domenica 30 ottobre 2005

FOLIE







Stefan Thor e il suo mondo.

Folletto elettronico per glaciali caverne.

Disturbanti deviazioni sonore per attimi di puro dolore.

Genietto istrionico ed appartato.

Geniale produttore, fulminante remixer.

Esplorazione chilometrica, viaggi interplanetari.

Pubblica sotto l'ottima Mitek, propensa a noise-techno da sballo.

Ah, l'etichetta è del fantasmagorico produttore Mikael Stavostrand.

Due i dischi dati alle stampe.



 



Folie: "Mispass" (Mitek, 2002)



Destrutturazioni techno per spigoli glitch.

Minimale inabissarsi in un mondo morboso e profondo.

Deteriorante immergersi nel mare dei rumori digitali.

Appuntite scabrosità di una montagna invalicale e insuperabile.

Vide sottopone i nostri sensi a una prova probante.

Piccolissimi contrappunti sonori inficiano una tastiera dal sentore di normalità. Sciabolate di finissimo rumore paiono squarciare in due il procedere del pezzo come un coltello affilatissimo taglia la carta.

Fasad è ambient trasfigurata da cavernicoli clangori metallici.

Parasit è una delirante miscela di bleeps spaziali, drones rumorosi e schifezze sonore d'ogni sorta.

Stiltje è una modulazione sonora dal pacato percorrere. Millimetrici timbri dettano un tempo strascicato, errori punzecchiano, rigurgiti digitali sporcano.

Boulevard pare essere il lamento di un essere robotico andato in tilt. Programmazione errata, sofferenze informatiche, frustazioni analogiche.

Rippit è Murcof più rumoroso.

Cikada è un ondeggiante svolazzare di un synth ferroso con accanto una drum-machine da quattro soldi. Andirivieni di pulviscoli di polvere interstellare.

Nji è un misto di Bola, Oval e Masakatsu. Ben centrifugati con un tocco di sapienza.

Percorrendo l'epilettico loop di Time, attraverso il bozzettino di fragile natura che è Brovah.

Joimp è genialità elettronica allo stato puro. Principio minimale fino all'eccesso, intromissioni schizzofreniche, rumori concreti, astrazioni e ricomposizioni.

Vov è una techno minimale come pochi sanno fare.



Il successivo non lascia scampo e da conferme a destra e manca.



 



Folie: "Eyepennies" (Mitek, 2005)



Mi sembra ovvio l'appellativo capolavoro.

Un lavoro di tale sapienza ritmica e compositiva raramente viene da sentire alle orecchie.

Una capacità straordinaria di miscelare: glitch, minimal-techno, musica astratta e ambient.

Ellatre è un'ambientazione cosmica per un locale in mezzo allo spazio, tra due stelle pulsanti.

Strum ricama sinousoidali disegni d'attraente bellezza.

Knapig conduce a una crisi nervosa di strabordante perfezione.

Mnogo lascia a bocca aperta quando si capisce d'essere di fronte a ambient-glitch-techno d'altri tempi e tradizioni.

Rocin è la destabilizzazione di strumenti acustici martoriati digitalmente. Capolavoro di concreta musicalità.

Reveji è un industriale catalessi metallica. Stomp leggeri quanto una piuma lasciano spazio a un drone di sferragliante rumorosità.

Oaklips sono gli LFO innamorati del glitch.

Felicia è la sonorizzazione per una notte gitana davanti al mare, con il disco nelle orecchie.

Krogg è Garnier quando usa i glitch, solo un pochettino meno danzereccio.

Viskos è un delizioso quadretto d'immaginifica bellezza con il synth che lascia i tratti preponderanti e i resti disegnano i particolari.

Stain è una voce lontana di una donna sofferente, amplificata, se non spezzatata, allungata, imbastardita. I grooves l'uccidono definitivamente.

Conclude Bundle in un tripudio spaziale d'onirica particolarità.

Sprofondate dentro Folie. Lui vi darà una mano per godere fino alla fine dei tempi.

sabato 29 ottobre 2005





Aoki Takamasa: "Indigo Rose" (Progressive Form, 2002)



Questo uomo è un genio. Il mio amore smodato è suggellato dall'ascolto dei suoi dischi.

Sfrigolio disturbante per orecchie timidi.

Picchiettare di un robotico esserino sulla superficie scabrosa di un oggetto metallico.

Battere onirico di un errore al di fuori dei confini della percezione sonora.

Piccoli fraseggi di una voce lontana effigiano paesaggi desolati come una landa abbandonata.

Suoni oscuri e distanti, sensazioni emarginate e in disparte.

Uno dopo l'altro le composizioni entrano negli angoli più reconditi del nostro essere e gli ammorbano. Infettare con un ossessionante malattia benefica.

Hope ti lascia sorpreso con quell'andamento claudicante in contrasto con un innocente tastiera cosmica a fare da sottofondo.

Dear People ricama complessi pattern ritmici, i glicth sporcano e imbastardiscono, deteriorano, strappano.

Capitale alterna momenti di riposante tranquillità sonica ad attimi di volume vertiginonoso. Un rumore d'assaporare con calma e sincerità.

Loop ripetono il solito scampolo come un nastro visivo che s'inceppa e non puo' che riproporre il solito fotogramma.

Photos In My Window è un mare d'abissale oscurità composto da animaletti veloci e schizzofrenici, saltellanti e maniaci. Biologici scambi di ritmo lasciano spazio a frenetici stomp minimali.

Wooden Piece è una destruttrazione del movimento glitch come non si sente spesso. Scomposizione digitale per attimi freddi e gelidi.

Ulteriori contorni completano un'opera da incorniciare, come tutta la carriera discografica di Aoki. Un'artista fuori dal comune.

venerdì 28 ottobre 2005

Antenne: "#2" (Korm Plastics, 2002)

Un mistico miscelare di sensi.
Onirico connubio di generi differenti.
Centrifugare animi, sensazioni, timbri, gocce di suono, particelle.
In concreto siamo davanti alla fusione del dream-pop stile 4AD con un turbine di pulviscoli elettronici.
Astrazione digitale per testoline innamorate.
Combinazione di soffici umori invernali con ambientazioni post-industrial.
Questo è disco è un miracolo..
Un sognante paesaggio desolato, scabroso, disturbante.
Black Eyed Dog ammalia senza freni. E' una cover di Nick Drake ma nemmeno ce ne accorgiamo.
Un sottile tappeto di glitch compongono i primi due minuti. Una timidissima drum-machine inizia a dettare un tempo alquanto strascicato. Con il passare del tempo si fa avanti una chitarra seguita, poco dopo, da un piano struggente. La voce di Marie-Louise Munck ricama tratti di immaginifica bellezza. La colonna sonora per un tempo ormai passato e lontano. Sentori di malinconia trasudano da queste note.
Not Sad lascia a bocca aperta con quel suo procedere lento e oscuro. Un drone invadente, martellante e spigoloso lascia segni un po' ovunque. Una chitarra suonata con toccante sincerità dipinge attimi di pura felicità. Uno strumento a fiato sputa a forza suoni recalcitanti. Leggerissimi bleeps saltellano ovunque. Ancora, Mary, decanta le proprie frustrazioni con parole sincere e sofferenti.
Annex Aug accentua la preponderanza sperimentale e lascia impietriti tra drones rumostici, tastiere cosmiche e glitch che spuntano in ogni dove. Spiriti di metallica essenza imbastardiscono un pezzo già saturo di senso. Un finto abbozzo di melodia vaneggia una parvenza di normalità.
Qua la voce non c'è, ma non serve. Parlano i suoni.
Pura estasi per le orecchie.
La successiva Across the Way è un capolavoro. Accostamento di un ossessionante sostrato di sporcizie sonore e una chitarra tanto normale. Una percussione lontana impone una certa stabilità ma, ancora, un deteriorante incantesimo sonoro si insinua con ostinata violenza. Mary d'improvviso fa la sua apparizione, gettando in aria le sue piccole, sapienti parole. Microscopico viaggio in una corte di un castello abbandonato e in rovina.
Sulla falsariga del precendente, quasi una naturale continuazione, si attesta Dead Dreams. Ancora uno spirito in crisi d'esistenza c'accompagna dall'inizio alla fine. Fiati rimproverano con una scorbutica sequela di timbri sporchi. Rotolanti fraseggi di synth impreziosiscono il tutto, dando un tocco di oscurità. Ancora frasi, verbi, termini, emanati con graziosa delicatezza.
Clearly Wrong s'introduce con un sottile strato di noise pungente, tagliente. Un approccio minimalista e sotterraneo. Ciclici contrappunti di piano fanno capolino. Percussioni d'ogni sorta si diffondono e s'incuneano nei più piccoli interstizi della canzone. Rintocchi di una chitarra sofferente ornano e arricchiscono. Chiudere gli occhi ed immaginare desolate lande, nebbiosi paesaggi, uggiosi pomeriggi in una terra sconosciuta.
Concludiamo con la fosca ballata aliena a nome Sun Walk.
Tastiere immerse in una mare di spazio compongono un' atmosfera riposante, sognante. Infinitesimali battiti provano a dare una sostanza alla melodia ma non c'è niente da fare. L'instabilità regna sovrana.
Giunti, infine, al termine ci si lascia alle spalle un'esperienza fuori dal comune. Emozioni strabordanti e intense. Da godere attimo per attimo senza lasciare niente al caso.

P.S. Uscirà, tra poche settimane, un EP con remix di Opiate, Freiband, Monotonos, Manual e Dub Tractor.

giovedì 27 ottobre 2005

THE SABRES OF PARADISE



Il maggior complesso di musica sperimentale elettronica mai esistito in UK.

Andrew Weatherall e il suo genio esplodono in un turbine di creatività fuori dai limiti dell'immaginabile.

Lande sonore morbose e nebbiose. Battere ammorbante e alieno. Suono metallico e scorticante. Movimenti scomposti e innaturali. Sciabordio dissonante tra due oggetti rumorosi.

Giungle dove balli sciamanici vengono consumati con delirante spostamento d'aria.

Nato a Windsor, Andrew, s'impone già da subito come un DJ fantasioso e poliedrico. Riesce a mescoalre tendenze trance-techno, dance trasfigurata ed un gusto trip-hop. Il gruppo viene arricchito dalle sapienti mani d'altri due genietti della scena come Jagz Kooner e Gary Burns.

Dopo la pubblicazione dell' EP d'esordio Smokebelch II (anno 1993) esco il miracolo di disco che è Sabresonic. Non c'è scampo.







Sabresonic (1993, Warp)



Una sequela di ritmo.

Miscela turbinante di pattern timbrichi ossessionanti, claudicanti, deterioranti, distruttivi.

Non c'è tregua davanti a un'opera simile.

Still Fighting è una catalessi dance con contorni techno.

Contrappunti tribali lasciano spazio a una cassa precisa e puntuale. Esplosioni di suono implodono su loro stessi lasciando una scia di rumore a seguire.

Smokebelch I è un sotterraneo inno al movimento.

Una base percussiva imbastardita fa da contorno a un ondeggiante synth che sa di catastrofe. Un delay si fa spazio e spacca in due la struttura. Rimbombanti percussioni spostano l'aria e la immobilizzano. Una tastiera dal sapore cosmico par decretare un' (apparente) tregua.

Ciclico battere di un orologio processato da una macchina aliena nella successiva Clock Factory. Orrorofica suite per una notte scura, nera, cattiva, maledetta. Si rimane completamente basiti davanti a questi 14 minuti di pura perfezione. Non c'è un attimo di pausa, se non alla fine.

Rintocco programmato e minuzioso. Sciabordate di synth completamento slabbrato. Complessi intrecci di tastiere in loop. Senza parole.

Anno Electro (Andante) è un altro capolavoro di destrutturazione elettronica. Complicati amplessi di drum-machine, tastiere, puntigliosi contrappunti digitali, aria cosmica, umore spaziale.

Ancestrale composizione per un ballo primitivo e incontrollabile in R.S.D..

Sapori hard-core in Inter-Lergen-Ten-Ko. Qua si punta sul ritmo senza vie di mezzo. Un colpo dopo l'altro sono come un cazzotto in pancia, senza soccorso. Coltellate al costato e dissonanti pugni danno dolore.

Sovente un baffo di synth impreziosisce un (altro) pezzo perfetto.

Con Anno Electro (Allegro) siamo sempre a livelli altissimi, nell'olimpo. Sette minuti abbondanti di scarnificazioni dance e palpitazioni di un cuore malato come non mai.

Finale onirico e molto pacato nella sfrigolante e glitch-osa Smokebelch II.

Capolavoro da ricordare negli anni avvenire. Influenza una miriadi di artisti e/o gruppi e lascia un segno indelebile nella storia della musica tutta.

Il successivo se vogliamo è pure meglio. Forse più coraggioso e pazzoide.







Haunted Dancehall (Warp, 1994)



Colossale monumento.

Abissale mare di innovazione.

Montagna invalicabile e scabrosa.

La coppia ubble and Slide I & II unisce un certo gusto di sperimentazione con un sapore ritmico sempre assillante e appiccicoso.

Suoni provenienti da chissà quali macchine e/o marchingegni.

Una coppia indivisibile che viaggia in un mondo spaziale e infinito. Stelle sovente solcano la strada che porta alla meta. Un lido immaginifico e sconosciuto.

Duke Of Earlsfield è la colonna sonora per un viaggio intorno alla galassia con meteoriti che sbattono contro il nostro involucro celebrale.

Pulsanti bleeps, rumori prolungati, acusticità variegate, rumoroso battere di una cassa deformata fino all'esasperazione.

Entrando con cautela nelle viscere dei due minuti di frustrazione sonora di Flight Path Estate, fino al trip-hop spaziale di Planet-D, attraversando, con precauzioni nulle, quel dondolante esempio di mutant-dance che è Wilmot.

Ululante vociare di una sirena si unisce a un rutilante muoversi di un rullante dalle sembianze poco chiare. Una chitarra (ma sarà davvero lei?) detta un tempo strascicato.

Theme e Theme 4 sono altre due gemmine rilucenti di splendente raggi color oro. Ulteriori trovate elettro-(so)niche impreziosiscono un'opera fuori dal normale.

Return Planet to Planet D è come inoltrarsi in una palude nebbiosa e melmosa. Uno scriocchiolare sotterraneo viene schiacciato d'acquosi suono digitali e synth svolazzanti.

Stomp e schiocchi, folate e sciabordate. Ballad of Nicky McGuire è tutto ciò ed anche di più. Ancora un trip metallico e soffocante. Tripudio di sensi.

Proseguendo con la puntigliosa e scorbutica Jacob Street 7am arriviamo alla danza luciferina della penultima Chapel Street Market 9am.

Concludendo con la disturbante e rumorosa title-track il disco finisce ed è straniante tornare al silenzio dopo un abisso scurissimo.

Per onorare questa coppia di lavori dovremmo costruire una discoteca in una landa isolatissima, mettere un pirata con un coltello conficcato nelle orecchie come insegna e ballare per 10 giorni sotto la luna. Senza tregua.

martedì 25 ottobre 2005

FRIDGE



Suoni freddi, glaciali.

Pulsazioni cardiache attanagliate da una morsa soffocante.

Miscelare un sapore tutto post-rock con un gusto elettronico invidiabile.

Mettere insieme in parti uguali una certa scena indie chitarristico-strumentale e sapienti pulsazioni azzardatamente techno.

Non c'è limite alla fantasia.

Ne esce un connubio che negli anni s'è fuso in suono personale, particolare, significativo, esuberante, straordinario.

I componenti della band sono: Kieran Hebden (chitarrista), Adem Ilhan (bassista) e Sam Jeffers (percussioni).

Chi non lo sa il suddetto Hebden è proprio il folletto folktronico del nuovo millenio a nome Four Tet.

Dopo e durante il completamento degli studi i Nostri iniziano già a registrare qualche scampolo sonoro, senza grossi impegni discografici.

Soltanto dopo quache anno, attraverso un amico in comune, Trevor Jackson, riescono a pubblicare il loro primo singolo sulla Output.

Il suddetto si chiama Lojen realizzato nel 1997 quando ancora i ragazzi sono degli adolescenti.

Incoraggiati dall'uscito del suddetto EP riescono, sempre nello stesso anno, a farne uscire ancora un'altro dal nome Anglepoised.

La coppia di EP dimostra una certa immaturità ma il suono di fondo mostra una fantasia straordinaria nel conglobare un marea di influenze senza risultare calligrafici ne pedanti.

Siamo alla prima prova lunga ed è già un sogno ad entrare nelle nostre orecchie.



 



Ceefax (Output, 1997)



Un certo senso di smarrimento al cospetto di quest'opera prima.

Dieci perline grezze e martoriate. Screziate, sporche, luride.

Dopo il minuto di canonica introduzione (edm) partiamo con Helicopter.

Andirivieni di un tape-loops ondeggianti, sciabordio metallico, pulsare di una chitarra, putridi pulviscoli sonori.

Improvvisazioni per caverne poco illuminate.

Effetti sci-fi, organi farfisa in crisi epilettica, tastiere dondolanti, grooves sotterranei.

Un eclettico immergersi in un mondo fatto di suoni cesellati con attenzione, precisione e inventiva.

Tricity unisce un certo suono Tortosie con drones, glitch e sporcizie varie. Lo stato embrionale di un attitudine sonora che si svilupperà 4 5 anni dopo.

Moore Eh 4-800 sono 11 minuti di completa catarsi sonora. Il ritmo parte da pacato e timidamente cresce d'intensità, fino ad arrivare a picchi di trascinante frenesia e pathos. Contorni timbrici per un ventilato pomeriggio d'autunno.

Intramezzino con uno scorcio di musica jazz in loop. Non a caso il titolo è Jazz-loop.

Traversiamo una landa tintinnante e rumosa negli scorci eterei di Robots In Disguise, lasciamo il cuore davanti al progressivo squagliarsi del ritmo di Oracle.

Capolavoro del disco è edm3. Dub strapazzato, drones alieni, chitarra ciclica, drum-machine metallica ed industriale. Completa (e)stasi per le nostra percizione. Non c'è da chiedere meglio da un esordio.

La finale Wan è (ancora) uno splendido esempio di come sia possibile mescolare a piacere generi all'apparenza incomunicabili, ottenendo un risultato strabiliante in termini di qualità ed inventiva.

Siamo alla genesi del loro genere, fondamentale per comprendere i successivi sviluppi, durante la loro carriera.

Onesto, emozionante, umile, coraggioso.

Il successivo EP, Lign, li catapulta anche nel mondo radiofonico ed è un discreto successo commerciale, rimanendo per qualche settimana in chart, nel 1998.

Il secondo album puo' essere considerato la vetta assoluta della loro produzione.



 



Semaphore (1998, Output)



Viene effettuata una mirabile evoluzione e si sente immediatamente dalle prime note.

Furniture Boy ha un piglio claustrofobico e molto meno sbarazzino rispetto agli episodi precedenti. Un synth scurissimo ricama sinuosi disegni sonori, svariati bleeps tratteggiano piccolissimi segni, un andamento lento, lentissimo ci lascia a terra senza pietà. Strabiliante.

A Slow è un più canonico quadretto indie-rock che non dispiace.

Motobus è un capolavoro dalle fattezze spezzate ed incomplete. Splendente battito meccanico accostato ad un ciclico suonare della chitarra, uno sfrigolante drone imbastardisce senza riguardo alcuno.

Teletexed è molto pacata e distesa. Cosmici esserini sonori veleggiano un cielo vastissimo, uno strumento a corde effigia schizzi dal sapore stellare.

Chroma ritorna sulla terra e propina un pezzo dal sapore più classico ed ancora non lascia che un sapore dolcissimo in bocca.

Claudicante andamento per una notte difficile da passare in solutidine in quel estenuante accostamento di sax-chitarra-drones che è Lo Fat Diet.

Passando per la sferzante Swerve and Spin, attraverso la sorniona e ponderante Curdle, concludendo con i 20 secondi di Lign arriviamo al capolavoro del disco.

Stamper fa la sua comparsa con una drum-machine regolare quanto lo zampillare di una fontanta secolare, la chitarra elargisce accordi puntuali e precisi, un sottofondo sporco e putrido lascia impietriti.

Si conclude con la divertente There is no try e l'onirica Micheal Knight.

Un'esperienza imprescinbile per chi vuol parlare a ragione riguardo una certa scena descritta precedentemente.

Nello stesso anno, visto la carriera prolifica del loro componente più famoso e una certa notorietà in campo indipendente, la Output se ne pensa bene di uscire con un raccolta.



 



Seven's and Twelves (Output, 1998)



Tutti i pezzi rimasti fuori dai dischi, piu diverse versioni alternative compongono un gioellino da carpire, scoprire, consumare nei suoi angoli più nascosti. Bellissimo il package.

Non si fermano nemmeno un anno e nel 1999 esce il terzo disco da studio.



 



EPH (Go! Beat, 1999)



Perfetta continuazione di un suono che sa già di storia.

Strabordante capacità di rinnovarsi.

Purtroppo, questa evoluzione riguarda soltanto alcuni specifici pezzi, mentre il resto disco risulta un po standardizzato.

Ma in questi casi questo processo non puo' che piazzare frammenti di bellezza cristallina.

Ark, Aphelion, sono un acquoso ritmo contagioso, come le più corte, ma non meno incisive, Meum e Tuum.

Esiste una versione alternativa di EPH (uscita su Temporary Residence), chiamata EPH:Reissue (2CD) che è, come si intuisce dal nome, una ristampa con vari remix e roba simile.

Questa la copertina:



 



Passano alcuni anni di pausa ed nel 2001 arriva l'ultimo lavoro, per ora, pubblicato.



 



Happiness (Temporary Residence, 2001)



Siamo nei paraggi di una certa sperimentazione incentrata su un'acusticità deformata ed un improvvisazione talora intrigante.

Gli spasmi chitarristici lasciano il posto a strumenti dei più disparati, senza esclusione.

Per ogni pezzo ci dicano anche cosa suonano. Simpatici, vero?

Melodica and Trombone sono 6 minuti di improvvisazione carina che non stanca e lascia un punto interrogativo dal sapore dolciastro nella nostra testa.

Drum machine and Glokenspiel è un gemma dalla perfezione intrinseca incentrata nel suo battere cosmico, ricoperta da una patina scintillante e lucentissima.

Cut-Piano and Xylofone è straniante con i suoi loops di natura umana. Deterioranti contrappunti che si centrigufano a vicenda, scoppiano, ciclano, si rigenerano a vicenda.

Noise sottile e tagliente nella successiva Tone Guitar and Drum Noise. Un rumore affilato divide in due lo spazio sonoro senza una qualsiasi precauzione. Squarcia silenzi e distrugge la pace. Schifezze d'ogni sorta compongono una traccia alquanto inedita, per il loro repertorio.

Five Four Child Voice è un piccolo flashback stilistico con quel piglio sbarazzino e solare.

Sample and Clicks è un vero pezzo glitch. Un tappeto di errori diverte, una tastiera straziata impreziosisce, svariate intromissioni digitali destabilizzano un pezzo perfetto.

Drum and Bass Sonics and Edits compone una marcetta per un esercito di malati terminali, Harmonics è un interessante congiunzione tra un certo stile acustico e le solite manipolazioni meccaniche.

Pezzo simbolo del disco rimane Long Singing.

Una struttura quasi indie-folk viene completamente ribaltata da un sostrato formato da una drum-machine interstellare, un synth perforante ed una marea di click appena percettibili.

S'arriva alla fine trasportati dalla frustazione sonora della penultima Surface Noise and Electric Piano e dalla centrifuga glitch-indie-rock della conclusiva Five Combs.

Una carriera sorprendente e fuori da ogni catalogazione.

Potete anche partire da un qualsiasi disco e capitereste in un'opera meritevole.

Non lasciatevi scappare questi solchi del nostro mondo chiamato musica. Sarebbe un torto imperdonabile. Buon viaggi verso lidi (s)conosciuti.



(*) Qui il sito ufficiale.

lunedì 24 ottobre 2005





Mori Ogai: "Gan (L'oca selvatica)"



Profonda analisi di un semplice funzionario governativo ed artista di successo.

Patina superficiale utile a nascondere i veri intenti dell'autore che sono quelli di descrivere la quotidianità minacciata dalla dimensione oscura e "notturna" dell'uomo, l'eccessivo rigore morale e la presa di distanza dalla realtà, sempre in procinto di mutarsi in gelido vuoto dei sentimenti.

Non sono ancora alla fine ma gia' ne rimango abbagliato.

Fortemente consigliato.

domenica 23 ottobre 2005

Kazumasa Hashimoto







Appartato musicista giapponese che ricopre le nostre solitarie giornate con composizioni in disparte, isolate, fredde.



 



Yupi (Plop, 2003)



Solare intromissione di dolcezza cotonata.

Sensazioni che ci trasportano in nuovo mondo, trasportati dalla soffice esistenza di Encyclopedic Landscape, straniati dal puntiglioso starnazzare di un suono d'altri tempi di Noaro, traslati a migliaia di chilometri da dove risediamo dalla catastrofe cosmica di Synapse.

Carune è un onirico sprofondare in una giungla fatta d'animali, flora rigogliosa e suoni casuali.



 



Epitaph (Flyrec/Mochi Mochi, 2004)



Minimali fraseggi di un piano scordato, distrutto, lasciato al suo destino.

Uno svolazzare impertinente d'anime sonore schizzofreniche.

Registrazioni per nottate scure, buie, solitarie.

Colonna sonora per una stanza in cui lo spazio è ridotto a una (sola) particella d'ossigeno.

Tratteggi sonori piccoli e perfetti quanto un atomo.

Timbri minuscoli e precisi, emozioni timide e sornione.

Beginning è un piccolo bozzetto di un minuto abbondante in cui un piano è sovrastato da una centrifuga interstellare di variegati suoni digitali.

In Echomoo sembra di sentire la versione glitch dei Rachel's.

Click & cuts sovrapposti a una partitura pianistica di indubbia bellezza.

1' è oscura e bastarda. Cresce esponenzialmente il pathos e raggiunge il culmine in un turbine di vociare umano, stramberie meccaniche ed archi martoriati.

SLD è un capolavoro di fantasia compositiva. Con il suo andamento claudicante, lascia più di un sorriso. Xilofoni, tastiere e intromissioni elettroniche contribuiscono a creare un atmosfera avvolgente.

Pare di sentire la versione jappo di una b-sides dei mùm.

Eama Gene sono sette di minuti di frustrazione sonora. Fiati a bassa fedeltà, drones, percussioni vere, infinitesimali rintocchi si ripetono con ciclicità puntuale.

2' ricalca la struttura di 1' aggiungendo un sax dalla natura sconosciuta.

Pulcinella (!!) è (ancora) un gioellino di out-pop. Il piano è lo strumento dominante con il suo procedere recalcitante. I piccoli tocchi vengono destabilizzati da disturbanti errori che impreziosiscono un pezzo praticamente perfetto.

Tormenti mentali decantati da una voce robotica in 3'.

La title-track è un miscuglio splendente tra l'animo indie-wave alla Piano Magic e un vago sentore di colonna sonora.

4' sono i Matmos in una camera a gas con una pressione insostenibile da sopportare, Ending è un toccante pezzo composto da una chitarra, delle parole e da un contorno dal sapore di tradizione.

Disco intimo, a se stante, sinuoso.



Due opere fuori da ogni definizione esistente.

Basta ascoltare per goderne. Senza parole.

sabato 22 ottobre 2005

Ecco la mia jappo-week:
Aiko Shimada "Blue Marble" (Cool/10)
Ayumi Hamasaki: "A Song For XX" (/10)
Hitomi Yaida: "I-Flancy" (7)
Mai Kuraki: "Fairy Tale" (7)
Yumi Matsutohya: "Wings of Winter" (7)
Miho Komatsu: "Source" (6,5)
Hikaru Utada: "First Love" (7)
Hikaru Utada: "Exodus" (7,5)
Hikaru Utada: "Deep River" (7)
Takako Matsu: "Home Grown" (6)
Tujiko Noriko: "From Tokyo To Niagara" (8)
Hajime Yoshizawa: "Violent Lounge" (7)
Yuki: "Commune" (6)
Mai Kuraki: "If I Believe" (7)
Maaya Sakamoto: "Nikopachi" (9)
Mari Iijima: " Silent Love" (7)
Mihimaru Gt: "Mihimarhythm" (6)
Takeshi Muto: "Nouveau Dossier" (7)
Yoshikazu Iwamoto: "Spirit Of Wind" (7)
Shizukusa Yumiko: "Hana Kagari (Japan Version)" (8)
Aoki Takamasa: "srd. / a short break remix" (8)
Arai Akino: "Furu Platinium" (7)

Ora il resto:

Portable: "Version" (7)
Flim: "Holiday Diary" (/10)
Slowblow: s/t (7)
Kreidler: " Eve Future Recall" (7)
The [Law-Rah] Collective: " Isolation" (8)
O.Lamm: "My Favourite Things" (8)
Alva Noto & Opiate: "Opto Files" (6)
Augur: "The Envy of Winged Things" (7)
Autodigest: "A Compressed History of Everything Ever Recorded, Vol. 2" (4)
Aidan Baker: "Ice Against My Skin" (7)
Blectum from Blechdom: "Fishin' In Front Of People" (7)




Un miscuglio di emozioni scaturiscono da queste, semplici, dolorose pagine.

Mi ritrovo a leggere numerose volte di seguito il solito frangente. Mi perdo in queste righe e non riesco a rientrare nel mondo reale.

Immagini offuscate da una malinconia e un pessimismo ammorbante.

Colori, contrasti, ossessione, violenza, cattiveria.

Ogni racconto, uno dopo l'altro, mi entrano dentro senza pietà.

Una centrifuga di situazioni grottesche, inimmaginabili, soffici, deliranti, sferzanti.

Poesia per occhi limpidi. Parole pure e fredde, reali. Vento doloroso entra nei miei polmoni.

La capacità di evocare emozioni contrastanti, opposte, nel giro di poche righe.

Fermezza nel raccontare vite di persone apparentemente normali.

Samurai, nobili, pittori, ladri, assassini. Senza esclusione di ceto sociale. Ogni angolo dell'animo umano viene analizzato con precisione e sincerità.

Non ci sono ulteriori parole per descrivere una simile raccolta di capolavori.

Chapeau.

giovedì 20 ottobre 2005







Ayumi Hamasaki: "A Song For XX"



Gli occhi a mandorla sorprendono ancora.

Pop per la calma pacifica dei giorni soleggiati.

Canzoni leggere come bollicine di sapone.

Rabbrividisco davanti alla glacialità di un pezzo come la title-track. Gorgheggi di synth, archi campionati raggiungono vette inimmaginabili, voce nasale e celestiale. Un leggero senso di felicità mi lascia un sorriso.

Mi faccio trasportare dal mood frizzante e allegro della j-pop-song perfetta di Hana. Base percussionistica leggera, spumosa. Un cantato appena accennato disegna sinuose circonferenze nell'aria, come una farfalla al suo passaggio.

Friend è un altro piccolo gioiellino risplendente di propria luce. Xilofoni in sottofondo tintinnano, un ritornello azzeccato convince senza ripensamenti. Cori lontani impreziosiscono.

Friend II ha un piglio più movimentato e sembra di sentire i profumi di una battaglia tra samurai, in un prato ricoperto da petali di pesco. Emozionante.

Poker Face ricama ritmi disco-house-pop con fermezza cristallina. Archi sontuosi lasciano spazio, sovente, a una tastiera saltellante. Chitarre, con le loro distorsioni, disturbano oltremodo.

Wishing abbatte le barriere della mediocrità pop. Melanconico andamento per notti tristi. Frasi cantate con il cuore in mano, un giapponese snocciolato con apparente sentimento. Chitarra vagamente folk, acusticità variegate, piano toccante.

Passando per le trame sbarazzine e solo apparentemente scontate di You, arriviamo ad As If con il suo andamento etno-disco-rock.

Powder Snow è un capolavoro di sofferenza. Un organo straziante lascia una nota veleggiare per tutto il procedere. Sudate parole decantano lacrime d'altri tempi. Piano da un senso di swing appartato al pezzo.

Richiami chiaramenti orientali vengono evocati dallo spaccato di brillantina bellezza che è Trust.

Schizzofrenie da discoteche situate in un lago sotto il sole di Signal, amore per le tonalità pacate di For My Dear...

Il disco procede con calma toccante. Non c'è niente fuori posto.

Verrebbe da dire: perfezione pop. Non mi azzarderei mai. La perfezione non esiste. Ma, qua, ci siamo vicini.

mercoledì 19 ottobre 2005





Tujiko Noriko: "From Tokyo To Niagara" (Tomlab, 2003)



Glacialità pop.

Sferzanti ricami meccanici per una forma canzone contaminata.

Delicati arpeggi di una chitarra deformata.

Bleeps per animi terreni.

Voci veleggiano un cielo oscuro.

Timbri d'altri tempi ondeggiano per lo spazio.

Narita Made lascia impietriti davanti allo sciabordare metallico di una percussione finta. Vocina bambinesca per ninna-nanna adatta a un bimbo irrequieto.

Zipper, con i suoi gorgheggi spaziali, sporca i nostri sensi d'una zuccherosa dolcezza. Una centrifuga di errori lasciano spazio, ancora, a una voce perfezionistica. In punta di piedi, lentamente, Tujiko decanta le sue parole cone pacatezza e leggiadria inimitabili.

Rocket Hanabi ha un anelito di malinconia in se. Leggere note di organo trattato compongono il sottofondo, sovrastato da un rullante preciso e puntuale. Lacrime fredde.

Mugen Kyuukou è uno sprofondare piacevole nel mare dei sogni. Leggere onde, a riva, accarezzano i nostri flebili sensi. Le nostre membra risvegliate da un torpore immobilizzante. Battito cardiaco in sottofondo, vocalizzi angelici. Sognante scampolo di cielo.

Kiminotameni è la colonna sonora per viaggi frizzanti e felici, in compagnia di un amico dimenticato. Un sax borbotta claudicante, linee elettroniche sporcano, glitch disegnano i particolari.

Tokyo è un ossessionante suite per un pomeriggio imbastardito dalla sofferenza.

Tokyo Tawor ha un refrain a presa diretta e non lascia scampo. Incalzante ritmo percussionistico, sterzate elettroniche che sanno di rumore, polverosi pulviscoli sonori lasciano un segno impercettibile.

Robot Hero sono 8 minuti di sensazioni contrastanti. Un sentore di nostalgia per la ballata classica lascia spazio a uno capolavoro di out-pop.

Rumori concreti danno un significato umano alle note, piccoli tratteggi timbrici effigiano un suono intrigante.

Carpire l'importanza di questa musica è molto semplice.

Lasciare andare il disco e distendersi su un colle di riposante tranquillità.

Abbandonare la mente. La voce di Tujiko e i suoi strumenti faranno il resto.




Katsushiro Otomo è un perfezionista.

10 anno di gestazione. Centinaia di collaboratori.

Due ore e qualcosina di completa estasi visiva.

Ogni minimo particolare infinitesimale è stato cesellato con precisione certosina.

Le immagini ti abbagliano e ne rimani affascinato.

I colori soffusi, i disegni sinuosi, movimenti dolci e delicati. Catastrofe di sensi.

La storia è molto pomposa e i personaggi non sono tratteggiati un granchè, ma davanti a una veste grafica simile non c'è critica che possa levarsi.

L'immagine che m'ha affascinato maggiormante è questa frazione:



 



Una profondità, una capacità impressionante di far immedesimare lo spettatore nella scena. Mi sembrava di essere insieme ai duei ragazzi in quel gigantesco magazzino.

Alcuni fotogrammi:



 

 

 



 



I visi dei personaggi sono talmente espressivi che sembrano di carne vera. Impressionante.

Le viste di Londra dall'alto sono avvolgenti e fedeli.



La prossima settimana vado a vedermi Akira e sarà ancora uno spettacolo.

sabato 15 ottobre 2005



LUKE VIBERT







Produttore. Compisitore. Pazzoide. Scriteriato miscelatore di suoni.

Immegersi nella sua carriera è una completa avventura.

Ecletticità visionaria immersa in una salsa di fantasia sbarazzina.

Lande sonore infettate da schizzofrenia aliena. Delirante instabilità mentale.

Se ne esce con svariati moniker: Wagon Christ, Plug e via discorrendo.

Inizia la carriera con un tono immaturo e scostante, targato Rising High e Rephlex. Ne risulta (due album e un singolo) un caratteristico piglio cupo ma altrettanto acerbo ed incompleto.

Con il passare degli anni apprende le nozioni basilari per fare un vero album. Diventa amico del deus-ex-machina Aphex Twin, condividendo tra l'altro il paese natale, la Cornovaglia. Ma sopratutto rilascia il secondo album sotto Wagon Christ. (*)




 



Wagon Christ: "Throbbing Pouch" (Rising High, 1994)



Trip-hop in una camera d'aria sparata a migliaia di chilometri nello spazio devastato da un cataclima interplanetario.

Mo'Wax e tutto il catalogo rimane in sordina davanti a questo album.

Easy listening, funky, soul deviato, hip-hop destabilizzato. Non c'è via di scampo al cospetto di quest'opera.

Colonna sonora per una discoteca situata nel baricentro fisico di Marte.

Composizioni per spazi senz'aria. Bozzetti per esseri etereei.

Il Nostro, con quest'album, diventa un pioniere del campionatore. Assoluta padronanza della tecnica di campionamento, straordinaria personalità nello spezzettare, ricucire, assemblare, destrutturare, miscelare.

Giocare con i generi, sbeffeggiare il pubblico, prendersi gioco delle regole.

Svariati tasselli del passato raccolti con pazienza certosina.

Puzzle realizzato mettendo tutti i pezzi al posto sbagliato.

Ovviamente dovete averlo.



Il successivo è la conferma lapidaria del suo genio:




 



Wagon Christ: "Tally Ho!" (Virgin, 1998)



Sbarcato su una major se ne infischia delle regole e sbatte tutti contro il muro.

Techno deviata, genesi d'n'bass, ambient, break-beat.

Ritmi sincopati per un robot creato da menti cervellotiche e instabili.

Sense of humor spiccato e senza freni.

Gospel de-umanizzato in Lovely, divertimento puro in My Organ In Your Face.

Marasma saltellante in Fly Sawt, cataclisma in Shimmering Haze.

Colonna sonora per una notte abbagliata da un meteorite vagante nell'aria. Scintillante luce chimica.

Sfavillante perfezione.

Sotto questo nome pubblica altri due lavori apprezzabili ma non straordinari virando verso un suono meno sperimentale e più danzereccio (da questo punto di vista risulta palese l'influenza dell'onniprensente french-touch).

Per la cronaca: Musipal e il recente Sorry I Make You Lush. Entrambi sotto Ninja Tune.

Passando al moniker Plug cambiamo anche genere compositivo.

Qua siamo nel mondo della jungle che diventa drum'n'bass. Trasliamo nel mondo del SUO genere. Lo stile vibertiano.




 



Plug: "Drum'n'Bass For Papa" (Blue Angel, 1996)



Inchinatevi e proferite preghiere solenni.

Oscura morbosità generata da una caverna scavata in un monte di porcellana nera.

Innovazioni ed invenzioni stilistiche nascono come funghi sotto un castagno.

Fusione innovativa tra i resti della jungle e il drum'n'bass, break-beat fortemente personali, atmosfere cupe commutate electro, giocosità fuorviante.

Balli indigeni su un isola deserta. Stelle a varcare il cielo oscurato. Pianeti luccicanti ornano orizzonti perduti.

Abbagliante magia d'uno stregone vecchio di mille anni, immune alle contaminazioni malefiche.

Capolavoro. Punto.



Il successivo Me & Mr.Sutton mette i puntini sulle i. Aggiunge alcune particolarità infinitesimali alla carriera del Nostro. Risulta, comunque, un opera minore. E' ovvio che le sue opere minori sono sempre dischi mostruosi.



Passando, finalmente, ad album sotto il suo nome segnalo in particolare questo:




 



Luke Vibert: "Big Soup" (Mo' Wax,1997)



Come poteva Costui non pubblicare un disco per la Mo'Wax?

Flemmatico andamento d'una nave viaggiante in una mare di lava fredda, aria gelida, particelle sonore di fuoco, vento devastante.

Immergere il corpo trip-hop in una soluzione composta da cremosa salsa elettronica, pizzicante pepe sampleristico, gustoso sugo di sangue pazzoide.

Paesaggi soleggiati, atmosfere luccicanti, disturbanti anime veleggiano il cielo.

Voyage into the Unknown lascia a bocca aperta con il suo piglio degenerante, M.A.R.S. distrugge orecchie mente e tutto il resto, 2001 Beats è la composizione adatta a ballerini da manicomio.

ABBIATELO.



Colpevolmente tralascio un sacco di side-project, collaborazioni ed vari/eventuali. D'altronde Vibert risulta uno degli artisti elettronici più prolifici mai esistiti e riuscire a dare un tratto della sua carriera in maniera fedele è da pazzi. Ho voluto soltanto evidenziare i particolari e i dischi più importanti.

Ascoltate, godete, gioite, ballate.

Grazie Luke.











(*) tralascio il primo a questo nome essendo abbastanza trascurabile.

lunedì 10 ottobre 2005

FLIM



La Tomlab e i suoi gioiellini nascosti.

C'è (purtroppo) pochissimo da dire su questa band. Si sa poco e niente.

Parlano le opere.







Flim: "Given You Nothing" (Tomlab, 2002)



Esordio spiazzante.

Un ibrido intrigante tra dei Rachel's virati glitch e dei Matmos meno cervellotici.

Il risultato è una manciata di canzoni dal sapore di tradizione e d'innovazione allo stesso tempo.

A partire dalla partitura pianistica ammorbata da un drone ossessionante di Hell arrivando fino alla suite per glitch, organo e acusticità di ogni sorta di Linker2.

April satura i sensi uditivi con un marasma di suoni analogici.

My Czesko Guitar lascia a bocca aperta per il suo piglio sbarazzino e scanzonato. Pare di sentire una gruppo di bambini un pò psichedelici giocare in prato su un pianeta alienante.

Non lascia scampo alle definizioni. Sarebbe estremamente limitativo e sbagliato incanalare l'opera in un particolare filone.

Siamo noi a doverlo scoprire e rimanerne ammaliati.







Flim: "Helio" (Tomlab, 2003)



Ambient-pop per una cameretta giocosa.

Colonna sonora per una giornata solare e zuccherosa.

Bozzetti dalla fragilità granitica.

Un bel frappè in cui mettiamo dentro in parti uguali: Fridge, mùm, Piano Magic, Bola, The Blood Group. Scuotere per bene il tutto ed otterrete il cocktail delle vostre giornate autunnali.

Una sequela di minimali quadretti dalla bellezza cristallina. Spumeggiante fantasia compositiva, luccicante saltellare del ritmo.

How I Trashed My Knees ammalia con il suo loop di fisarmonica, disparati errori screziano un andatura già di per se claudicante, un synth dalle sembianze aliene lacera e ricuce. Un piano, in sottofondo, propina note casuali, aleotorie, completamente avulse.

Ossessionante rimbalzare di note. Timbri a mezz'aria. Percussione finta. Linee tastieristiche minimali. Atmosfera oscura e scabrosa. Tutto ciò è Little Rodachè.

Altra gemma scintillante in Conversation, basata su una reiterazione malata ed alcuni fraseggi di synth-etici.

Chime è un capolavoro. Evoluzione sonora fuori da ogni limite di definizione. Dalla calma sorniona a ritmi marcianti. Organo, glitch, percussioni, noise. Una centrifuga di contrappunti. Catastrofe spaziale.

Piccola suite in Is That Me?. Uno xilofono ricama sinuosoidali disegni dai colori tenui, uno strumento a corda orna con calma pachidermica.

Passare da un maliconico drone di armonica in New Living all'indie-glitch-pop mùm-style della title-track.

Trascorrere minuti preziosi ed emozionanti con la tenera Snow Behind, lasciarsi andare dalla movimentata For Fred.

Album per esserini timidi ed innamorati.



Amate Flim. Ve ne prego.






Finito da poco questo libro, mi lascia un sentore di mistero.

Incentrato sulla figura di un misterioso ragazzino appassionato di scacchi quasi per caso, la storia

si dipana con fluidità allarmante. L'iter della sua carriera di adolescente/scacchista viene tratteggiata

con tocchi di infinitesimale perfezione. I flashback sono perfettamente calibrati e danno un senso di movimento all'opera.

Un omicidio governato da una semplice partita. Un campo di concentramento in cui le morti sono decise dalle pedine.

Un uomo logorato dal gioco finisce per impazzire.

Coacervo di emozioni trasuda tutto ciò.

Consigliato agli amanti del gioco e a chi ama un libro dalla natura nostalgica.

La mia nuova recensione sul disco di Yuichiro Fujimoto intitolato Kinoe.







Piccoli suoni per istanti preziosi. Minuscole particelle timbriche adatte a giornate sporcate da nuvole grigie.


Questa l’essenza del disco. Spumosi pulviscoli di polvere screziano una manciata di canzoni.


Yuichiro Fujimoto fin dalla prima adolescenza è rimasto affascinato ed attratto dalle arti visive/sonore. Studia musica nel suo complesso ma non apprende mai le nozioni per suonare uno strumento specifico. Nei momenti liberi s’ingegna per catturare e congelare istanti sonori, scampoli di freschezza, aneliti di scintillante perfezione.


Cresciuto sotto l’ala dell’artista-tutto-fare norvegese Kim Hiorthøy, compone piccoli bozzetti nei suoi primi anni d’attività, che vengono racchiusi in quel gioiellino del nuovo millennio che è Komorebi. Straordinaria capacità di cesellare spaccati di pop deviato. Estrema fantasia e capacità di uscire dagli stilemi del genere. Esordio luccicante. L’etichetta che licenzia il disco è la coraggiosa Smalltown Supersound, straordinaria realtà della musica altra d’oggi giorno.


A distanza di un anno esce Kinoe su Audio Dregs.


Bolle d’aria stratificata veleggiano un cielo statico, praline di zuccherosa dolcezza spumeggiano nello spazio, trasparenti linee circolari raffigurano disegni d’infantile ingenuità.


Kinoe ha le sembianze di una stanza vuota. Rumori di sottofondo riescono a spezzare un ammorbante silenzio d’intensità fuori dal comune. Una stanza sola. Solitaria. Rannicchiarsi nell’angolo più scabroso ed iniziare a vaneggiare un paesaggio immacolato. Orizzonti di timida felicità. Spazi infiniti di celestiale bellezza. Colori, sfumature, particolari, aneliti, luce, buio, genesi.


Dopo i 20 secondi di rumorosa intimità di In the Groove il tragitto inizia con Drawing of Stars. Titolo fu mai più adatto. Scintillante xilofono con cadenza regolare si presenta e con tocchi di delicatezza angelica disegna le stelle. Sparse in cielo. Disordinate e sfavillanti. Minimali fraseggi di organo trattato con un segno marcato effigiano un cielo scuro ed orrendo. Sporadici accordi di chitarra completano l’opera rendendola perfetta e perfettibile allo stesso tempo. Sul finire il rumore più puro satura lo spazio sonoro e non si percepisce altro che il sentore di una catastrofe interstellare. 6 minuti in cui la pace regna con fermezza assoluta.


La successiva After Rain lascia senza parole. Ancora uno xilofono (e cosa sennò?) disegna ricami ritmici di visionarietà terrena. Note si incontrano, sbattono, ricircolano, fluiscono, combattono. Con lo scorrere dei secondi la base s’imbastardisce con rigurgiti digitali. Intorno al baricentro del pezzo c’inonda una centrifuga di bleeps. Casuali animaletti timbrici zampettano ovunque nella nostra mente. Saltellanti esseri rimbalzano per le pareti immaginarie come una pallina di un flipper proveniente da Marte. Tutto ciò dura soltanto 4 minuti ma vorremmo che non finisse mai.


L’introduzione di Morning Dance lascia presagire un pezzo un pochetto più movimentato. Percussioni in sottofondo a mò d’accompagnamento e una fisarmonica in primo piano impegnata a ricamare una sinuosa linea sonora.


Intorno al minuto uno schiocco di lacerante intensità interrompe tutto. Entriamo in un tunnel buio e infinito. Aria asfissiante e spazio compresso. Ora, la fisarmonica, è lenta, scorbutica e stanca. Un sottofondo di noise elettronici attraversano la nostra mente come un coltello affilato taglia un pezzo di burro. Sporadiche acusticità variegate imprezioscono. Una suite per viaggi bui in una città situata in un isola deserta dove il sole è oscurato.


Intermezzo di registrazioni ambientali provenienti da un negozio di animali in Cook Doodle Doo Is Music. Sentiamo scimmie, uccelli e tutto ciò che la vostra fantasia faunistica possa immaginare. Immacolati fraseggi di chitarra ri-compaiono puntualmente.


Bozzetto ultra-lo-fi per solo xilofono in Kid Play. Mom Nap. Altra gemma appartata e deliziosa.


Si sente una penna marchiare a fuoco i propri segni su un foglio nella successiva Without Mabataki. Con il lento trascorrere dei secondi un’anima sonora si intromette ed inizia ad infettare i piccoli rumori concreti. Completa (e)stasi. Fa capolino quasi d’incanto un pattern elettro-(so)nico. Chitarre processate e spolpate iniziano a saturare la struttura. Polvere analogica proveniente dal terreno di un pianeta fuori da ogni sistema solare. Il nostro scrittore continua imperterrito a sporcare il suo piano di lavoro. Termina la propria opera in un complesso intrecciarsi di pattern ritmici. Ornamenti sonori per pittori spaziali.


Malinconica e straziante suite pianistica per esseri malati in Listen to Grandpa’s Youth.


Note minimali e sornione faticano a prendere il largo con sicurezza. Un cuore d’altre epoche sanguina ininterrotto davanti a questi 4 minuti. Menti romantiche sogneranno un futuro migliore all’udire tanta pienezza. Rumori d’acqua purissima screziano il procedere, sul finire. Colonna sonora per una notte d’amare ed odiare contemporaneamente. Tormentandosi davanti ai propri errori e debolezze.


In punta di piedi e sorniona inizia la successiva Harmony. Svariati minuti di melodie spartane e povere. Uno strumento a corde utilizzato per decantare le parole dell’anima. Semplice, preciso, senza pretese. Al minuto due è catastrofe. Gli stessi suoni ingenui e sinceri di prima vengono depredati da una macchina. Riprocessare un suono tanto puro per renderlo macabro e scabroso. Sporadici scrosci di noise spumoso avvelenano. Un organo proveniente dallo spazio interstellare sale di tono e sovrasta ogni altro suono portando al completo rumore. Cristallino, pungente, invadente. Reiterazione prolungata che sa di perfezione.


I sensi si riposano in un dolce cullare di xilofono da ninna e percussione essenziale nel minuto abbondante di Sunday Music Club. Un suono scarno pieno di senso. Il paradosso sta tutto qua.


Capolavoro di cristalline fattezze, poco dopo. An Octave of Shells è l’immersione in un mare profondo e oscuro. Sfrigolante luccicare di un synth analogico, scoordinate note di piano alieno tratteggiano un fondale infinito, movimentati rumori aumentano una pressione già a livelli insostenibili. Gelo, solitudine, orizzonti, sensazioni.


Spaccato di originalità compositiva, ancora palesata, nella penultima Forest’s name. Composizione completamente basata ancora su quella fisarmonica tanto odiata e maltrattata in precedenza. Qua il suono esce sano e puro. Ancora il tanto amato xilofono torna a fare la sua parte ed, insieme a campanellini di vario genere, orna ed impreziosisce. Nessun trattamento estraneo. Limpido luccicare e incontaminato vociare di strumenti classici.


Conclusione affidata a quei due minuti scarsi di Old Bird Tape. Lasciarsi andare al flemmatico andamento di una chitarra a bassa fedeltà, ammirare lo strarnazzare scomposto di un’armonica fuori posto e fuori luogo. Ma proprio per questo ammirevole.


Terminando il racconto si puo’ parlare di un disco sognante ed intoccabile. Una gemma dalla perfezione chimica. Un quadro dai colori e tratti immaginifici. Una donna dal corpo scultoreo. Un’opera da scoprire, amare e consumare.

venerdì 7 ottobre 2005

Immagini sgranate davanti ai miei occhi durante il tragitto che m'accompagna.
Grumi d' aria pesante ammorbano i miei sensi.
Luce soffusa e pacata inonda la mia percezione.
Un'altra settimana volge al termine e la mia vita sembra appena iniziata (finita?).
Rimorsi, rancori, aspettative, ossessioni, pensieri.
Un nube tossica ricopre completamente la mia mente.
Un'asfissiante sentore di paura infetta il mio spirito gaio e spiritoso.
Mi sento vuoto, stanco, deluso, spossato.
Bolle di ghiaccio finissimo s'aggirano per lo spazio disorientando la mia vista.
Sfavillanti evoluzioni di un mare di fuoco rappresentano la mia testa in fiamme.
Fragili steli di una pianta malata ed anziana effigiano il mio corpo.
Rigenerarsi con la sola forza della sopravvivenza mentale.
Come un fiore che ristabilisce la sua struttura con le proprie forze.
Come fa un animale ferito leccandosi le ferite.
Solo.

giovedì 6 ottobre 2005






Mattinata buia dal freddo pungente ossida le mie membra.


Mi sveglio consapevole di aver visto un capolavoro assoluto.


Ier sera, quasi inconsapevolmente, mi ritrovo al cinema a vedere un film del maestro Akira "tenno" Kurosawa.


Il suddetto si intitola Rashomon ed e' tratto da un racconto del grandissimo scrittore Ryunosuke Akutagawa*.


Racconti per menti fatte di carta pesta ed ossa fragili come fuscelli bagnati da lacrime malinconiche.


Le ossessioni dell'uomo sono messe a nudo come un uomo puo' strapparsi la pelle di dosso e mostrare le sue interiora.


Meschinità, cattiveria, falsità, furbizia, ingenuità.


Lasciarsi inondare dalle immagini sgranate e semplici. Riflessi di luce come migliaia di particelle solari provenienti da un altro sole in un altro sistema cosmico.


Confronto tra uomini differenti, ideali contrastanti, sentimenti e reazioni differenti.


Ogni singola storia e' un mondo a se'. Rispecchia la personalità di ogni singolo, imperscrutabile, vicolo dell'animo umano.


Favolose le riprese in reverse sparse un po' per tutto il film. Straordinaria la sapienza con cui il regista riesce a cesellare una storia dalla filigrana spessa e fine allo stesso tempo.


Risate isteriche, pianti d'ipocrisia, parole dal mondo della pre-morte (Chuu), urla, disperazione.


Trasporre un racconto tanto immaginifico ed astratto era quasi impossibile. Ma Lui, come detto poc'anzi, e' il Maestro.


Applauso finale, di dovere.


Grazie.


* Ad essere precisi si tratta di una fusione tra il racconto Rashomon e il racconto Nel Bosco.


 

martedì 4 ottobre 2005





Corrompente oscurità ruba la scena a un giorno scorbutico e incerto.

Lascio vagare la mia mente al ritorno dal dovere.

Le note di Ham sono in me. I tali The Chap provengono da Londra. Suoni che tanto inglesi non sono.

Una sorta di indie-rock schizzofrenico con interventi d'elettronica spumosa e croonerismi quasi barocchi.

Fondere un'estetica scanzonata con una qualità di composizione di tutto rispetto.

Par di vedere la pazzia degli El Guapo con un Glen Johnsonn dei giorni migliori.

Sequela impressionante di bozzetti dal sapore dolcissimo.

Auto Where To impreziosisce lo spazio circostante con rumori elettro-(so)nici e un sostrato ossessionante.

The Premier at last sciorina un pezzo dalla malcelata malinconia e non se ne esce. Spumeggianti glitch fanno da contraltare alla voce sinuosa e calda.

L'iniziale Baby I'm Hurt N alterna momenti di puro rock ad intramezzi di dance trasfigurata. Un calderone pieno di pietenze, tra le più disparate.

Fantasia, pazzia, sapienza, consapevolezza, umiltà.

Canzoni per serate buie e sole. Quando l'aria si fa pesante e non riusciamo ad essere sereni. La notte si appresta e noi la schiviamo. Ignorandola.




Un di' uggioso solca l'inizio del giorno.

Scurissime nuvole avvelenano il cielo.

Finissima pioggia bagna ed ossessiona lo spazio.

Pensieri nomadi trascorrono il loro tempo nella mia mente.

Ricordi d'altri stati d'animo riafforano puntualmente.

Mi consolo con la musica. Mia linfa rigeneratrice.

Appena sceso dal treno rimango abbagliato dalla bellezza

della mia ultima scoperta.

La tale si chiama sanso-xtro, polistrumentista australiana. Il disco e' intitolato Sentimentalist.

Il sentimentalismo ammorbato. L'amore deformato. Canzoni d'amore di nuova era. Offuscare pensieri.

Scintillante scricchiolare, infinitesimali pulviscoli spaziali, deliranti arpeggi di chitarra.

Sentore di speranza si prolifera all'ascolto. Un aura di timida felicita' s'insinua e rimango sorpreso.

Fondere un'estetica onirica con un'elettronica scorbutica. Innata dolcezza e strabordante timidezza.

Nascono paesaggi da queste note. Scoscese valli e colori luccicanti. Acqua, vento, luce, foglie, vita, suoni.

Alla produzione un mostro della minimal come Andreas Tillander.

Consigliato ad anime pensanti ed esseri alieni ed alienanti.

Un cuore affranto ne rimarra' riscaldato e risanato, almeno in superfice.

lunedì 3 ottobre 2005

Mattina buia. Scura. Orrenda. Malinconica. Maledetta.
Notte tormentata. Malata. Ossessionante. Crudele.
Mi sento svuotato e triste. Un essere senza piu' una meta. Smarrire la strada maestra.
La mia meta' complementare se n'e' andata. Non so se tornera' piu'.
Mi sento come la pedina di una partita di scacchi giocata senza vedere le mosse dell'avversario.
Come uno scrittore che vuole scrivere un libro con una penna senza inchiostro.
Come un pittore che vuole raffigurare la sua tristezza soltanto con le mani nude.
Un cielo azzuro che vuole fingersi allegro ma e' ammorbato da nuvole tenebrose e cattive.
Provare a ricominciare e' straziante. E' lontana. Sono sperso. Lasciato al destino.
Dimenticare la miriade di ricordi. Scampoli di felicita'. Aneliti di perfezione.
Piango come un bimbo ricordando. Mi uccido pensando a un futuro senza di LEI.
Inizio il primo giorno. Una lunga serie che costituira' un piccolo grande calvario.
Ti amo ancora piccola mia. Lo faro' per sempre.

sabato 1 ottobre 2005





Piano Magic. Saint Marie.

Deflagranti ed eterei come l'aria gli accordi di chitarra veleggiano mari sconosciuti.

Voci d'altro pianeta recitano sofferenza e pessimismo. Straziante stato mentale. Frasi flemmatiche scorticano la parete emotiva del suono.

Un riff tanto delicato quanto emozionale introduce come un altra canzone. Incalzante e perfettamente incastonato con la gemma iniziale.

Battito alieno s'introduce. Una percussione finta entra e non ne esce più. Come un mare diventa leggermente movimentato. Come un atmosfera plumbea diventa agitata.

Reiterazioni saturano la mia mente e non posso fare che goderne. Un essere sonoro in sottofondo rappresenta un uomo malato che si lamenta davanti al suo altare di sofferenza.

Dieci volte sofferente. Mai più guarito.

Coacervo di emozioni dentro di me. Impossibile restarne indifferenti.




Arriva la sera e il cielo si oscura profondamente.

Anime fredde inondano la mia stanza e non riesco a scacciarle. Il sereno non vuole saperne di tornare.

La musica mi consola. Note timide saturano il mio spazio percettivo e mi sento solo. Anime timbriche affogano in una mare di alcol la mia mente.

Ancheggianti esseri veleggiano lo spazio del mio angolo di mondo, sinuose ninfe celestiali ballano e decantano rabbia, paura, cattiveria.

Interventi de-umanizzati destabilizzano l'apparente stabilità e ci trasportano altrove. Intromissioni meccaniche sanno creare atmosfere ombrose e ossessionanti.

Voci creano fantasmi di lacerante bellezza. Aneliti di terrore oscurano ancor di più la notte. Luci in lontananza rappresentano la speranza.

I minuti scorrono velocemente e non so fermarmi. Le canzoni scorrono come acqua limpida sgorga dalla sorgente più pura.

Paesaggi immaginifici abbagliano la vista, vento tagliente lascia il segno, scampoli di vita tornano in me.

Arrivo alla fine e il viaggio termina. Un leggero retrogusto amarognolo rimane in me.

Ah, sto parlando di Screamadelica. Il disco dei Primal Scream.





Inizia la giornata e la mia mente vaga.

Pensieri poliedrici invadono la mia mente.

Mi faccio accarezzare le orecchie da note dolci e sbarazzine.

The Boy Least Likely To :"Best Party Ever" è veramente un disco mattutino.

Pop, nella accezzione più pura del termine.

Timbri sbarazzini, aneliti di allegria, scampoli di sole, sorrisi, amore.

Tastiere trattate in completa crisi nevrotica vengono sovrastate da chitarre zuccherose.

Mi fanno ricordare giornate di sole con la mia amata in un prato verde. Il suo sorriso e basta.

Non serviva altro per essere la persona più felice del mondo.