma non ci fanno entrare.
AC: Sto imparando che la condivisione è quella cosa che dà senso e valore a ogni esperienza e ogni esistenza, te ne accorgi quando ti viene a mancare, e non è semplice da trovare, richiede accoglienza, ascolto e tante altre cose che forse nemmeno c'entrano con la domanda che hai fatto.. Per pubblicare Mexico abbiam coinvolto quattro etichette (Afe, Musica di un Certo Livello, Lizard, Old Bycicle) oltre alla nostra Grey Sparkle, ciascuna delle quali ha contribuito per quel poteva/voleva a finanziare la pubblicazione del disco. Finora mi pare stia funzionando molto bene, chi più chi meno ci stanno dando una mano a promuoverlo, a trovare qualche misero spazio per suonare dal vivo, spero che ognuno rientri nei costi, sarebbe un buon motivo per ripetere l'esperienza..
Far parte di una scena non so cosa significhi esattamente forse perché la scena è più qualcosa che si vede dal di fuori, guardando le cose da una certa distanza, e si ha una percezione più chiara di un insieme. Se guardo il mio atteggiamento posso dire che oggi non inseguo i miei “simili”, anzi mi vien più da guardar fuori, verso altri contesti, altre forme espressive, altri tipi di stimoli. Mi ha fatto bene per esempio pochi giorni fa ascoltare alla radio un reportage dal Messico, da una di quelle case di accoglienza che forniscono supporto fisico, logistico e morale a persone che attraverso il Messico cercano di entrare negli U.S.A. Finiva con “migrare è un diritto”.
FK: Come dice il nostro amico Luca Sigurtà, “la scena fa schifo, e la colpa è tua”. Parafrasando i Bluvertigo, invece, siamo tutti più egoisti di quello che pensiamo e, più che una scena esistono dei percorsi comuni, e la sensazione di essere tutti in una situazione fra il ridicolo e l’epico. Che è poi il senso della musica, penso.

Ho frequentato per molti anni il TagoMago, compiango anche io alcune tappe dolorose di quel locale. Purtroppo la ghettizzazione di certi circoli artistici porta all’esclusione aprioristica in base a criteri davvero demenziali. Quanto può far bene alla musica un atteggiamento così contraddittorio? Si cerca tanto la libertà di pensiero in ambito artistico e il risultato di certi comportamenti è l’esatto opposto: uccidere la condivisione, l’ascolto, l’accoglienza. Perché secondo voi succedono certe cose? Manie di protagonismo? Paura di essere a propria volta esclusi?
MU: So che il Tagofest è stato criticato da più parti, ma in me non troverai un detrattore! Sì aveva i suoi difetti, era anch’esso forse per amici di amici, ed in alcune edizioni non ho apprezzato molto le scelte musicali, ma era lo stesso una figata, almeno per me e tanti altri. Alla fine organizzare una cosa del genere è una fatica immensa, e per me è naturale che chi la organizza poi ci faccia suonare chi gli pare e come gli pare. Ma non sono sicuro che tu ti riferissi a questo: se parli dell’ostracismo verso il Tagomago da parte del Comune di Massa Carrara, delle famose retate, delle visite SIAE etc… be’, in quello puoi immaginare cosa penso di tutti questi bastardi che hanno messo i bastoni tra le ruote al locale.

Per quanto riguarda la questione della pubblicazione di “Mexico”, che cosa significa coinvolgere ben quattro etichette? Mi sono sempre chiesto perché la musica di nicchia (indipendente, alternativa, a vostra scelta) italiana si sia sempre frazionata in maniera così esagerata.. Per voi esiste una ricetta miracolosa per facilitare gli artisti?
MU: Non conosco ricette miracolose, manco per far drizzare l’uccello, figurati per i dischi! Coinvolgere tante etichette è soprattutto per mancanza di soldi e di tempo: nessuno ne ha, quindi è meglio chiedere poco a tanti (per “Mexico” dai 100 a 200 euro a label). Poi la cosa più bella, almeno per noi, è che sono tutte etichette di ambito diverso: elettronica, progressive, sperimentale, dark… il che aiuta molto a diffondere la nostra musica presso ascoltatori diversi. Poi è bello lavorare assieme, mi piace molto.
FK: Citando Matteo, ma non Uggeri:"Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che mena alla perdizione, e molti son quelli che entrano per essa. Stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano". Ecco, probabilmente preferiamo le porte piccole ma che nascondono valore, che prendere una porta grossa inevitabilmente in faccia.
AC: Oggi si può indossare contemporaneamente la maschera di musicista, di produttore, di promoter, di ufficio stampa, di videomaker... Dietro le etichette che ci pubblicano ci son singole persone cui è piaciuto il nostro disco, non delle case discografiche. Se fossimo nel 1991 sarebbe già miracoloso riuscire a pubblicarlo un disco, vale per Mexico come per il 99% delle cose che escono oggi, quindi anche se è un ragionamento troppo semplicistico, penso sia da apprezzare quest'epoca musicale in cui se hai un'idea, puoi realizzarla.

Come ultima domanda mi lascio andare a un classico. Progetti futuri? Nuove pubblicazioni? Un tour in previsione?
MU: Tour mai, non ci riusciamo mai a fare qualche data di fila. Dischi invece ne stiamo preparando tre: “Thursday Evening”, che proponiamo spesso dal vivo già e che abbiamo semi-registrato all’Arci Blob con Mario Bossi, “Welcome, Brahim Izdag” (è un titolo provvisorio), nel quale ci dedichiamo in parte a samba e canzoni popolari ucraine e un disco acustico, una sorta di calendario in suoni. Chissà quando li finiremo e quando li pubblicheremo. Per ora non molliamo.

domenica 26 febbraio 2012

Mint: "The Metronomical Boy" (Boltfish Recodings, 2011)















 Nella selva delle piccole distribuzioni, negli ultimi anni il sottobosco specializzato nella IDM ha scovato prodotti di rilievo poco pubblicizzati. MINT è forse la punta dell'iceberg per qualità, tuttavia in questo ambito andrebbe fatto un po' di ordine. Non si tratta di riproposizioni scialbe dell'era d'oro del genere (i vari capisaldi Warp, per intenderci), ma bensì di candide riletture dal sapore stuzzicante. Non proposte settoriali adatte solo ai completisti ed appassionati ma qualcosa di limpido e originale autentico. Oltre alla Boltfish Recordings è bene ricordare le etichette n5MD e u-cover.

Murray Fisher è un ometto londinese cresciuto a pane e sintetizzatore. Comproprietario da qualche anno della Boltfish Recordings e titolare unico del moniker Mint, Fisher lavora di input digitali e olio di gomito su uno spettro musicale dinamico e giocoso, formula che tre anni fa diede vita al delizioso “Cardboard Rocketships”.
Ora è la volta di “The Metronomical Boy”, seguito più vivace e multiforme, ispirato al curioso episodio, incrocio tra aneddotica e leggenda, dell’archeologo norvegese Tor William Gudmundsen, che nel 1932 rinvenne in un sarcofago egizio una sorta di pupazzetto meccanico in grado di sorridere ed inchinarsi: l’esploratore decide di portarlo con sé e di donargli una seconda vita nelle mani della piccola figlia che lo elegge a suo svago preferito.
Non sorprende quindi che “The Metronomical Boy” si muova delicato e sinuoso tra beat che rimbalzano in ogni direzione, melodie appiccicaticce e nuvole ambientali policromatiche.

Fisher compone il suo terzo album in studio miscelando toni distesi e atmosfere serrate con un pennello disincantato, mostrando il lato sognante di questa musica senza abbandonare la natura ritmica. Distese tastieristiche dal sapore cosmico condiscono reticoli timbrici di  finissimo pregio (l'iniziale “Queasy”, la fredda malinconia in “Cartouche”), mentre gli episodi dalla grana più minuta eccellono per pathos emotivo (la magia fiabesca di “Ina's Special Day”, i rintocchi ancestrali di “Darker Than A Beginning” e “Air Chamber”). Influenzato tanto dall'immaginario storico già citato, quanto dalle colonne sonore dei videogiochi a 8 bit (chi ricorda Mega Man?), il prosieguo del disco schizza fra un mix di distrazioni ludiche (“Interluded”, “Free Association”), algide staffilate proto-techno (“Letting Go Quietly”, la cruda e sofferta “Daub”) e perfino un scappatella nella folktronica con gli inserti di banjo in “Learning To Walk”. “Cypher” (forse una citazione dell'omonimo film di Vincenzo Natali?) si libra fra brividi in bilico fra realtà e sogno, consegnando all'ascoltatore una traccia pulsante, mistura vivida, vitale e incandescente.

Dimostrazione di come certi settori dell'elettronica possano ancora dare tanto alla musica, MINT riesce nell'intento di non risultare calligrafico ma bensì autentico. Nelle sue composizioni trasuda passione e ispirazione, tanto che ascoltando l'album non si sente traccia di stanchezza o maniera, ma un profondo rispetto per i numi tutelari e un conseguente sguardo che va in avanti, molto in avanti. Quando il tocco carezzevole e i ritmi gentili possono far più dell'esasperazione.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo

sabato 4 febbraio 2012

Leila: "U&I" (Warp, 2012)


Abituata alle lunghe pause creative, immersa in un microcosmo sonoro dalla peculiarità inconfondibile, Leila Arab si rifà viva dopo quattro anni dall'ultimo - viaggio sonoro mistico e incantato - "Blood, Looms & Blooms". Abbandonato il suo collaboratore storico Luca Santucci nella sede vocale, Leila sceglie per le sue nuove tredici tracce il lanciato Mount Sims, ricordato recentemente per la pregevole collaborazione con The Knife e Planningtorock intitolata "Tomorrow, In A Year".

Dopo otto anni di pausa da "Courtesy Of Choice", con "Blood, Looms & Blooms" la musica di Leila cambiò in modo abbastanza drastico. Abbandonate le cadute downtempo che l'avevano resa celebre con i suoi primi due album, l'atmosfera si faceva più cupa, meno flemmatica ma palpeggiante, quasi a voler mettere una distanza importante fra sé e la fastidiosa etichetta da diva trip-hop sfortunata che le era stata affibbiata. "U&I" continua con questa scelta approfondendo quella miscela variopinta di elettronica warpiana e toni electro-pop magici, mischiando un gusto per il ritmo incantevole e un talento melodico cristallino. Non c'è un vero tratto distintivo nell'opera di Leila Arab, difficile marchiarla con generi o stili, l'unica sensazione percettibile è la potenza creativa delle sue canzoni. Fantasia ed estro controllati da un perfetto piano compositivo confluiscono in un risultato compatto e sfavillante, candito da un lampo di follia, mai banale o scontato, sempre in procinto di sorprendere. Sia di fronte a un assalto electro-pop (l'incontenibile "Activate I") che al cospetto di un acquerello sognante (la commovente chiosa finale "Forasmuch"), con Leila non c'è mai niente nulla di certo.

Ed è proprio il richiamo electro a caratterizzare le cinque tracce divise con Matthew Sims, aka Mt.Sims, tra scomposte pulsazioni analogiche in scia Add N to (X) ("Welcome To Your Life"), piroette al synth a ricoprire loop vocali degni del DM Stith più esagitato ("Disappointed Cloud Anyway"), fughe astrali irte di mistero e travaglio ("U&I") a rimarcare reconditi dualismi interiori. "U&I" è un album alienato e al contempo terribilmente evasivo. Leila allestisce questo suo personalissimo cerimoniale elettrico senza fornire alcun punto di riferimento, fregandosene delle regole e dei galatei. Regna incontrastata una remota esagitazione sonora, rimarcata a più riprese da folli costrutti elettronici. Così, l'irrequietezza melodica di "Boudica", anch'essa prossima alle violenti evasioni sintetiche del già citato trio inglese, diventa a pieno titolo l'emblema dell'attuale inafferrabilità produttiva della musicista iraniana, mentre l'atmosfera pregna di mistero che pervade il battito lunare di "Eight", unita alle oblique interferenze di "Interlace", pone l'intera opera su binari decisamente insoliti. La lenta divagazione cosmica de "In Motion Slow" e il ping pong astratto di "Forasmuch", spiazzano ulteriormente l'ascoltatore smagnetizzando in definitiva qualsiasi gracile certezza acquisita.

Con "U&I" Leila è perfettamente riuscita a far perdere tutte le sue tracce, lasciandoci con un pugno di cartoline ai limiti del surrealismo. Senza cedere al qualunquismo dell'"al giorno d'oggi non ci sono più dischi fatti così", possiamo solo decretare l'inesorabile successo di un'artista capace di farsi notare esclusivamente per la sua musica.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli