martedì 8 novembre 2011

Vladislav Delay



Sasu Ripatti viene dal nord, da una città di centrotrentamila abitanti, Oulu. Siamo nella Finlandia Settetrionale, cinquecento chilometri dalla capitale, a pochi passi dal Golfo di Botnia. Fa freddo, molto. Gli inverni sono lunghi e rigidi, le estati secche e tiepide. Sasu nasce nel 1976, Jean Micheal Jarre pubblica "Oxygene" e in un certo senso tutto parte anche da qui. Cosa rende questo biondo finlandese, trapiantato a Berlino per sette anni e ora in una tranquilla casetta a Hailuoto, così speciale nella multitudine di artisti elettronici degli ultimi quindici anni? Cosa rappresentano ora nomi - i suoi moniker - come Vladislav Delay, Luomo o Sistol nella musica elettronica? Cosa fa di Sasu una icona così sfuggevole e così "totale" per capire cosa sia la musica negli Anni Zero? La risposta, banalmente, è presto detta. Nei suoi alias, l'uomo venuto dal nord declina tutto ciò che si può declinare. Plasma suoni ora alieni, ora terribilmente terrestri. Minimo comun denominatore? L'agilità, il sapersi muovere con terrificante abilità nelle pieghe del suono. Il saperlo plasmare, rivoltare, adattare ad uno stato d'animo, ad un moto perpetuo. Uno dei protagonisti degli Anni Zero ci parla e vive con noi.

Forma e sostanza - Vladislav Delay

Vladislav Delay è probabilmente l'alias più celebre di Sasu, certamente il più prolifico. Con nove album all'attivo, Delay esplora a tutto tondo un universo musicale fatto di ambient dimesso, elettronica nebbiosa, dub scostante e field recording.  Ma andiamo per ordine. Anno 1999, il debutto: Ele. Lavoro ancora piuttosto acerbo, ma che ben fa capire la pasta sonora dalla quale si muove Delay. Tre pezzi per un'ora secca di fluttuazioni a mezz'aria, impalpabil, dub lievi e scoordinatissimi. "Pisa" si muove scostante nel suo incedere quasi frenetico, "Khode" parte con un respiro ambientale e stende il suo velo dub a macchina, mentre la title-track è forse l'episodio più debole del trittico, viaggiando in uno stato gassoso un po' incocludente. Da qui però sarà una ascesa continua.

Trascorre meno di un anno ed il salto - grosso - è già fatto. Il balzo prende il nome di Mutila, l'attracco è Maurizio e la sua Chain Reaction. Sette traccie, quasi un'ora e venti di ambient-dub. Delay firma in volata uno dei suoi capolavori, forse la vera vetta in assoluto della sua carriera. Si parte con "Ranta", uno scuro quadretto di ambient nel quale scorrono vene di sangue grigio. Nel ribollire sinistro della prima traccia si scorgono le linee più cupe di un Fluxion sedato o dei Monolake più cervellotici.

Il fluire dub di "Raamat", in moti non distanti da Pan American, l'ambient brioso di "Viite" stordirebbero qualsiasi mente: andirvieni e bollori, effervescenze acquatiche e impalpabilità cronica. E' però nel mantra di "Houne" che Delay definisce il suo credo, la sua estetica: ventidue minuti che partono con un beat ovattato, un tocco quasi gentile che si svela progressivamente in un ritmo spastico che si apre a glitch e una dub-techno dal retrogusto futurista, il tutto immerso in un liquido avvolgente. E se l'iniziale isolazionismo di "Karha" riporta la memoria alla mitica compilation del 1994, salvo poi svoltare verso quadretti ottundenti, la successiva "Pietola" respira un profumo acre d'autunno, di terra che si sgretola e frequenze radio dissestate. Mutila marca la distanza dal Delay più ambientale e dismesso, lo porta ad una dimensione non distante dalle primissime prove di forza a nome Luomo. E ci consegna un capolavoro di visionarietà, in un gioco di chiaroscuri si disegnano landscapes che profumano di ghiaccio. Solamente all'inizio, ma la stoffa già è consegnata alla storia.

Tempo pochi mesi e Delay torna all'assalto, questa volta sulla mitica Mille Plateaux. L'etichetta è all'apice e lo ingaggia: nasce Entain. Entain è un disco profondamente diverso da Mutila. Non c'è quel beat ficcante ed ovattato, si torna sulla scia dell'esordio. Non è un caso che "Khode" ed "Ele" altro non siano che un remake delle tracce di Ele. Il dub a pelo d'acqua di "Khode" fotografa il silenzio di una palude immersa in un'umidità che pian piano si dirada, i glitch di "Poiko" rompono l'ambient tiepido che procede senza soluzione di continuità.

E se "Ele" rivisitata brilla di luce propria, adagiando la sua melodia su trame melliflue e giochi d'acqua, "Notke" è ancora l'ambient-dub che t'aspetti e puntualmente sorprende: partenza solare, un sole pallido che si staglia in un tramonto di nubi grigiastre dipinte con toni d'un giallo smunto. Ancora una volta, con coordinate piuttosto diverse, Delay firma un altro centro. La pecca - l'unica - di Entain è forsa da ricercarsi nell'essere arrivato dopo Mutila. Per il resto, disco fantastico perché mostra l'ambient-side del suo predecessore. Ne inverte la rotta, e la ripercorre al contrario. Mai uno specchio è stato così fedele.


A due capolavori, nemmeno a dirlo, segue il terzo. In Anima emerge un nuovo Delay, forse molto più affine alle sexy melodie a nome Luomo. Cosa sia Anima è difficile dirlo. Non è un lavoro di ambient, non è un propriamente dub, non è un disco house, nè idm o glitch. E' tutto questo ed il suo contrario. L'affascinante formula dell'unico pezzo - un'ora la durata - gioca su un piano nuovo. Unite i Future Sound Of London più lisergici, l'ambient-dub di marca Basic Channel, le fughe post- dei Labradford e poi Pan American, l'house soulfoul a nome Luomo o il trip-hop più zuccherato ed otterrete Anima.


Prima di essere un album lo si cataloghi alla voce: esperienza. Un'ora di loop liquido, una modernità che si fa sensuale ed ammiccante, uno zucchero che lentamente si scioglie sotto un sole ovattato tinta pastello. Non c'è ritmo di sorta, solo i soliti beat dimessi e scostanti, è house senza ritmo e senza colonna vertebrale, da ballare stesi a letto, muovendo gli arti con la stessa lentezza del procedere delle ondate sonore. Avvolge l'orecchio, Anima, lo seduce e non lo abbandona. Riprende anzi il gioco un infinito numero di volte, con un appeal indiscutibile, finanche sfiancante nel suo essere sempre uguale a se stesso, senza variazioni sul tema. Glitch sparsi e caramellati ne sostengono la tenue non-struttura, inserti da house in dissolvenza la rendono catchy, il dub stentato e sciatto fa da contraltare. Non c'è pausa in questo viaggio a tinte rosate, è un unicum che procede sussurando all'orecchio quanto la musica, nel suo essere delicata e gracile, quasi cagionevole, possa incantare ed ammaliare.

A seguito di Naima, resa dal vivo all'Ars Electronique di Parigi di Anima, Delay decide di prendersi una pausa dal moniker all'epoca meno conosciuto. I lavori a nome Luomo avevano infatti riscosso ben più ampio successo, con annesse avances di etichette di spessore quali la Bmg. La fama è tuttavia oramai consolidata, ed il trittico di cui sopra testimonia l'indubbia visibilità del genietto finnico.

Passano tre anni e arriva il momento di Demo(n) Tracks. Nel frattempo, viste anche le frizioni con la Bmg riguardo appigli contrattuali che gli impedirono di distribuire i suoi lavori in diversi Stati, Ripatti decide di fondare - anzi, più precisamente, riportare in vita - una etichetta tutta sua: la Huume.

Il nuovo lavoro si segnala subito per un aspetto: la brevità delle composizioni. Non più interminabili suite ambient-dub glitchate, ma brevi quadretti della durata media di tre minuti, nei quali si fondono il gusto di Delay per l'ambient de-costruito e spastico con una sensazione di calore percepita solo in Anima. L'effetto è quindi piuttosto straniante, perché se il dub amorfo rimane - e diventa ancor più colonna portante del tutto - a cambiare sono i sostrati, gli sfondi che si fanno colorati. Le tenui tinte della sfumature cambiano continuamente, mantenendosi sempre però entro un orizzonte di riferimento caldo ed accogliente. Non ci sono più le rifrazioni spettrali, le fredde salsedini del nord. Qui c'è spazio solamente per un "Kasvot Uivat" che ti rassicura, per l'effetto straniante del dub sostenuto di "Kotilainen", per i retro-futurismi di "Demonit" o "Kaikki Hyvin". Nel complesso viene facilitato l'effetto easy-listening, anche se si perde di compattezza ed uniformità. Demo(n) Tracks è quindi un disco più che dignitoso, ma che non vive di quei guizzi del suo fratello maggiore, Anima.

The Four Quarters sarebbe ingiusto definirlo un lavoro minore, non fosse altro perché concentra le intuizioni di "Anima", la sua warmness ed il suo calore intrinseco, con strutture - ci sono quattro pezzi della durata media sul quarto d'ora l'uno - più vicine ad una dimensione da mini-suite. Con The Four Quarters forse per la prima volta Vladislav Delay si avvicina ad uno sperimentalismo-jazz che troverà solamente quattro anni dopo con Tummaa la sua piena consacrazione. Se ne percepiscono i germogli nelle maree del suono di "The First Quarter", con un sound molto meno orientato all'ambient-dub ma forse ancor più fluttuante.


L'importanza di Vocalcity - pensate a "Tessio" -  è palese nell'impalpabilità tiepida di "The Second Quarter", già nella quale si intuiscono le venature impro, sviluppate poi con più convinzione del terzo e quarto episodio. Il Loscil più isolazionista fa capolino da "The Third Quarters" mentre la coda degli ultimi quindici minuti parlano la lingua che verrà poi tradotta dal secondo episodio a nome Moritz Von Oswald Trio. Delay erge qui il suo lavoro più strano e forse interlocutorio. Il fatto che sia comunque un gran bell'ascoltare la dice tutta sulla grandezza del personaggio.


Passano tre anni e Delay (ri)propone in Whistleblower un fluire bislacco di linee di synth, che si disperdono a getto continuo in quello che potrebbe essere definito uno sciame confuso di pulsazioni dub. Il disco è interamente realizzato seguendo la famosa tecnica del processing digitale, una sorta di patchwork dinamico immerso nel suo lento divenire in un universo di microsuoni a corrente inversa. La vera follia è che in tutta questa virulenta astrazione sonora, è intuibile, ad ogni singolo passaggio, anche un'incantevole sensibilità al laptop.

Dissonanze che scontrano tamburi dalla tela sfibrata, come accade nel binomio iniziale “Whisleblower/ Wanted To (Kill)”, pullulazioni atonali che incrociano frattaglie cosmiche (“Stop Talking”), o tracce da elettrocardiogramma che cercano di seguire quel groove che esiste solo nei sogni (ad occhi aperti) del buon Sasu  (“Lumi”).

I primi sei minuti di “He Live Deeply” sono l’unico momento in cui c’è un effettivo contatto con la realtà, prima che l’ingegno avanguardistico (ri)prenda il sopravvento, sia perché la sezione ritmica mantiene una sua costanza di fondo (?), sia perché gli svolazzi al synth non seguono impalpabili percorsi. Tuffarsi nel magma instabile di “Recovery Idea” potrebbe essere una delle esperienze più insolite per qualsiasi accanito seguace del settore.

Tummaa suona diverso da ogni progetto che Vladislav Delay abbia mai pubblicato in passato. C'è meno silicio e più sperimentazione nelle sette tracce dell'album. Il pianoforte e il rhodes di Armstrong e i sassofoni e i clarinetti dell'argentino Lucio Capece – l'altro musicista coinvolto nelle registrazioni del disco – vengono trattati con attitudine quasi industriale e Ripatti, dal canto suo, manipola il set di una batteria come fosse un'orchestra avant-jazz da cui estrapolare ogni tipo di suono. Non mancano, ovviamente, i riferimenti al mondo della techno e in generale le improvvisazioni sono distese su lunghi loop (spesso suonati dal pianoforte) che servono a creare un'ammaliante atmosfera.


Già la traccia che apre il disco, “Melankolia”, segna i nuovi confini delle esplorazioni di Vladislav Delay: lo spazio è incontaminato e rumori sparsi in sottofondo creano il vuoto per una straziante linea di pianoforte, accompagnata da sporadiche scariche di silicio. La malinconia artica dei paesaggi scandinavi emerge nell'intro della successiva “Kuula”, prima che un clarinetto trasformi la nenia in un turbine di sapori transiberiani. Su “Toive” emerge l'amore di Ripatti per la trance sciamanica del Miles Davis elettrico, grazie a un groove che cresce fino a esplodere in una bolla di silicio rovente.

Vantaa, ossia Vladislav Delay atto decimo. Apre tutto, Sasu. Testa e cuore. Ti immerge completamente, tenendoti la testa sott'acqua finchè non ti accorgi di riuscire a respirare senza bisogno d'ossigeno. Sasu torna in un certo senso alle origini del suo marchio di fabbrica, senza però quella freddezza nel suono che lo contraddistingueva. L'influenza mutuata di "Whistleblower" si fa sentire, a farne le spese sono i funambolismi avant-. Pare che Delay abbia voluto recuperare un contatto molto più fisico col suono, un contatto che ti dice ambient e dub sottile, in un movimento liquido che tutto tocca e niente bagna.


"Luotasi" apre le danze: andirvieni ambient con dub irregolare, solita e cronica impalpabilità, con le nebbie che non cessano di ondeggiare, "Henki" che si fa più fisica nella struttura, con una colonna vertebrale che gira attorno ad un dub dimesso e fluttuante.

Delay costruisce frame visivi con una naturalezza impressionante, processando la grana del suono, levigandola e restituendola pura. Ascoltate i landscapes di "Lipite" - forse il brano dove maggiormente si sentono le influenze di "Tummaa" - o i giochi acquatici di "Narri" per scoprire il magma dei vulcani oceanici. Il synth percorre linee fioche e sommesse, che si increspano in un pullulare di rette spezzate ("Vantaa"), per giungere all'estasi cacofonica di "Lauma", tripudio - come non mai nella sua carriera - di beat sostenuto su sfondi grigiastri in loop. A riprendere il candore ci pensa la dub-techno sensuale di "Levite", con la splendida chiusura di "Kaivue" a suggellare il tutto.

Non ci sarebbe bisogno di molte parole per descrivere una totalità fatta suono, ma solamente la voglia di stendersi e rimanere così: sommersi senza essere in debito d'aria. Mai nulla vi sarà sembrato così quieto e limpido.



   
Il caldo abbraccio del Nord - Luomo

A conferma di un eclettismo fuori dal coro, Luomo incarna la maschera più bizzarra di Ripatti.  E’ qui che il buon Sasu fonde le sue due anime maggiori. L’elemento creativo dettato dalla mente e l’impulso ritmico suggerito dal cuore vivono finalmente in un unico corpo sonoro. A metà strada tra le deflagrazioni bioniche di Delay e le bombette calde sganciate con Sistol e Uusitalo, il percorso intrapreso sotto moniker Luomo mostra differenti gestioni del groove, rincorso a sua volta da costanti zigzag elettrici e morbide sovrapposizioni micro-house. L’indomabile finlandese sfida così la propria capacità e dinamicità ai controlli, tessendo la sua personale tela elettronica fatta di sibili e schegge voltaiche, sfarfallii magnetici e bassi smorzati, senza mai rinunciare a pulsazioni in linea retta into club vibranti e smaniose, se non altro proprie dei dominatori neri residenti in quel di Chicago. Luomo delinea quindi la creatura definitiva di Ripatti. Mentre Vocalcity, esordio sotto tale sigla, rappresenta a più riprese il suo lampo di genio, la sua scia più accecante.

Prodotto nei primi mesi del nuovo millennio, la prima opera targata Luomo è un susseguirsi di battiti caldissimi mescolati a crescendo vocali deep-house. La centralità del ritmo sovrasta l’intera struttura, contornata da scappatoie al laptop d’ogni sorta e palpitanti TB. La sola “Market” pone in chiara evidenza nuove diramazioni da seguire. Costrutti ritmati in cassa dritta accerchiati da micro pullulazioni elettroniche a incastrarsi in quello che sarà lo scacchiere luminoso dei vari Jonson, Tate e Dhula. Ripatti opta per poche tracce. Vere e proprie escursioni mentali nell’universo dei migliori club del vecchio continente caratterizzano l’album, a tratti sorta di dj-set elaborato in studio (si prende ad esempio l’inarrivabile mutazione tematica in “Class”). Il non plus ultra di questa eccitante fusione risiede nei dodici minuti della celebre “Tessio”, nella quale il nostro inanella tutta una serie di ripartenze ritmiche ben camuffate da un groove accecante e dalla liquidità amniotica della tastiera, prima che un coretto soul esclami a voce controllata “Baby it's ok, we'll make it better, baby, i, i'll survive, without these women in my life.” Il disco riceve non pochi apprezzamenti dalla critica, non allontanandosi comunque da una circoscrizione e da una platea ben selezionata. La stessa “Tessio” ottiene enormi riscontri negli addetti ai lavori, fino ad essere inclusa come coda dell’eccellente selezione “Hypercity” di sua maestà Andrew Weatherall, remixata per l’occasione niente popò di meno che dall’illustre Mathias Schaffhäuser.

Seguono due anni di strabiliante esperienza nell’universo dancefloor, i quali proiettano di scatto l’algido Ripatti verso un modello downtempo decisamente inatteso. The Present Lover è così l’ennesima mutazione dentro la mutazione, la metamorfosi elegante del groove di marchio Luomo. L‘introduttiva “Visitor” è per l’appunto il biglietto da visita di questa nuova e intrigante commistione d‘intenti. Stavolta, è la femminilità il fulcro centrale da cui poi poter svolazzare liberamente. E’ la donna il centro del suono. Ripatti sposa così nuovissime strutturazioni lounge, l’obliquità delle sfumature cede il passo a un immaginario chic e sensuale. L’ossatura del beat è alleggerita da un’effusione romantica del ritmo. Sasu si scopre amante e seduttore, al contempo vittima e carnefice dell’universo femmineo.  E così è tutto un susseguirsi di calde variazioni su tema. La stessa title-track evidenzia il nuovo stato d’animo del Ripatti negli abiti del concubino moderno. In “Body Speaking” il linguaggio del corpo espone pertanto L(‘)uomo a inseguire impalpabili orgasmi ritmici interiori. E’ l’apoteosi erotico sonora del disco, la netta demarcazione dalle linee sintetiche dell’esordio. Il bis di “Tessio”, modellata seguendo le nuove attrattive downtempo, evidenzia a pieno titolo l’esigenza di assecondare l’istinto e accantonare momentaneamente ogni forma di istigazione avanguardistica. Il risultato è a suo modo conturbante ed eccitante.

Pur facilitato da una maggiore fruibilità dell’insieme, The Present Lover resta comunque uno dei momenti di maggior candore per il produttore finlandese, ne mostra per certi versi il suo lato più umano e divertito. Missate poi quattro tracce con l’amico Domenico Ferrari nel trascurabile ma onesto album-remix The Kick, Ripatti torna nei panni de “Luomo” nell’enigmatico Paper Tigers. Accantonato il morbido richiamo di certa house da aperitivo, il disco si presenta come possibile variazione degli excursus frastagliati con la compagna Antye Greie-Fuchs nel progetto parallelo Agf/Delay. La differenza sostanziale risiede tutta nella maggiore fruibilità del groove e dei vocalizzi elettrici inseriti con elegante maestria e minor imprevedibilità. Ciò nonostante, il disco offre diversi passaggi a vuoto, ben oscurati da un’ottima alternanza di episodi decisamente più ispirati, come la bjorkiana “The Tease Is Over” o la palleggiante “Good To Be With”. Malgrado il susseguirsi di estenuanti collaborazioni e dei più disparati impegni live ottenuti a destra e a manca nel vecchio continente, con Paper Tigers l’infaticabile Sasu cerca in qualche modo di assestare la propria creatura, mescolando il dinamismo elettronico degli esordi con la lussuriosa compostezza palesata nella seconda fatica, riuscendo solo per metà nell‘ardua impresa di camuffare i primi, evidenti (ed ovvi) sintomi di stanchezza.

Convivial esce a due anni di distanza da "Paper Tigers", e per certi versi ne costituisce il seguito ideale. L'album si presenta come un carnevale di suoni, ricchissimo di ospiti illustri: da Catherine "Cassy" Britton, che apre le danze con l'asciutta interpretazione electro-soul di "Have You Ever", al carismatico Apparat, perfettamente a suo agio nella ballata tra Radiohead e Telefon Tel Aviv di "Love You All"; dal redivivo Robert Owens alle prese con la solita elegante house venata di blues ("Robert's Reason") a un sorprendente Jake Shears in libera uscita dalle Scissor Sisters, per il quale Luomo ha preparato un funky elettronico degno del miglior Prince.

Ben quattro delle nove canzoni in scaletta ospitano la voce della fidata Johanna Iivanainen. E' su queste tracce che Ripatti mostra più liberamente il lato sperimentale della sua musica, costruendo groove contorti e tappeti ritmici intarsiati di mille colori. Libero dalla presenza ingombrante degli ospiti della prima parte del disco, Luomo si impadronisce del palcoscenico e mette a segno due delle tracce più seducenti dell'intero lavoro, "Slow Dying Places" e "Sleep Tonight", dimostrando ancora una volta che se ci fosse un solo nome da spendere per rappresentare la techno degli ultimi dieci anni, allora sarebbe quello di Sasu Ripatti.


A tre anni di distanza da Convivial, ecco Plus. House sexy, beat quasi sempre pastello, mai irruenza o cattiveria ma tocchi di musica molto pettinata. Quelle scie - suo marchio di fabbrica - di Anima riemergono qui, tra variazioni monotonali e una sensualissima venatura di pelli a contatto.


"Twist" ne incarca il lato più soulful, "Good Stuff" - capolavoro assoluto nella sua discografia - quello più viscerale: struttura loopata e ipnotica, poche frasi e house di corpi che si toccano e si sfiorano. E ballano. Di quelle melodie che fanno venir voglia di muoversi, di sentire ogni singolo muscolo, ogni singola fibra, del proprio corpo coordinarsi in un unicum e in un continuum. "How You Look" in progressione soft-techy, tra trame in palleggio e qualche dolce glitch sparso, "Make My Day", forse il vero buco nell'acqua di questo "Plus". Il robot "Happy Song" spezza la falsa soavità della traccia precedente, in favore dei soliti giochi di ombra sorretti da un beat molto lineare. "Medley Through" è proprio fascino Motown da old school, tra immagini di fotografie ingiallite e scuola Chicago a piene mani. E se fin qui di elettronica in senso stretto non se ne trova poi tanta, "Form In Void" fa fare - ancora una volta - retromarcia verso un suono che guarda al revival synth molto scheletrico (pensate all'ultimo Ford&Lopatin in veste minimale, e quindi Junior Boys). Le conclusive "Spy" e "Immaculte Motive" non aggiungono significativi spunti a un disco che non inventa nulla.

Ma è proprio nella normalità che Ripatti esalta le sue doti da master indiscusso della scena elettronica contemporanea tutto. Un suono sempre vivo e viscerale, che si muove lentamente in rivoli che cambiano colore lentamente. Non c'è verso di rimanere delusi dall'uomo venuto dal nord; a dispetto della presunta freddezza, verrebbe solo voglia di sentirsi dire "Put your hands around me. Totally".


Un intervallo gelido - Uusitalo

Nel 2000 il nome di Vladislav Delay  circola già tra gli adepti della nuova techno. A far crescere il culto del musicista finlandese ci pensa anche il primo disco di Uusitalo: Vapaa Muurari esce avvolto in una veste bianca. Come la neve e il ghiaccio al quale rimandano le quattordici tracce in scaletta: techno ‘gelida’ che si insinua tra le sinapsi grazie a geometrie riconoscibili e uncini pop-ambient.


Dopo sei anni e dopo i successi dei dischi house a nome Luomo e di quelli più sperimentali a nome Vladislav Delay, nel 2006 Ripatti torna a pubblicare un disco a nome Uusitalo, Tulenkantaja. Le atmosfere delle dieci tracce in scaletta rimangono legate alla silent techno che il finlandese ha aiutato a definire con i suoi dischi. Una musica desolante intrappolata in rigide strutture di silicio.


L’anno seguente, nel 2007, esce Karahunainen, il miglior disco di Uusitalo pubblicato fino ad oggi. Lo stile meno rigido e più vario rende possibile contaminazioni con le sonorità dub care a Vladislav Delay: il risultato è un album incredibile, che pur conservando i soliti riferimenti artici dei precedenti lavori, mostra una gamma di bassi sbalorditivi capaci di esplodere come geiser in mezzo al ghiaccio.


Sensualità breakbeat - AGF/Delay

Agf dal 2005 è la moglie di Sasu Ripatti, dal 2006 madre di una figlia. Concentrare la propria ricerca su un ambito ancora una volta diversa. Ed elevarla. Brilla di una luce tutta particolare questo Explode, sfuggente perla nera frutto della collaborazione tra la maliarda Agf e l'alchimista minimal-techno Vladislav Delay. Musica complessa per animi sensibili, suoni secchi, a tratti aspri, violenti breakbeat e cantato erotico che si incastra flebile tra intricate maglie elettroniche. E' proprio l'interpretazione di Agf a fungere da collante armonico, a rendere fluido un suono che altrimenti rischierebbe di arenarsi causa una oltremodo pronunciata frammentazione ritmica; tutto funziona però, e alla perfezione.

Ma cos'è questo disco? Più che dal trip-hop, troppo astratta e scarnificata la texture per essere tale, Explode pare attingere dall'influente esperienza Laika/Moonshake, nella reiterazione ossessiva delle battute, nella riproposizione di rumori ipnotici come di radioattive schegge post-kraut-minimaliste.

Evoca paesaggi pregni di angoscia metropolitana, la musica di "Explode", menti solitarie che vagano catatoniche nell'oscurità, tra vicoli decadenti, sirene che riecheggiano in lontananza, urla soffocate, una sorta di "Strange Days" dal finale non scritto. E' rappresentazione prima che delizia uditiva, visioni che semioticamente si cibano dei residui dell'evo industriale, rigurgitati nelle vesti di antropologiche testimonianze di una civiltà al collasso. Il disco si apre con "Do Protest", spirale di sensualità sottovuoto, per poi proseguire con il battito ossessivo di "Explode Baby", una sorta di Can intorpiditi da intense luci al neon.

"All Lies On Us" non può essere raccontata per quanto è toccante, solo un'avvertenza: ascoltatela con distacco emotivo o il cuore potrebbe sanguinare. Leggera deriva eniana tra i solchi di "A Distant View", ode postmoderna eseguita in una locanda alla fine dei mondi, suono incontaminato di un menestrello cyberpunk intrappolato nell'entropia dei sensi.  Non v'è linea melodica portante, solo schizzi che si materializzano dal nulla per poi dissolversi improvvisamente. Esemplificative in tal senso la melmosa "Restrict", giocata su apatiche iterazioni percussive e "Slow Living", traccia numero dieci per la cronaca, claudicante soul music da Marte. Si torna a un minimo di canovaccio con "Distributor", deliquio psichedelicho suggestionato da rimembranze Bowery Electric, per poi chiudere la partita con i fennesziani romantic drones di "From Morning On". Oscuro, voluttuoso, alieno, quasi capolavoro.

Passano quattro anni, 2009: Symptoms. Synth-pop, trip-hop, dub-techno. La quantità di riferimenti stupisce fino a un certo punto, ciò che davvero salta all’occhio è la padronanza con cui questi elementi vengono fusi fino a raggiungere un livello di coesione complessiva mirabile. Laddove in Explode emergeva sostanzialmente un suono scarno e gelido, la situazione in Symptoms, almeno parzialmente, evolve. Non più, o non solo, secche sezioni ritmiche, impasti krauti aggiornati al nuovo millennio, magie elettroniche ghiacciate provenienti dal Polo Nord. Il nuovo corso si orienta verso lande decisamente più tiepide, tra minimalismo, reiterazioni sonore ed elettronica avvolgente, rumorosa, talvolta sedotta dal dancefloor.

L'iniziale “Get Lost”, che pare uscita da un disco qualsiasi dei Massive Attack, si sgancia dalle produzioni dei due per proiettarci in un immaginario timbrico molto vicino al trip-hop dei tempi migliori, in bilico col dub. I fendenti astrali che adornano il motivo di “Connection” sembrano giungere direttamente dal Sol Levante. E’ impossibile mantenere il controllo all’ascolto di un algido rimbombo ritmico (“Downtown Snow”), i fantasmi del down-beat più acido emergono tra sinistri presagi futuristi e immaginifiche scuciture melodiche (“Outbreak”). “Generic” ripropone sincopi minimal-techno, anticipando “Most Beautiful”, capace di rimandare a quel pop elettronico brumoso di cui gli Air sono maestri.

Reiterazioni oppiacee ammorbano un’atmosfera già tutt’altro che rassicurante (la splendida voce granulosa di “Bulletproof”, momenti di stasi glaciale in “Second Life”), ispirando derive digitali in forma di racconto errante (la lunga e ipnotica “Congo Hearts”). Se acidi momenti sintetici non deluderanno gli amanti del synth-pop (la title track e “Smileway”), la conclusiva “In Cycles” riesce a sposare Fennesz a un gusto tutto nordico nel cesellare groove regolari ma quantomai trascinanti.

Inquietudine urbana e rappresentazione pessimistica di un mondo non troppo lontano.


Ossessioni minimal e viscere techno - Sistol

Assecondando lo spirito più muscoloso della sua musica, Ripatti esordisce, quasi all'inizio della sua carriera,  con il progetto Sistol nel 1999. L'omonimo disco è profondamente influenzato dalla minimal-techno, genere che in quegli anni stava esplodendo come fenomeno di massa in ogni dancefloor del mondo. Granitico e perfino ripetitivo, l'album tratteggia paesaggi essenziali e strutture ritmiche di efficacia scheletrica, lasciando pochissimo spazio alla melodia. Screziato da venature glitch (il rarefatto finale con ”Kotka”), senza grossi sussulti, “Sistol” si attesta su un livello medio di routine techno assodata e piacevole.

Dopo più di dieci anni in cui il moniker viene lasciato da parte, Delay torna nel 2010 con “On The Bright Side” e la differenza con il suo precedessore è lampante. Lasciate da parte le influenze minimal, l'opera va subito al centro con un'efficacia a tratti devastante. Ritmi secchi, corposi, Vladislav si diverte e lo si sente chiaramente quando le melodie si intrecciano e gigioneggiano in un andirivieni contagioso e ossessionante. Si avverte una profonda passione nei tratti di una musica tormentata, epica, centrata ed efficace. Nonostante il nostro non sia certo un animale tutto sudore e cassa in 4/4, la sua versatilità nel confezionare un prodotto di settore così positivo, è l'ennesima conferma di quanto sia un musicista a tutto tondo. Tracce tirate al lucido, già pronte per divenire anthem da pista (“(Permission to) Avalanche”, “Hospital Husband”), si alternano con accecanti bagliori electro (le delicate tessiture di synth nella title-track, gli scuri bagliori dell'inquieta “Fucked-Up Novelty”), ed episodi in cui la spinta sulla carica ritmica non stona minimante (le staffilate di “Contaminate Her” e “A Better Shore”).

Aldilà delle singole tracce “On The Bright Side” mette in luce un Delay ispirato, vivace, capace di sperimentare e proporre musica caldissima ma al contempo riflessiva, dando sfogo via via ad ogni sfaccettatura del suo essere uomo e artista. A corollario di questa uscita, verranno rilasciati poco dopo due fondamentali 12” in cui artisti del calibro di Redshape, Jori Hulkkonen e Scuba, trarranno ispirazione per rimescolare le carte in tavola e remixare alcune tracce con esiti sicuramente interessanti.

Nello stesso anno la riesumazione di Sistol è completata con la pubblicazione del doppio CD “Remasters & Remakes”, in cui nel primo disco viene riproposto l'esordio, con l'aggiunta di due tracce dell'originaria sessione di registrazione (“Hojatus” e “Kojo), mentre nel secondo si avvicendano primi della classe come John Tejada e Alva Noto nel trasfigurare alla loro maniera un lavoro già di per sé molto buono.

A prescindere da eventuali sviluppi futuri, Sistol rimarrà il contenitore in cui l'artista convoglierà tutte le proprie frustrazioni con una musica tormentata e madida di sudore.

Trittico di anime in contrasto - The Dolls

Opera a tre mani con l'aiuto di AGF e del compositore Craig Armstrong, l'omonimo esordio di The Dolls è fino a qui l'unica collaborazione di Delay con la consorte al di fuori del progetto AGF/Delay. Come si potrà notare dall'onnipresenza della voce della compositrice tedesca, l'album è un delizioso concentrato di sperimentazione vocale cara ad AGF, influenzato tanto dal classicismo pianistico di Armstrong, quanto dalle divagazioni ritmiche del finlandese. Il tema centrale è l'esplorazione di tutte le vie di interazione possibili fra tre anime, cercando di farle coesistere in qualcosa di vivido e intenso. Diverse soluzioni saranno un richiamo alla carriera solista di AGF, la quale marchia a fuoco l'album con un'interpretazione come al solito sottotono, da vera poetessa del suono quale ha dimostrato di essere fin dai suoi primissimi album. La perfezione con cui le note di piano vengono compenetrate dalle sperimentazioni a metà fra un trip-hop malato e una spoken-word-music sciamanica, affranca all'album la nomina di unicità nella carriera di tutti e tre i musicisti.

Atmosfere noir, crepuscolari e decadenti si abbattono fin dall'inizio, mescolando tormenti in chiaroscuro (la nenia “Martini Never Dies”, gli sbuffi improv di “Soul Skin”), frangenti più palpitanti (l'emozionante crescendo di “White Dove”, i battiti pungenti in “Choices” e “Night Active”) ed un'ariosità perfino inconsueta (il bell'istronismo pop delle varie “Collect The Blue” e “Kukkuu”). Le similitudini con le secche strutture di AGF/Delay si percepiscono negli episodi più asciutti (“Motor City” e “Favourite Chord” poggiano su un pattern ritmico efficace), peraltro mai completamente scevri da un alone di rarefazione urbana o rasserenati. Dove la radice improv classica prende il sopravvento (“Star Like”, la title-track), il registro cambia in favore di uno scomposto affastellarsi di melodie, sbuffi e reticoli di batteria magistralmente suonati da Delay, capace di trasformarsi in un solido performer, dimostrandolo dal vivo nei concerti in coppia con AGF nel biennio 2005/2006.

Ancora orfano di un seguito degno di nota, "The Dolls" rimane episodio isolato e di grande rilievo nella carriera di Delay, ennesimo progetto parallelo dall'esito quantomeno positivo in cui l'artista da la zampata vincente, riuscendo a convivere con due personalità artistiche ingombranti.


Impro time - Vladislav Delay Quartet

Cosa si cela dunque sotto questo progetto? Essenzialmente la voglia di lasciar libero sfogo alla musica. Debut nasce e si sviluppa come il risultato di session dominate da un solo verbo: improvvisare. Forse più congeniale a una resa dal vivo che a lasciar traccia di sé sul formato fisico, "Debut" va a scavare gallerie che Delay non aveva mai toccato. Messi da parte dunque l'evanescenza, (in parte) il dub, gli sfondi ambientali claudicanti, qui si viaggia su coordinate che vanno a toccare i precordi degli amanti delle claustrofobie Pan Sonic, virate in salsa da quartetto impro-jazz. È una litania lunga e inesorabile, che va a di pari passo con gli ultimi Æthenor, una litania nella quale si rincorrono rintocchi, suoni spettrali, leggerissime incursioni dub. Un noise dilatato e mai eccessivamente ficcante aggiunge il tocco finale.

"Hohtokivi", gira su se stessa gracile e sinistra, "Minus Degrees, Bare Feet, Tickles" ripercorre gli stilemi degli ultimi Fenn O'Berg, "Santa Teresa" è un'ossessione per clarinetto e dub dilatato, "Des Abends" viaggia su un mare di vetri rotti". A tirar fuori le unghie provvedono però l'esaltante free di "Killing The Water Bed", orgia di intrecci e spasmi rabbiosi, e il dub in prima linea di "Louhos", che incrocia le fila serrate di Capece e le scie di Vainio.

L'intellighenzia si accomoda e suona. A voler essere puntigliosi, si potrebbe dire che la parte iniziale tende a rimanere assestata su binari forse un po' telefonati. Alla fine però, tirando le somme c'è solo una cosa da dire: vincono loro.

L'architettura a trama variabile - Moritz Von Oswald Trio

A voler essere davvero poco generosi si dovrebbe parlare di un progetto nato secondo coordinate non dissimili da quelle che dovrebbe seguire un trio jazz. Accade però che un progetto concepito inizialmente non certo per stare in studio quanto sul palco, abbia partorito, nel giro di un paio d'anni, due tra i lavori più interessanti in un limbo nel quale si incontrano jazz, elettronica, ambient, dub e techno. Pochi anni fa, a causa di un'ischemia in volo, Moritz Von Oswald subì la paralisi della mano destra, il cui tocco felpato le menti illuminate di Delay e Loderbauer, provano, in un certo senso, a ripristinare.

Quando un artista semina per quindici anni, è gusto che, prima o poi, arrivi anche il momento di raccogliere i frutti del duro lavoro. Questo momento è arrivato per Moritz von Oswald e, vi assicuro, sporcarsi le mani non è mai stato così bello. Lui che è una personalità ingombrante, una di quelle cui basta il nome per far arrossire gli esperti del settore, decide di scendere in campo e di giocare duro. "Vertical Ascent" è il frutto di numerose live session tenute negli ultimi anni in giro per il mondo, show in cui il patron della Basic Channel ha dimostrato a tutti di essere il papà della dub-techno suonata e sudata con passione.

Non è solo il nome del progetto a ricordare il jazz, ma anche il feeling che si respira per l'intero disco: quattro trame senza una nitida struttura, in cui il power trio della techno si lascia liberamente andare a divagazioni più free, in un flusso continuo di ritmo e atmosfere dub. Così inizia "Pattern 1", in maniera bruciante, con il balletto del cimbalo che prende il via e la bassline a inseguirlo, in un vorticoso gioco a due. Passa poco, però, e il pezzo volta faccia: largo a una cassa incerta, tribale, tagliata in due dalla melodia di synth che illumina a giorno. Non fai in tempo a muovere la testa che subito l'atmosfera cambia di nuovo, come se fosse la cosa più naturale del mondo: ecco cosa vuol dire improvvisare.

"Pattern 2" ha decisamente un altro piglio: accantonata la calda matrice dub tipica del suono mauriziano, ci si tuffa a pesce nelle atmosfere gelate di Ripatti. Il ritmo frena bruscamente, l'ambient prende il sopravvento e la melodia lascia il posto a un incedere vagamente industriale. "Pattern 3" rispolvera dei bassi provenienti direttamente da Kingston e monta su una dancehall suburbana, mentre nella giugnla di beat si fanno largo piccoli spunti di melodie, tremendamente notturne e metropolitane. Lentamente il suono si dirada e lascia spazio all'ultimo pezzo, "Pattern 4", dove un mid-tempo stilosissimo (il padre di tutti i dubstep) si appoggia su un solido tappeto di synth, che si alza imponente nel finale e cala il sipario.

Vertical Ascent non è un disco che cambia le coordinate del genere. Semplicemente, è un gran lavoro di bassline e arte, partorito da tre delle migliori menti da dancefloor dell'elettronica contemporanea. Il calore umano che aleggia tra le freddi componenti elettroniche di questo disco fa ricordare che dietro alla macchina c'è l'uomo, e dentro l'uomo un cuore pulsante di passione.

Se bisogna cercare difetti, allora possiamo parlare di alcuni screzi compositivi, dovuti a una scrittura incostante, e anche del fatto che è pur sempre un progetto nato e meglio percepito in versione live.

Vertical Ascent, a modo suo, dribbla con eleganza entrambi i problemi e mostra come, a volte, sporcarsi le mani sia maledettamente divertente.


Se l'ascesa verticale del 2009 intrecciava la fila di un suono freddo con un cuore che pulsava vivo, le nuove Horizontal Structures invertono completamente la tendenza. I giochi sonori si colorano di nuovi impianti e nuove sfumature. I substrati ambient dell'esordio vengono addolciti in favore di linee molti più jazzy, di krautismi in dissolvenza - sempre comunque molto gentili, mai spinti - e di una diffusa sensazione di tiepido calore. Il bello di questo disco sta proprio nel sembrare quasi sospeso, come se non affondasse mai davvero il colpo. Ma si badi bene dal considerare questo aspetto un minus: al contrario si gioca di fioretto, in un esercizio di equilibri e studiata pretattica. Un mood chilly ricopre le cinque strutture, sulle quali si inseriscono le chitarre e i doppi bassi di Mr. Tikiman e Marc Muellbauer della Ecm.

L'ambient dimessa e astratta del brano iniziale reca il marchio indelebile di Delay, tra folate e impalpabilità cronica; la seconda struttura gioca di rimpiattino tra la Germania cosmica seventies, beat tribaleggiante e futurismi sonici. Il viaggio, che a un primo ascolto parrebbe quasi estenuante, squarcia il velo di Maya, mostrandosi a viso aperto nei giochi di chitarre quasi funky in loop all'orizzonte, sommerse da un dub in moto ondoso.

"Horizontal Structure 4" è invece forse l'episodio che più si richiama a "Vertical Ascent": giochi di rifrazione, freddezza, specchi e vetri rotti, che lasciano man mano campo aperto a strutture prima jazz e poi al limite dell'improvvisazione. L'ultima traccia chiude il cerchio, avvicinando scenari dark-ambient.

Non ce la si fa davvero a non voler bene a questi tre. Suonano quasi al rallentatore, eppure ingranano la quarta, sorpassano, salutano e vincono per distacco. Se si giocasse a fioretto sarebbe un 15-0.

di Alberto Asquini, Alessandro Biancalana, Giuliano Delli Paoli, Roberto Mandorlini

Contributi di Antonio Ciarletta

lunedì 24 ottobre 2011

Deniz Kurtel: "Music Watching Over Me" (Crosstown Rebels, 2011)




Addentrarsi oggi in certi meandri della House newyorchese equivale cercare il giusto compromesso tra glacialità teutonica e calore chicagoiano. Ipnosi e seduzione. Dispersione e distensione ritmica. E' una mescola perfetta se dosata in fase di produzione con quel tocco limpido di completo isolamento emotivo. E' un po' come star lì a saccheggiare il lato più intimamente oscuro dei club e proiettarlo in studio su una grande tela grigia, magari su cui poi ricamare le sequenze timbriche più conturbanti del proprio ego. La turca Deniz Kurtel, dj-producer della combriccola Wolf+Lamb, trasferitasi nella Grande Mela per dar maggior sfogo ai propri controlli sonori, innanzitutto visivi (installazioni LED per gli amici Eisenberg e Mizrahi) è colei che recentemente forse meglio interpreta questa intrigante e devastante commistione.

Munita di un'elegante imprevedibilità tecnica, eccitata all'occorrenza da timbri cavernosi e pulsazioni liquide ammalianti, la piccola grande Deniz appare ai più nel 2009 con l'acerbo ma promettente Ep "Whisper". Una serie di remix nei mesi successivi a solidificarne l'ossatura, un Guy Gerber sedotto come un toro a esaltarne le forme nel singolo "The L World", ed ecco spuntare "Music Watching Over Me", esordio che racchiude tutta l'anima di questa misteriosa sirena dal groove in cassa dritta. Basterebbero i primi centoventi secondi della title-track per identificare l'umore narcotico, obliquo, al contempo stiloso e introverso del disco. Quel groove profondamente calato in un'atmosfera notturna, plasmato da umori contrastanti, sarà il tratto distintivo di tutto il disco, una catarsi dance dai tratti dimessi perfino inaspettati.

La profonda e stretta simbiosi con il duo Wolf+Lamb ha plasmato la cifra stilistica del tocco di Deniz, portandola ad elaborare una sapiente miscela di anime electro, house e techno, facendo confluire il tutto senza strette delimitazioni ma dando spazio ad ogni componente in egual misura. Questa perfetta calibratura in sede di composizione porta alla realizzazione di un disco che non ha sbavature, tanto empatico ed esplosivo quanto minuzioso e centellinato.

I ritmi seducenti, al limite dell'erotismo, sono tradotti e cantati da muse attraenti, dando vita a tracce conturbanti e disturbate (i vocalizzi emaciati di "Makyaj", i loop vocali in "The L World" e "Best Of"). L'anima deep di questa musica giace fra gli strumentali, disseminati di controcanti robotici (i magnifici reticoli di beat in "My Ass", il fascino di un canto strozzato in "My Hearth"), stomp più decisi (i vari accenni techno in "Trust", "Equilibrium" e "One Change To Happiness") e melodie più diluite e propriamente electro (le trame semplici ma ineccepibili della finale "Yeah", la spazialità corale dei synth di "Vagabond"). Il marchio comune di queste tredici tracce, oltre al già citato elemento noir, è lo sviluppo diluito, il non concedersi mai strutture secche, decise, componendo qualcosa che, solo in alcuni episodi, assomiglia ai classici stilemi techno ma non ci si avvicina mai abbastanza per esserlo veramente. Questa doppiezza ammaliante rende "Music Watching Over Me" qualcosa di veramente speciale, elevandolo ad un livello superiore rispetto al semplice prodotto di settore, distinguendosi a raro esempio di album la cui classificazione elude ogni facile identificazione.

A metà fra eroina malata e artista geniale, Deniz Kurtel evade, sorprende, ed esordisce con un'opera importante, di rilievo assoluto e incontrollabile. Il suo grande cruccio adesso sarà riuscire a bissare un tale successo. Ma con tali eccellenti premesse le possibilità di ripetersi sono a dir poco elevatissime.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

domenica 16 ottobre 2011

FaltyDL: "You Stand Certain" (Planet Mu, 2011)



Dopo anni in cui la Planet Mu aveva drasticamente livellato la qualità media degli artisti proposti, negli ultimi tempi Mike Paradinas (per chi non lo sapesse lui è µ-Ziq) sembra aver ritrovato la voglia di rischiare. Giovani talenti provenienti da tutto il mondo compongono musica vivida, in costante tormento, tumultuosa, in poche parole nuova. Oltre al già affermato Boxcutter, sono da citare i giovanissimi Tropics che con il nuovo “Parodia Flare” mettono le mani nella psichedelia inficiandola alle basi con una sana dose di eccentricità elettronica.

Nel novero di questi autori spetta un posto anche a FaltyDL. Drew Cyrus Lustman è un giovane americano intimamente plasmato dalla città in cui vive: New York. La malinconia delle sue tracce, quel sapore urbano che sa di pioggia e fumo, la profonda desolazione analogica, il tutto fa pensare a un qualcosa che poggia le proprie basi su un oggetto mistico e mitico. La grande mela può avere questo effetto, e la musica di FaltyDL rende perfettamente certe atmosfere. Autore di un dubstep aggiornato al 2011, con forti richiami all'UK Garage, il ragazzo con “You Stand Certain” entra nel novero di quei musicisti che sono pronti a fare il botto a breve. Estremamente centrato e ricco di suoni quasi al pari del suo esordio “Love Is a Liability”, il nuovo parto di Lustman freme di ritmi, pulsioni, parole e inquietudini irresistibili. Sia che si parli di geniali strumentali giocati su doppiezze timbriche, o piuttosto di leccornie cantate da sensuali ugole femminili, la formula funziona e scorre via lasciando ricordi indelebili.

Si parte ed è impossibile non citare “Gospel of Opal”, dove l'esordiente Anneka (già presente in un gustoso EP insieme a Blue Daisy) si mette in mostra andando a braccetto con la musica che mischia sincopi, una tromba decadente e stasi da groppo in gola. Quando viene calcata la mano sull'imponenza del ritmo le tracce vanno incontro ad implosioni incontrollabili di pregio finissimo (le trame impazzite di “Lucky Luciano”, le convulsioni sintetiche in “Tell Them Stories” e “Open Space”), mentre quando la melodia prende possesso della scena si ha a che fare con nenie perfino delicate (le effusioni fumose di “The Pacifist”, l'ariosità pacifica in “Eight Eighteen Ten”). I pezzi cantati mettono in evidenza le corde vocali di Lily Mackenzie, capace sia in “Brazil” che nella finale “Waited Patiently”, di colorare la traccia con un tocco esotico che solo una voce così carismatica può fare. Nel resto del disco è continuo susseguirsi di trovate inusuali, fantasia e intelligenza compositiva. La sensazione generale è quella di avere davanti un miscuglio di suoni che non hanno un limite prestabilito, ciò che si ascolta è solo una delle mille vie che l'artista ci poteva riservare, evitando la fastidiosa percezione chiamata anche pilota automatico.

Arrivati a questo punto l'unica chiosa possibile riguarda il futuro, il nostro augurio è che FaltyDL rimanga su queste lunghezze d'onda per realizzare il suo capolavoro e far conoscere la sua musica ad un pubblico più ampio rispetto ai pochi intimi addetti ai lavori.

(7,5/10)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 10 luglio 2011

Jenny Hval: "Viscera" (Rune Grammophon, 2011)



A distanza di circa un anno dall'uscita dello splendido esordio di Susanne Sundfør, torna a far parlare di sé un'altra fanciulla norvegese. In “Viscera” Jenny Hval (ventenne nata e residente ad Oslo) confluisce le sue esperienze passate con un primo album a proprio nome di intensità straordinaria. Dopo due prove non certo banali con il progetto Rockettothesky (“To Sing You Apple Trees” nel 2006 e “Medea” nel 2008), esperienza a metà fra folk crepuscolare e sperimentazione umbratile, la giovane ragazza ha anche collaborato con la più quotata connazionale Susanna Wallumrød meglio conosciuta con lo pseudonimo Susanna and the Magical Orchestra.

Le nove composizioni qui presenti si distinguono con una formula di folk semplice e strutturalmente essenziale, la voce è elemento preponderante e splende in tutta la sua magnificenza con cromature variegate e purissime. Le uniche divagazioni dagli accordi di chitarra sono esili arrangiamenti elettronici in sottofondo ed alcune percussioni delicate, peraltro del tutto accessori a differenza dei ritmi pulsanti della Sundfør. Non si percepisce una coltre nube di asfissiante malinconia o perdizione nebbiosa, i sentimenti più ricorrenti in questo disco sono la sconfinata pace che può evocare un orizzonte freddo e nevoso, oltre alla sostanziale serenità celestiale che la voce cristallina della Hval evoca con le sue note limpide. La lunghezza dei brani, quasi sempre sopra i sei minuti, permette ai pezzi di svilupparsi senza tirarla troppo per le lunghe, raggiungendo la perfezione in “This Is A Thirst”.

Non c'è un elemento distintivo che riesce a far risaltare in maniera decisiva una o l'altra canzone, la sensazione che danno le nove tracce ascoltate in una sola tornata è quella di avere di fronte un unicum difficilmente scindibile in singoli. “Viscera” da il meglio di sé nei particolari, quei piccoli interstizi che giacciono fra le maglie di un suono irriconoscibile (la melodia di “Portrait Of The Young Girl As An Artist”), la seduzione sciamanica di “Blood Flight” o gli intoccabili intrecci di note nella ballata pastorale “Golden Locks”.

Capace di sfuggire dai target con prepotenza silenziosa, Jenny Hval mette insieme un album emozionante, realizzato con il cuore e da cui ne viene fuori l'immagine di un'artista baciata da un'ispirazione di rara ricercatezza.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 26 giugno 2011

Boxcutter: "The Dissolve" (Planet Mu, 2011)



Irlandese distinto e poco menzionato negli articoli che contano, Boxcutter arriva al quinto album con alle spalle una carriera di tutto rispetto. Cavalcando solo in parte la moda del dubstep, Barry Lynn ha inanellato un'opera più significativa e incisiva dell'altra, dimostrando personalità e gusto artistico rarissimi. Giunto ad un bivio in cui si può scegliere se attestarsi su un ritmo da croceria dignitoso o sfondare la porta del cambiamento, il ragazzo prende la seconda via e spiazza tutti con qualcosa di veramente inusuale.

Lasciata da parte la nebbia dubstep a cui attingeva ai tempi di “Glyphic”, l'artista incorpora nella sua miscela influenze inusuali per il suo passato. In “The Dissolve” troviamo una chiara struttura ritmica funk, la quale viene espressa con l'innesto di basso e percussioni suonate, oltre ad alcune voci femminili di ispirazione soul. Questa scelta, mutuata dallo spirito originario della techno, si tramuta spesso in costruzioni funk/techno che ricordano i miti Robert Hood e Derrick May, fino a raggiungere vere e proprie cavalcate basso/voce in stile funk/soul. L'asciuttezza di questa soluzione propone tredici tracce bilanciate fra inventiva e classicità, componendo un album solido e viscerale.

Il disco si sviluppa con un inizio che esprime la nuova tendenza con tre ballate funk spaziali e avvolgenti, successivamente si possono trovare numeri techno d'alta scuola (le magnifiche melodie incantate di “Cold War”, “Factory Setting” e “Moon Pupils”), strumentali fra elettricità e ritmi decisi (“Passerby”, “TV Troubles”) e qualche ultima concessione al dubstep (i bassi corposi in “Little Smoke”). Fra una title-track un po' fumosa e poco chiara, avvolta da un coltre di ritmi indecisi se spingere o rallentare, e qualche altro episodio inattaccabile (gli intrecci sintetici di “Topsoil” e “Allele” faranno la felicità di ogni appassionato di elettronica), l'album conclude con l'ennesima canzone cantata da Brian Greene ("Ufonik") suggellando le trovate menzionate ad inizio disco.

Non un quinto disco banale per Boxcutter, la scelta di rinfrescare la sua musica con l'iniezione di innesti classici e fisicità funk ha prodotto risultati rigeneranti scongiurando il morbo della staticità e dando una nuova linfa alla sua carriera.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 14 giugno 2011

Gus Gus: "Arabian Horse" (Kompakt, 2011)



Intenti ad approfondire una forma tutta personale di musica elettronica, gli islandesi Gus Gus giungono al settimo disco in studio, due anni dopo lo splendido “24/7”. Assunte per l'occasione tre vecchie conoscenze del gruppo come Urður "Earth" Hákonardóttir, Högni Egilsson e Davíð þór Jónsson, con “Arabian Horse” il trio continua un discorso di perfezione formale e di contenuto iniziato con il precedente album. Naturale propaggine delle dieci tracce pubblicate nel 2009, la nuova prova sviluppa e approfondisce temi solo accennati in passato.

L'attuale intento dei Gus Gus sembra quello di mostrare al mondo le linee guida per compilare delle canzoni dance. Rimanendo fedeli all'isolamento che caratterizza la registrazione delle loro sedute di studio, “Arabian Horse” è stato realizzato in una abitazione immersa tra i ghiacci nel mezzo dell’Islanda. Questa atmosfera elegiaca, spartana e fiabesca, si traduce in suoni altrettanto estatici. Allergica al manierismo o alla sterile rivisitazione, la musica del trio è una fresca e studiata miscela di suoni vivaci, vividi, votati alla distensione house progressiva, formula della quale la band è rappresentante quasi unica.

Fra progressioni di synth modulari che prendono il sopravvento (l'iniziale “Selfoss”, la fluida “Changes Come”) e decisi trance-pop stellari (mai uguali a se stesse le varie “Be With Me”, “Deep Inside” e “Magnified Love”), il disco assume una personalità statuaria e inattaccabile, mostrando i muscoli mentre accarezza note delicate. Dove il battito si tramuta in deciso martellamento techno (le forti tinte soul di “Over” e “When Your Lover's Gone” e “Within You”) i toni variano, alternando algida freddezza e calore viscerale. Lasciati per strada i brillanti vocalizzi femminili nella title track e la stramba “Benched” (battuta bassa, melodie ariose e accenni idm), l'album conclude il suo percorso con maestria e possenza.

Mai domi e assoluti pionieri di uno stile autentico ormai dimenticato, i tre cesellatori dance provenienti dal freddo prendono in mano la materia e la plasmano ottenendo risultati perfetti da ogni punto di vista. La loro arte è classica ma non manieristica, avveneristica ma non pretenziosa. Come il palpitante destriero bianco in copertina, l'album dei Gus Gus è fatto di vento e sangue, cuore e velocità.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 1 giugno 2011

Agnes Obel @ Chiesa di Sant'Ambrogio, Villanova di Castenaso (BO), 22/05/2011



In un contesto da rito medievale o sacra liturgia cattolica, si svolgono nella chiesa di Sant'Ambrogio a Villanova di Castenaso dei concerti particolari, collegati al Rocker Festival, che ogni anno si tiene a Bologna intorno alla metà di maggio. Grazie alla collaborazione del Covo Club e alla disponibilità del parroco Stefano Benuzzi, le date hanno proposto musica di grandissima qualità: dopo la nobile partenza con le sue tenerezze acustiche di Mark Kozelek, il programma è proseguito con l'intenso cantautorato pop di John Grant e con le composizioni neo-classiche di Dustin O'Halloran. L'ultimo concerto di questa particoalre rassegna è stata l'esibizione di Agnes Obel, cantautrice danese lanciata da un album meraviglioso (“Philarmonics”) e dall'inclusione di un suo brano nella colonna sonora di "Grey's Anatomy".

Con le panche della chiesa riempite da un pubblico eterogeneo, l'artista si presenta sul palco al piano, mentre al suo fianco si accomoda la violinista a supporto. Sorpresa da applausi generosi e fragorosi, la ragazza, seppur trincerata dietro un'estrema timidezza, infonde una forza incredibile alle sue canzoni. In grado di personalizzare con arrangiamenti live le tracce originali del suo debutto, la danese attira l'attenzione con un fare angelico, suonando il piano con precisione e finezza, coadiuvata perfettamente dalla sua partner, che non le è inferiore in termini di empatia e vigore. L'atmosfera si fa via via più intima grazie a un continuo susseguirsi di sibili, docili linee vocali e splendide partiture pianistiche.

L'esibizione è veloce, emozionante, scorrevole, non ha sbavature e il ritmo lento delle canzoni non appesantisce ma rende il tutto deliziosamente flemmatico, mozzafiato, quasi una lieve cantilena d'amore della durata di un'ora e mezza. Il contesto chiesastico è un perfetto guscio che pare essere costruito appositamente per ospitare questi suoni e non altri: le pareti, le luci, i piccoli anfratti della cappella settecentesca proteggono i suoni rilasciando un'acustica cristallina e incantata. Nonostante queste premesse, non è facile immaginare le delicate litanie “Just So” e “Riverside” risuonare fra queste mura conscrate, le parole non possono restituire tale emozione tanta è la particolare empatia creatasi fra contenuto e contenitore.

Nonostante qualche fastidio provocato dai flash dei fotografi, l'artista danese si è dimostrata grata e riconoscente per il calore dimostrato dal pubblico con un fare dimesso ma pur sempre rispettoso. Sorrisi, qualche cenno di consenso e un paio di inchini prima e dopo il bis sono quanto la sua indole introversa ci ha concesso.

Convinti di aver assistito a qualcosa di veramente speciale, consigliamo a chiunque abbia la possibilità di vedere un concerto di Agnes Obel in Italia o all'estero di fiondarsi senza esitazione, il prezzo del biglietto sarà ben ricompensato da uno spettacolo con pochi eguali.


recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 16 maggio 2011

Mercury Rev @ Estragon, Bologna / 11/05/2011




Tredici anni e non sentirli. Tale è il tempo che ci separa dalla data di pubblicazione di “Deserter's Songs”, il capolavoro dei Mercury Rev e il loro disco più conosciuto. Annunciata un'operazione di rivisitazione con un doppio cd rimasterizzato inclusivo di demo, outtakes e vari scarti di produzione, viene inoltre pianificato un tour celebrativo in tutta Europa con particolare attenzione per Inghilterra ed Irlanda. Dopo un doppio disco di grande fascino come “Snowflake Midnight” - “Strange Attractor” pubblicato nel 2008, il gruppo torna a far parlare di sè con un'operazione ad ampio raggio, a cui i fan hanno reagito con grande clamore fin dai primi attimi in cui la notizia è trapelata sul web.

Epici e deliziosi cantastorie di una psichedelia tutt'altro che banale, i Mercury Rev sono stati e sono una band prorompente nel proporre le loro idee rivoluzionarie. Autori delicati e portatori di un'ispirazione mai urlata, la loro fama si è formata a suon di album ineccepibili sotto ogni punto di vista.

La sera dell'11 maggio è un tiepido contesto tardo primaverile per un evento che definire unico è un eufemismo. Dopo l'introduzione dei post-rockers italiani Julie's Haircut (interessanti le loro cavalcate soniche) arrivano sul palco i cinque di Buffalo e il tripudio del pubblico non troppo numeroso è assicurato. La struttuta della performance sarà decisamente lineare: dopo l'esecuzione pedissequa di “Deserter's Songs” sarà il momento di un ritorno sul palco con qualche chicca proveniente dalla loro nutrita discografia. La prima sensazione riguardante il concerto non è positiva, il contesto da grande platea costringe la formazione a un approccio sonoro decisamente rock, andando a discapito delle dolci effusioni elegiache presenti su disco. Il marasma chitarristico, unito a un batterista decisamente troppo esagitato per un suono così particolare, portano a un quasi completo oscuramento della splendida voce di Jonathan Donahue. Purtroppo questo errato bilanciamento dei toni condiziona un po' tutte le canzoni, attenuato solo in parte nei pezzi più movimentati dove giustamente la verve ritmica deve essere maggiore.

Tuttavia la forma smagliante del cantante (un autentico performer istrionico), unita alle prodigiose melodie provenienti dalle tastiere, riesce a creare un'atmosfera ugualmente evocativa. Oltre a qualche coda strumentale di forte impatto, l'interpretazione dei brani risulta solida e poco personalizzata; nonostante ciò non si sente granché bisogno di novità nella perfezione formale ed emotiva di brani come “Holes”, “Tonite It Shows” o “Opus 40”. Gli squarci vocali angelici di Donahue accostati alle linee di tastiera sono il più grande regalo che la musica degli anni '90 ci ha donato, ascoltare dal vivo questi suoni è un autentico sogno ad occhi aperti. La sorpresa che fa quasi sorridere è il rigido rispetto della scaletta dell'album, infatti verranno eseguiti perfino i tre piccoli strumentali posti nei punti strategici dell'opera.

Tornati sul palco dopo qualche secondo di pausa, viene raggiunto l'apice del concerto in termini di splendore con le esplosioni pop dell'epica “The Dark Is Rising” e il caos ritmico di “Senses On Fire”, in un fragore di suoni e sensazioni, degna conclusione di un'esibizione a tratti davvero toccante. Con le dovute riserve per gli errori già segnalati, lo show si attesta su livelli di eccellenza in diversi frangenti, regalando attimi di pura emozione nostalgica.

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 9 maggio 2011

Gold Panda: "Lucky Shiner" (Ghostly International, 2010)




Artista nato nell'hinterland londinese (Chelmsford) ventott'anni fa, Derwin Panda aka Gold Panda è uno dei molti talenti emersi prepotentemente dal grigiore della periferia. Capace di mascherare delle precise intenzioni stilistiche con assalti ritmici frizzanti, il ragazzo mischia sapientemente tante influenze ottenendo un risultato esaltante. Idm, techno, electro e certi suoni mutuati dall'indie-tronica sono le sue principali fonti d'ispirazione, mai perfettamente distinguibili ma solo percettibili in lontananza. Dopo il debutto con il vibrante singolo “Quitter's Raga” su Make Mine, è stato un susseguirsi di pubblicazioni minuscole (fra cui l'ennesimo singolo “You” su Notown) oltre all'incessante attività da remixer per nomi come Telepathe, Bloc Party, Simian Mobile Disco e The Field.

Il passo dagli esordi al primo disco è breve. Pubblicato in collaborazione fra Notown e Ghostly International, “Lucky Shiner” è un compendio di elettronica moderna, perfettamente calato in un'era di sfrenato post-modernismo. Scardinando ogni schema, il disco viaggia spedito disorientando l'ascoltatore con un approccio alla composizione decisamente schizofrenico e movimentato. Si ha la sensazione che Gold Panda abbia espresso solo in minima parte il suo potenziale tale è la deliziosa confusione che regna all'interno della sua prima prova lunga. La mancanza di riferimenti dona brio e rende “Lucky Shiner” uno spumeggiante teatrino cibernetico.

Riproposta in apertura la già citata “You” - esuberante giostrina da videogioco impazzito - si alternano senza apparente continuità stravaganze impossibili da classificare (chitarra bucolica per “Parents”, il caos irrefrenabile in “I'm With You But I'm Lonely” e la saturazione di “After We Talked”), solidi ancoraggi alla tradizione techno (stomp granitici in “Vanilla Minus”, “Snow Taxis” e “Before We Talked”) ed episodi di idm contaminata (la splendida intro eterea di “Same Dream China”, l'astrusa commistione etnica di “India Lately”). Con le restanti “Marriage” (un soffocante groviglio di synth) e la finale “You.” (geniale il loop di rullante e charleston) l'album chiude il cerchio con sfrontatezza e coraggio.

Raccolta di tracce intrise di tradizione mista a innovazione, l'album di Gold Panda promuove l'artista come punta di diamante della scena elettronica internazionale. Non uno sparuto comprimario ma talento audace e geniale, Derwin Panda ha le carte in regola per scardinare ogni certezza e mettere in crisi anche il più esigente degli ascoltatori.

P.S.: Al momento della pubblicazione di questa recensione Gold Panda ha rilasciato una compilation intitolata “Companion”, nella quale vengono raccolti quasi tutti i singoli pubblicati a inizio carriera, oltre a qualche inedito. Da non perdere per completare il percorso dell'artista.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 3 maggio 2011

Susanne Sundfor: "The Brothel" (Groenland, 2011)




Norvegia, terra fredda e ostile, la cui vita è scandita da pause interminabili e inverni severi. Oltre a questi stereotipi, pensando a certi luoghi è più interessante citare i talenti emersi dalle sue lande sperdute: dai miti dream-pop Bel Canto, ai Royskopp, fino alle sensazioni di nicchia quali Flunk, White Birch e Alog. Non è ben chiaro quale sia il fattore che spinge tantissimi giovani nordici a intraprendere la carriera da musicisti, tuttavia è palese che l'ispirazione da quelle parti è decisamente sopra la media.

In questo calderone entra di diritto anche Susanne Sundfør. Nata e cresciuta a Haugesund, in un'idillio di mare e natura, la ragazza conduce un'infanzia e un'adolescenza ordinaria. Fra lezioni di piano e i dischi del padre (le leggende synth-pop a-ha e Cat Stevens), la sensibilità si forma in un inconsapevole processo di maturazione sia umana che artistica.

Dopo due prove relativamente normali come l'esordio omonimo del 2007 e “Take One” del 2008, la nascita di “Brothel” segna nella carriera di Susanne un punto di svolta cruciale. Presa la decisione di fare della musica un mestiere di vita, arriva la possibilità di registrare il disco con il supporto di uno stuolo di professionisti, un profondo cambiamento rispetto al lavoro domestico delle due precedenti opere. Assoldato Lars Horntveth (storico componente dei Jaga Jazzist) in sede di produzione e composizione, l'album fiorisce dalle mani e dalla mente della Sundfør con un'intensità espressiva raggelante. Paragonabile in questo senso all'esordio di Soap&Skin di due anni fa, “The Brothel” è un contenitore di emozioni esplosivo, non un'opera cantautorale in senso stretto, quanto piuttosto una raccolta di canzoni diverse l'una dall'altra, contraddistinte da una forte impronta caratteriale. La voce, un'ugola capace di coprire cromature fra le più inusuali, ricorda il lirismo incantato della sua conterranea Anja Øyen Vister, cantante dei già citati Flunk.

Variando lo stile dallo schema della ballata pianistica ombrosa, fino all'electro-pop martellante, le dieci tracce toccano vette di assoluta passionalità. Dove docili note di tastiera sono l'unico decoro alle linee vocali (gli splendori dream-pop della title-track, oltre che la finale “Father Father” e “O Master”) un'atmosfera rarefatta si impossessa della scena, miscelando perizia e trasporto istintivo con naturalità. L'alternanza di tonalità permette all'opera di non cedere mai il passo alla distrazione, proponendo staffilate metalliche industrial-pop (“Lilith”), orge electro (il beat prepotente di “It's All Gone Tomorrow”, l'ariosità malsana di melodie traviate in “Lullaby” e “Turkish Delight”), e nenie dark dalla deliziosa ambiguità (lo strumentale “As I Walked Out One Evening”, i timpani tuonanti in “Knight Of Noir”).

Affascinante e seducente musa nordica, Susanne Sundfør rompe ogni cliché compositivo e mette insieme un album sorprendente, del tutto estraneo a schemic e categorie. Ennesimo talento sbocciato dalle parti del Mar Nordico, la norvegese lascia da parte la misura, riversando tutta se stessa, anima compresa, in un terzo album che sarà difficile dimenticare.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 18 aprile 2011

The Adventure: "Lesser Known" (Carpark, 2011)




Autore nel 2008 di un simpatico disco di 8-bit music, l'americano Benny Boeldt pubblica il suo secondo album dopo un intenso periodo di live. In giro per l'America e il mondo, presentando il suo materiale e come componente fisso della band dell'amico Dan Deacon, il giovane musicista trova il tempo per ideare nuove vie stilistiche dopo il divertissement dell'esordio.

"Lesser Known" è un puro disco synth-pop. Abbandonate le strutture scheletriche, i synth e le drum-machine si uniscono in un florilegio di melodie generose, voci secche e ritmi danzerini. Nonostante la sincera passione infusa in un disco tutt'altro che sciatto, la qualità del risultato è decisamente incostante. Armonie spesso troppo opulente e di cattivo gusto (pathos quasi euro-pop per "Open Door" e "Another World") sono compensate da trovate di sicuro interesse come il beat metallico di "Feels Like Heaven", la coda elettrizzante in "Electric Eel" o le digressioni robotiche per "Relax The Mind". Il resto si assesta su una discreta rivisitazione dei migliori Ultravox, con canzoncine di sicuro impatto (autentico profumo eighties per "Smoke And Mirrors", "Rio" e "Meadows").

Carino, colorato e frizzante, "Lesser Known" pecca sul lato della personalità, dimostrando solo buone doti di rielaborazione e scarsa originalità. Tuttavia quasi tutte le canzoni funzionano egregiamente e dunque il disco è parzialmente promosso a patto che in futuro vengano inseriti elementi di novità.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 3 aprile 2011

Obsil: "Vicino" (Psychonavigation, 2011)




In un inarrestabile processo di sviluppo, il compositore senese Obsil prosegue la sua carriera dopo circa sei anni dall'esordio "Points". Confermate le impressioni positive con l'ottimo "Distances", Giulio Aldinucci arriva al terzo album con la consapevolezza di un veterano.

Attraverso l'utilizzo di toni più dimessi rispetto al passato, Obsil assesta la sua cifra stilistica su un'avanguardia educata, colorata, scintillante e mai eccessiva nei suoi ceselli di diafane melodie campestri. Quello che più risalta è l'animo del compositore, fortemente legato a una terra rigogliosa e spartana, che le melodie e i suoni incastonati lungo tutte le nove tracce rispecchiano da un punto di vista tanto sonoro quanto umano. La capacità di trasporre le atmosfere di una vita solcata da ritmi lenti e impassibili dona alla musica di Obsil una magia incantata, trasportando l'ascoltatore con semplice schiettezza.

Adagiato su un letto di calma serafica, “Vicino” non contiene un attimo in cui la tensione emotiva ceda il passo alla noia, fra tenui cromature invernali e un tocco di malinconia conclusiva.

Nenie brumose, pervase da una forza quasi primordiale, splendono in un inizio stellare (le ombre mistiche del trittico d'apertura), ricami finemente intarsiati si fondono con solennità ambient (il ritmo commovente di “Lenti Silenzi”, la conclusiva “Unseen”, il sapore artigianale di “Pendii (Siena, metà gennaio)”). La componente improvvisata non lascia mai del tutto la struttura delle composizioni, di volta in volta orrorifiche (“Nebbie d'ottobre”), delicate (“Drawing A Face”), caotiche e impacciate (sapori indie-tronici per “Snow Days At The End Of March”).

Obsil, autore di un'arte semplice e distinta, non sorprende con effetti speciali ma in "Vicino" assembla un ulteriore tassello colpendo con umiltà e senso del limite. Raggiunta una maturità sufficiente per tentare il salto di qualità con maggiore ambizione, l'artista toscano merita l'ennesimo plauso per la sua musica, gioiello di fattura nostrana mai valorizzato fino in fondo.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Sanso-Xtro: "Fountain Fountain Joyous Mountain" (2011, Digitalis)



Si erano di fatto perse le tracce di Melissa Agate, fin dai tempi in cui il debutto del suo progetto solista Sanso-Xtro aveva fatto la sua comparsa tra le prime uscite della Type Records.

Da allora sono passati ben sei anni, nel corso dei quali l'artista australiana è tornata nella sua terra di origine, senza tuttavia abbandonare il gusto per una composizione musicale incentrata su un melange tra suoni acustici e analogici, destinato a creare il substrato per tremule melodie e saltuarie incursioni vocali.

Così, sotto la sapiente supervisione di Lawrence English, prende finalmente forma "Fountain Fountain Joyous Mountain", testimonianza dell'attuale stato dell'arte della Agate che, nel corso dei trentacinque minuti di durata dell'album offre libero sfogo a un universo sonoro in perenne movimento ed espansione, nel quale convivono fragili iterazioni acustiche, giocosi polimorfismi al rallentatore e sonnolente cadenze jazzy. Nell'incontro tra synth, melodion, armonica, kalimba, chitarra e percussioni casalinghe, la Agate cesella un pullulare (micro)cosmico di frequenze ipnotiche, in grado di materializzare ora liquidi spettri, ora un desolato romanticismo, ora stratificazioni incardinate in via incrementale, a creare paesaggi alieni, compassati ma percorsi da una serie pressoché infinita di note, fremiti e detriti sonori il cui graduale sviluppo non sfocia tuttavia mai in trame dai contorni compiuti e definiti.

In un lavoro decisamente più improvvisato e meno strutturato rispetto al precedente "Sentimantalism", la Agate riversa la stessa sapienza a livello di composizione senza con ciò riuscire a infondere l'identica magia del suo esordio. Nonostante i paesaggi sonori posseggano un forte pathos, la coesione dei suoni si perde senza un'identità precisa. Fra accenni di folk improvvisato, glitch, jazz e musica elettro-acustica, riuscire a definire il preciso intento dell'artista australiana è un compito arduo. La durata decisamente contenuta dona all'album un tocco di dinamicità che colma in parte le lacune, rendendo l'esperienza d'ascolto se non altro fresca e non insostenibile.

Dopo un inizio efficace e molto positivo ("Fountain Fountain" e "The Origin Of Birds" sono due gemme scintillanti), l'andamento si fa spesso martoriato con risultati indefinibili (il jazz rarefatto di "Wood Owl Wings A Rush, Rush", la confusa "Light Come, Light Go, Ghost"), mentre "Hello Night Crow" e "Observes Shadows" si abbandonano a visioni cosmiche modeste, le cui velleità sperimentali sfociano piuttosto in una piattezza analogica che pecca di autorferenzialità.

Invischiata in un groviglio di melodie amputate sul nascere, la seconda prova di Melissa Agate inciampa in un eccesso di discontinuità, convincendo a tratti e non in maniera capillare. Per recuperare il cipiglio convincente di sei anni fa, Melissa Agate dovrà concentrare il suo innato talento tornando a focalizzare la propria attenzione esclusivamente sull'interazione fra strumenti acustici e manipolazioni elettroniche, evitando di esondare in territori a lei poco congeniali.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

domenica 20 marzo 2011

Harmonious Bec: "Her Strange Dreams" (Monotreme Records, 2010)



Progetto nato e plasmato sotto le mani di due giapponesi che si fanno chiamare Za Ma Roo e From Vapor To Water, la prima uscita a nome Harmonious Bec è un prodotto che si distingue, risvegliando sensazioni sopite anni fa. Oltre alla non facile reperibilità della carriera artistica del duo, non è dato sapere i loro nomi di battesimo; l'unico indizio che abbiamo riguarda l'etichetta. La Monotreme Records, benemerita casa di produzione già foriera di talenti (Thee More Shallows i migliori), ha messo sotto contratto i due nipponici pubblicando il disco nel novembre 2010. Lanciato con grande entusiasmo e descritto con parole lusinghiere, “Her Strange Dreams” rappresenta un bell'esempio di elettronica eclettica.

Composto e intagliato con ruvida dolcezza melodica, le canzoni spaziano con apparente semplicità attraverso stili e inflessioni decisamente differenti: si passa da landscape a battuta bassa tipici della downtempo più posata, innalzando poi il ritmo con schemi drum'n'bass, fino a raggiungere i colori sfavillanti dell'indie-tronica tipicamente giapponese (aus fra tutti). Il tutto è condito da un'atmosfera giocosa e fiabesca decisamente funzionale e contagiosa, supportando una scorrevolezza che nell'economia generale dell'album trasforma i quarantadue di musica in un autentico viaggio sognante. Grazie al supporto di sapienti inserti di piano, strumenti ad arco e percussioni fra le più svariate, il quadro si completa con un esaustivo panorama di tutto ciò che il gruppo è capace, dimostrando fantasia, incanto poetico e ispirazione.

Dove fascinose pennellate downtempo (le cromature buie di “Giantland”, la sferzante malinconia di “Falling Ash Plume” e “Arms Girl”) sono serafiche esposizioni sonnolente, altrove i toni sbocciano in un arcobaleno di colori e sfumature, fra esplosioni di archi impazziti (l'incontenibile frenesia di “Funny Hierophant”), manipolazioni indie-troniche (i microritmi in “In The Bright Oval”, gli incastri asfissianti di “Planets”) e orge di ritmo senza freni (il drum'n'bass “Progess” fra flussi vocali ectoplasimici). Lo strumento principe è spesso il piano, cardine di alcuni fra gli episodi più positivi. Le dolci nenie “Shunral” e “Cryptomeria Rain”, senza eccedere in retorica figurativa, hanno una forza empatica tale da raffigurare pomeriggi piovosi al tramonto di un paesaggio tipico del Sol Levante. Con uno strambo tentativo di hip-hop disgregato (forse eccessivo l'assalto di “Solitary Bonze Prayer”), l'album si conclude con una suite dal sapore jazzato (sei minuti mai domi per “Asahigaoka”).

Con un esercizio di poliedricità ammirabile, gli Harmonious Bec hanno sfidato la sorte con un album coraggioso e ambizioso. Premiati per larghi tratti con una solida promozione, il loro lavoro trasuda passione e un'encomiabile voglia di sperimentare.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 17 marzo 2011

Sandwell District: "Feed-Forward" (Sandwell District, 2010)



Function e Regis, rispettivamente David Summer e Karl O'Connor, sono attivi nel sottobosco techno da circa quindici anni. Produttori, compositori, remixer, fondatori di un'etichetta. Fin dagli albori della carnalità techno i due hanno tracciato linee parallele creando un fenomeno sotterraneo, mescolando passione viscerale e un rispetto quasi religioso per la perfezione dei propri suoni. Fin da prodotti come “Gymnastics” (a nome Regis, 1996), o il 12” "Ulterior Motives" pubblicato con il moniker DMO (1998), i due si sono distinti per una peculiare fusione di techno granitica, influenze di ambient stellare e un gusto per il ritmo sopraffino. Ad alimentare ulteriormente il culto, dal 2002 inizia l'avventura dell'etichetta omonima con prodotti di rara qualità, che ben presto la rendono un autentico punto di riferimento per tutti gli appassionati. La casa di produzione può annoverare fra i suoi artisti gente come Silent Servant e Female (magnifico il suo “Angel Plague” del 1999).

Dopo anni di silenzio discografico in termini di uscite in senso classico, giunge sul mercato “Feed-Forward”. Pubblicato in Inghilterra nel dicembre 2010: il disco richiama una tale attenzione da risultare immediatamente esaurito in pre-order praticamente ovunque. Album eclettico e dal fascino innegabile, l'opera del duo Regis & Function (aiutati a quanto pare dagli stessi Silent Servant e Female) mette in mostra un pudore quasi clericale nel giustapporre le melodie e la potenza del suono - mai esplosione sonica fine a se stessa - che bilancia l'insistenza martellante della drum machine con il pullulare di reminiscenze ambientali, a loro volta mai cristallizzate in una stasi solamente estatica. La sensazione che si prova ascoltando “Feed-Forward” è quella di avere davanti un'essenza unica e indivisibile, difficilmente analizzabile per porzioni, impossibile da spacchettare come una costruzione stratificata.

L'impatto imponente delle strategiche tre parti di “Immolare” - candida e serafica nelle estremità candite di delicatezza ambient - inietta fervore inusitato nelle sezione centrale come raramente capita di sentire. Rarefatta, dolorosa, sanguigna, “Immolare” è un inno macabro all'arte techno. Proseguita la strada con meccanismi timbrici la cui provenienza terrestre è tutt'altro che ovvia (l'assalto cosmico di “Grey Cut Out”, frequenze cibernetiche fuori controllo per “Hunting Lodge”), l'album, nonostante uno sviluppo graduale e tacito, cade in un mutismo rarefatto e scintillante. Fra suite ambient-techno pregiatissime (l'ariosa spazialità in “Falling The Same Way”, i puntuali rintocchi di “Svar”), tastierismi colorati e vivaci (i virtuosismi mai sciatti di “Speed + Sound (Endless)”), abissi nerissimi leggermente rinvigoriti da scosse telluriche (la malinconica assenza di melodia in “Double Day”). Concretizzata la definitiva deriva silente (sbuffi cosmici in “Untitled A”, particelle noise per “Untitled B”), il disco sfila via con un tono tagliente.

Ispessito da una cura complessiva al limite dell'umana perfezione, “Feed-Forward” travalica il semplice compito ben fatto andando al di là di ogni aspettativa. Definitivamente proiettati in un limbo che sa di epopea mitica, Sandwell District hanno nel destino la capacità di sorprendere, magnificata con opere talmente fuori controllo da risultare vive e pulsanti.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

Oval, 04/03/2011 @ Fosfeni, Cascina (PI)



Tornato a deliziare i palati più raffinati in materia di elettronica sperimentale, Markus Popp ha ben pensato di organizzare un tour in tutto il mondo per presentare il suo nuovo materiale. Dopo il ritorno commovente con “O”, la curiosità di testare la resa dal vivo di quei piccoli bozzetti era elevata. Il contesto del suo ritorno è in questo caso La città del Teatro, centro culturale immerso nelle campagne pisane di Cascina. All'interno del pregevole festival di musica elettronica Fosfeni, nel cui programma si annoverano nomi come Ben Frost e Filastine, Oval arriva in una fredda serata di marzo con un palco minimale: sopra una scrivania trovano posto il suo laptop, un mixer, alcuni distorsori, oltre alla presenza di visuals decisamente essenziali.

Dopo una timida presentazione della perfomance, Popp inizia a mandare in circolo le sue creazioni pescando a casaccio da “O” con sapienza e passione, mettendo a disposizione del pubblico tutta l'atmosfera intima e personale apprezzata in sede di ascolto discografico. Nonostante le sue variazioni siano pressochè inesistenti, il piacere di ascoltare pezzi come “Ah!” con un impianto stereofonico professionale è davvero sorprendente. La sua prova è un atto di amore verso la sua musica, una deliziosa condivisione reciproca, una concessione di un'ora e mezzo capace di far splendere gli altoparlanti fino all'inverosimile. I timbri e le melodie risuonano gentili creando un flusso intervallato da pause che sono un semplice silenzio fra una traccia e l'altra, un po' come succedeva su disco con la differenza che l'ordine delle tracce era differente. Il fatto che la modifica della sequenza con cui sono eseguite le tracce non abbia inficiato il risultato finale, dimostra come queste composizioni abbiano una magica versatilità completamente slegata da fattori esterni.

Dopo la prima parte di concerto fatta di musica incantata, con passo religioso e impacciato, Markus Popp si allontana con un saluto minimale. Acclamato da un pubblico non numeroso ma molto riconoscente, il ritorno sul palco è l'occasione per colmare alcune lacune nella scaletta. Per ovvi motivi di tempo non tutte le settanta tracce di “O” troveranno spazio all'interno dello spettacolo, tuttavia la mistica suggestione evocata sarà identica e profondamente autentica.

Leggenda e pioniere di tutta la corrente glitch, mentore di una schiera infinita di musicisti a lui debitori, Oval con semplicità ed umilità encomiabili impacchetta uno show essenziale, raccolto, discretamente sviluppato e non frettoloso, dimostrando un'onestà intellettuale e un acume tipico di chi ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica.

domenica 20 febbraio 2011

Aoki Takamasa: "Fractalized" (Commons, 2010)



Autore negli anni di una techno storta e mutante, Aoki Takamasa torna dopo qualche anno di quiescenza con una prova ambiziosa e variegata. L'abilità del giapponese nell'approfondire il suono techno applicato a vari contesti è sempre stato un punto di forza, capacità che l'ha spesso catapultato alla ribalta come fine ricercatore e professore del ritmo. In questo caso il suo intento è un processo di rivisitazione che coinvolge pezzi propri e composizioni altrui. Aoki attinge a piene mani dal catalogo sterminato del trio Yellow Magic Orchestra, fra cui alcuni episodi singoli del front-man Ryuichi Sakamoto.

Merito di un'atmosfera ombrosa e asfissiante, “Fractalized” alterna magistralmente ritmi, melodie e distensioni con maestria inattaccabile, dimenticando quasi per un attimo di non essere propriamente un album ma bensì una raccolta di brani. Fra accenni techno, glitch, pop e IDM, il campionario di stili e suoni spazia e garantisce tenuta qualitativa e di tensione, congegnando la sequenza di brani senza cali o distrazioni. Sperimentazione fuori dai canoni della normalità, tipicamente certosina e puntigliosa come vuole la tradizione nipponica, ai limiti della perfezione e forse un po' asettica. Nota positiva nell'uso della voce, orpello di enorme funzionalità.

Mescolando ritmi robot-pop onirici e dissonanti (l'iniziale “Rescue”,  fra voci dream-pop e stomp ovattati, l'ugola angelica di Tujiko Noriko in “Love Bytes”) l'insieme sprigiona un fascino urbano, mentre nei frangenti più astratti, il tono è solenne e quasi distaccato (le disfunzioni circuitali di “Ascary Dry Condition”, la saturazione noise della title-track). Quando Takamasa mette le mani sulle melodie di Sakamoto e soci si denota una quiete accogliente che, seppur mescolata a una serie di contrappunti gelidi e meccanici, dona un piacevole senso di dolcezza (il carillion tuttosommato delicato di “Mars”). A metà fra spoken-word e techno-pop irrefrenabile, il disco scorre con frenesia (i pattern vocali di“War & Peace” vedono la collaborazione di Arto Linsday ai testi), morbosità (gli ectoplasmi pianistici in “Composition 0919”) e candore indifeso (ancora la Noriko nella crepuscolare “Music For Sweet Room On The Orbit Of The Earth”, le increspature ambient della finale “Re-Platform”).

Album trasversale e dalla versatilità sorprendente, “Fractalized” mette in risalto le qualità di Aoki in veste di compositore e remixer. L'attitudine all'adattamento giova a nove canzoni tese, nervose, vivissime. Senza cadere mai in una monotonia sonnolenta, l'artista riesce a catturare l'attenzione con cambi di registro, le parole dette e non dette, la professionalità che si fonde con la passione.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 13 febbraio 2011

Caroline: "Verdugo Hills" (Temporary Residence, 2011)



Caroline Lufkin, sorella della pop-star giapponese Olivia, nata a Okinawa ma formata  in America in un college di Boston, torna con un album nuovo di zecca dopo ben cinque anni dal suo esordio “Murmurs”. Splendido affresco glitch-pop dal candore fragilissimo, quella prima prova metteva in mostra doti di pregio assoluto. Misticanze zen, voce delicata, intrecci strumentali gentili e quel fascino un po' da fatina dei boschi. Il lasso di tempo trascorso da quel periodo include un'attività assidua con gli amici Mice Parade, con cui ha collaborato sia in sede di performance live, sia in studio nel loro ultimo album “What It Means To Be Left-Handed”.

Nonostante l'impegno profuso per seguire la band in tutto il mondo, la compositrice nipponica non ha trascurato le sue ambizioni soliste. In “Verdugo Hills” traspare una passione contagiosa per la sua musica, un attaccamento capace di trasferire al risultato un impeto emotivo realmente travolgente. Lo stile compositivo ricalca la scia di molte sue colleghe (Piana, Gutevolk, Moskitoo), coniugando una struttura melodica scheletrica (spesso sostenuta da alcune note di tastiera) con un contorno mai casuale di percussioni (xilofono per lo più), field recordings o synth di varia natura. La voce, spesso flebile sussurro impercettibile, è il perfetto anello di congiunzione e il completamento di quadretti che paragonare a dei bonsai è fin troppo banale. Belli e discreti gli inserti di drum machine, battiti mai invadenti e funzionali allo svolgimento dimesso.

La variazioni sul tema sono spesso impercettibili, relegate all'uso di una tromba (la vivida “Snow”) o della batteria suonata (gli sbuffi di ritmo in “Sleep”); d'altro canto in un album simile i punti forza non sono tanto la varietà o i cambi di registro, quanto la capacità di creare un'atmosfera tale da rapire l'ascoltatore per tutta la durata del disco. Musica sicuramente fuori moda, non di primo impatto e decisamente appartata, tuttavia una tale profusione di tatto è efficace e può andare a segno anche con chi non è abituato a certe soluzioni stilistiche.

Forse meno zuccheroso e più astratto del suo predecessore “Murmurs”, “Verdugo Hills” prosegue un progetto ben preciso di pop leggiadro, umbratile, perfino indifeso. Gli sviluppi graditi sarebbero la svolta più cantautorale o l'aggiunta di polpa strumentale, in ogni caso a oggi plaudiamo un album che ha seriamente le carte per catturare l'attenzione di ascoltatori fra i più disparati.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana