lunedì 24 maggio 2010

Ikonika: "Contact, Love, Want, Have" (Hyperdub Records, 2010)



L'insolazione dubstep di questi anni ha prodotto innumerevoli variazioni decisamente interessanti. La londinese Sara Abdel-Hamid (nata da padre egiziano e madre filippina) propone una sapiente miscela di bassi gommosi, incastri techno e fantasia compositiva da veterana.

Nonostante una durata consistente i suoni scorrevoli deliziano con consistenza senza ripetere un solo pattern ritmico durante le quattordici tracce. Non c'è stasi fra inondazioni emotive (la melodia incantata di “Video Delays”, il synth giocoso in “Idiot” e “R.e.s.o.l”), anthem muscolari e decisi (la foschia agghiacciante di “Fish”, battere incessante per “Psoriasis”) ed episodi con peculiarità più electro (le tastiere distensive in “They Are All Losing The War”). Con l'aggiunta di convulsioni contorte al limite della sperimentazione (i frangenti arditi di “Millie”) il tutto sale di quota ed è davvero un bel sentire sotto tutti i fronti.

Non siamo in presenza di niente di veramente nuovo, non un'esposizione di capacità pioneristiche, ma una semplice collezione di partiture elettroniche composte con vera passione viscerale. Una simbiosi profonda lega l'artista e la sua musica, amore che riesce a trasmettere agli ascoltatori con un approccio diretto e loquace.

Questo “Contact, Love, Want, Have” è dimostrazione di grande maturità per una musicista che non si ferma alla superficie ma sorprende per impegno, approfondimento ed un encomiabile lavoro di ricerca sotto ogni punto di vista.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 18 maggio 2010

Mark Van Hoen: "Where Is The Truth" (City Centre Offices, 2010)



Pioniere di una musica a metà fra sperimentazione e suggestione, Mark Van Hoen è il classico musicista di culto capace di percorrere un'intera carriera lontano dai riflettori. Con alle spalle quasi venti anni di escursioni sonore (esordio nel lontano 1993), ha approfondito i vari suoni in voga con personalità e tocco da vero intenditore. Divagazioni techno assieme a Daren Seymour dei Seefel (Autocreation), acidità trip-hop dal sapore notturno (Scala, sempre con Seymour) e canzoni elettroniche soffuse con gusto amarognolo (Locust). A suo nome ha rilasciato tre splendidi album (il migliore è “Playing With Time”) marchiati da un afflato ambient che ricorda i fasti della 4AD per uno stile in bilico fra abbandono spaziale e sensibilità “pop”.

Dopo la pubblicazione dell'ultimo lavoro “The Warmth Inside You” nel 2004, la sua attività si è arenata, a esclusione di alcuni interventi in sede di produzione (“Ludwig” dei Velma e “Spoon & Rafter” dei Mojave 3 fra gli altri). Sei anni di silenzio sono serviti per mettere in cantiere nuovi stimoli e riproporre un modo di comporre sobrio, quasi obsoleto, autentico. Strutture melodiche intricate ma sviluppate senza confondere, ricchezza strumentale, uso della voce cristallino, echi e riflessi di stagioni in cui la fusione fra trip-hop e dream-pop era all'ordine del giorno. Un'atmosfera di puro incanto racchiude ogni singola canzone, la capacità di emozionare e sorprendere in egual misura è prerogativa sia dei frangenti strumentali che di quelli cantati.

Sintetizzatori vintage, nastri, registrazioni radio, percussioni e la voce di Hoen sono perfettamente in sintonia con le scintille della chitarra elettrica di Neil Halstead (Slowdive, Mojave 3) e i fraseggi del piano di Julia Frodahl. Una magica congiuntura di coesione ed empatia permette di fondere tutti questi elementi in una resa finale corposa, retrò, dai ricami finissimi e mai dispersiva.
È difficile dare una precisa collocazione a un album che mette in fila un ambient pastorale a metà fra Boards Of Canada e Kreidler (l'iniziale “Put My Trust In You”), trip-hop psichedelico e malsano (l'ombrosa title track) e la violenza elettrica di un industrial-pop senza pause (il beat marcio di “Your Voice”). Non c'è limite alle tonalità poste in essere sullo spartito ed è formidabile vedersi sedurre da una musica che è sfuggente e inafferrabile.

Una voce femminile e pochi rumori sinistri per episodi di magia inquieta (il dream-pop diluito “Photophone Call”, la ruggine nell'estasi oppiacea di “She's Selda” e “I Need Silence”) fanno da contraltare agli strumentali ariosi, ritmicamente incessanti, ben sviluppati e variegati (ossessione percussiva in “Render The Voice”, distensione kraut per “Beatiful”, esplosione di bit acquatici nella finale “Soyuz A”). Un tripudio di intensità e semplice ispirazione per tre quarti d'ora di indefinibile quanto unica immersione sonora.

L'uscita di “Where Is The Truth”, oltre a confermare la statura artistica di Hoen, deve essere un viatico per approfondire tutto l'ambiente che, intorno alla metà degli 90, ruotava attorno a figure come Mark Van Hoen, Mark Clifford e Sarah Peacock. Uomini e donne che di nascosto hanno trasfigurato musiche, tendenze e sensazioni con risultati da rivalutare assolutamente.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 10 maggio 2010

Alva Noto, 24/04/2010 @ Fosfeni, Cascina (PI)



Puntualmente come ogni anno, torniamo a commentare una data del festival di musica elettronica Fosfeni. Con un cartellone fortemente indirizzato verso glorie passate di grande rilievo (Cluster, Alvin Curran), la presenza di Alva Noto focalizza l'attenzione verso l'innovazione a cavallo fra musica, scienza e arti visive. Fra i più stimati compositori e musicisti in questo ambito, non si contano più le collaborazioni illustri a cui ha partecipato, come del resto sono innumerevoli i suoi meriti.

In una sala inaspettatamente gremita, il concerto sorprende per un impatto diretto, asciutto e molto fruibile. La durata contenuta dei pezzi eseguiti (estratti da “Unitxt”) contribuisce in maniera decisiva, peraltro coadiuvata da una presentazione impeccabile. In un contesto simile le immagini sono fondamentali perché aiutano a raggiungere un'immersione totale, la quale è necessaria per il completo godimento dello spettacolo. Tuttavia, spesso ciò che viene proiettato è completamente scollegato con i suoni e frutto di un narcisismo visivo fine a sé stesso. L'artista tedesco, da performer certosino qual'è, non cade in questo tranello e azzecca ogni incastro audio/visivo con precisione da professionista navigato. Un software appositamente creato manda in orbita dei visual ispirati da un'estetica vagamente futuristica, i pixel dal sapore cibernetico ipnotizzano l'ascoltatore e circondano i sensi in maniera avvolgente.

La musica non concede un millimetro di melodia senza esagerare in rumorismi, trovando un equilibro ammirabile ed estatico. Techno astratta la sua, contorniata da un mare di pulviscoli glitch glaciali, adagiata sopra un letto di ritmi e convulsioni malsane. Mai un tono fuori posto, né eccessi da registrare: siamo al cospetto di uno spettacolo a metà fra arte e scienza. Ed è proprio la componente scientifica che determina questa immacolata precisione esecutiva. Come per il ritorno dei Pan Sonic sul finire del 2009, Alva Noto conferma la sua statura e non da adito a critiche scolpendo suoni con naturalità genetica, dimostrando simbiosi con il pubblico e mettendo in piedi uno show senza pari.

L'unico appunto da sottolineare è la durata, nonostante non sia un concerto rock, un'ora scarsa (compreso un fugace ritorno sul palco dopo la conclusione) è davvero una miseria alla luce della qualità mostrata. Oltre a questo, un approccio distaccato con il pubblico non condiziona il giudizio finale, d'altronde siamo pur sempre al cospetto di un “professore” che nella sua attività si può permettere qualche peccato veniale senza deludere.