sabato 17 marzo 2012

Chairlift: "Something" (Kanine Records, 2012)















Finiranno mai, gli anni Ottanta? Sembra davvero di no. Certo, col revival Nineties alle porte sbilencaggini post-punk e giri di basso alla Joy Division cominciano a odorare un po' di stantio, e la no-wave newyorkese non appare più il non plus ultra della figaggine indie. Ma proprio ora che tutti sembrano pronti a imbracciare chitarre grunge e tastieroni eurodance, qualcuno bussa alla porta con un cestone di lp e fa "Ehi, vi siete dimenticati di questi".

Kate Bush, Eurythmics, Talk Talk, Tears for Fears, Naked Eyes: è il synth-pop più arty e solare a fornire l'ispirazione a questi importunatori del naturale ciclo ventennale della retromania. Quel pugno di band metà anni Ottanta che aveva visto nel campionatore Fairlight lo strumento di redenzione da darkumi e sgangheratezze, l'occasione per riconciliare la propria generazione col sound sgargiante e raffinato dell'era sunshine-pop.

Dunque presentiamoli, questi guastafeste. Sono Caroline Polachek e Patrick Wimberly, in arte Chairlift. Newyorkesi come altri "ripescatori" dello stesso tipo di caleidoscopica vitalità (Vampire Weekend, MGMT), arrivano a “Something” dopo un primo disco più scuro e sonnolento, sicuramente con un impatto differente. La tenera bellezza di “Does You Inspire You” metteva a nudo un approccio scanzonato ma non solare, una composizione brillante ma non straripante. Le canzoni di “Something”, nonostante la fantasia rimanga intatta, esplodono prorompenti, si ergono a perfette pop-song dal ritornello killer, sanno ammaliare in maniera diretta.

Oltre all'enorme talento melodico e di varietà sonora - si alternano magistralmente toni differenti e registri strumentali opposti -, la voce candida di Caroline Polachek rappresenta la fonte del magnetismo della musica dei Chairlift. Versatile e intimamente folk, passa dall’usignolo (l'estatica “Turning”) alla femme fatale (la malia irresistibile delle varie “Take It Out On Me”, “Ghost Tonight” e “I Belong In Your Arms”), dai gorgheggi ai sussurri nell’arco di un solo brano. Ma il vero punto di forza pare essere un altro: una timidezza mai del tutto nascosta, un velo di imbarazzo o immaturità che leva ogni ostentatezza e mette a nudo – in perfetta sintonia con lo spirito indie – una creatura fragile e incerta. Una fata esile e luminosa, che sta in una mano e chiede col suo canto protezione.

I cali di tensione in qualche circostanza smorzano il tono passionale dell'album (la melensa “Cool As Fire”, il folk-pop incerto e fuori contesto di “Frigid Spring”), senza tuttavia inficiare la qualità complessiva che rimane alta e vibrante. Fin dall'essenzialità delle ultime note di “Guilty As Chargee” - tripudio tambureggiante di finissmo pregio - si scorge l'immenso, sregolato e palpitante potenziale di questo duo. Con un pizzico di discrezione in più e qualche autorefenzialità in meno, il disco dell'esplosione a livello di critica e pubblico possono permetterselo senza dubbio.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Marco Sgrignoli

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