sabato 17 febbraio 2007

Valerie Leulliot: "Caldeira" (Le Village Vert, 2007)



















la cantante degli autour de lucie il 19 febbraio esce con un suo album.

da quest'estate, quando scoprii quasi per caso la band di appartenenza di valerie, il mio amore per gli autour de lucie è aumentato progressivamente. sopratutto per "Faux Movements", esattamente ciò che mi serve quando mi sento triste.

ora c'è Caldeira. c'è pure Sébastien Lafargue, il batteristia tuttofare degli autour de lucie.

come per quanto già ascoltato in passato, ciò che balza subito all'attenzione è la voce di Valerie. se in passato certe trovate melodiche e strumentali offuscavano leggermente (ma poco, eh) la vera espressività delle sue parole, in queste canzoni il potenziale esplode in tutta la sua bellezza.

Mon Homme Blessé è una ballata simil-country solcata da percussioni inusuali, suoni piccoli per una canzone piccola e adorabile.

L'eau du Gange si barcamena intorno a una serie di accordi di chitarra impietosi e strascicati, a cui si aggiungono piccoli arpeggi sognanti presi a braccetto da un'armonica, di fatto mettendo insieme una perfetta canzone pop. sì, semplicemente pop, semplicemente splendida.

l'intromissione di un piano malinconico nella title-track inietta sensualità alla voce di valerie, dove le chitarre quasi post-rock in sottofondo danno un senso di "sogno", le parole recitate quasi come una poesia, fan fermare il cuore.

La successivva Au Virage vede l'arrivo di una batteria elettronica, senza contare un batttito di mano concitato. I cori femminili con un :"uhhhh-uhhhhh" danno una marcia in più, intrecci percussionistici completano un'altra perla. e siamo soltanto alla numero 4.

L'atmosfera si fa plumbea e flemmatica in Falaises, senza rinunciare a un pizzico di tensione emotiva, la struturra si riduce a poco più che niente nell'essenziale, tutt'altro che scontata, Un Point De Chute.

Un Endroit è forse il pezzo più bello della raccolta.

il piano, già in precedenza menzionato per il tatto con cui viene suonato, si avvale dell'aiuto ritmico di una drum-machine soffice, lo xilofono, mai così bello, splende con i suoi rintocchi puntuali. Poi, sibili elettronici, squarci melodici, cesellano qualcosa che, unito al cantato fracense, sembra volerci comunicare qualcosa di puro e rassicurante.

Dopo questo colpo diretto al centro delle nostre paure, ci vuole un po' di spensieratezza. Sembra proprio messa al posto giusto, la canzoncina successiva. L'amour Désormais splende fra un'armonica classicheggiante, sembianze country, pregevoli arrangiamenti strumentali.

Se la solenne lentezza di Un Coeur Gelé può lasciar intorpiditi da un freddo pungente, Rien De Grave risolleva leggermente il tono sommesso del disco.

Il finale, affidato a Pyromane, si staglia su un suono che dondola, non ha consistenza, smette di palpitare per poi tornare con un sussulto elettronico, ma pur sempre tenue.

se emilie simon, giusto l'anno scorso, aveva affermato la validità del cantautorato francese con tendenze pop, valerie conferma, ammalia, incanta.

sabato 10 febbraio 2007

Last Days: "Sea" (n5MD, 2006)


















Alle volte capita, quando si è veramente innamorati della musica, di imbattersi in storie strane, affascinanti, ammalianti. L’orecchio (e la mente) vengono attratti inesorabilmente e, talvolta, liberarsi, è terribilmente difficile. Un mucchio di canzoni che stanno esattamente sul palmo di una mano, una mano in cui la luce riflette, magari proprio davanti a una spiaggia, quella in cui inizia (o si conclude) il mare a cui si riferisce il titolo di quest’opera.

Graham Richardson è pressoché uno sconosciuto, questa sembra la sua prima incisione. Parla del suo album come di un viaggio. La fascinazione per gli orizzonti remoti e isolati, l’idea di un itinerario incantato, la brillantezza di un sole che distrugge ogni dubbio. La voglia di intraprendere un percorso senza meta, senza partenza, senza scopo. Il bisogno di fuggire dagli aspetti terribili (e terrificanti) della propria vita per raggiungere un’esistenza all’apparenza migliore, fuori da ogni dolore e sofferenza. La disillusione finale, il ritorno alla realtà, la consapevolezza che ogni inizio ha sempre una fine. I temi che caratterizzano ‘Sea’, intrisi in ogni nota, sono la solitudine, il disagio, il disincanto, la necessità di fuggire. La speranza, una manciata di speranze accartocciate negli scompartimenti più desolati dell’anima, riesumati per l’occasione giusta.

L’album è un tenero sciogliersi di trame pianistiche contorniate da trattamenti elettronici soffici e flebili, appena solcati da un ritmo minimale, piccolo, a tratti inesistente. Se da lontano, come se fosse tutto difficile da capire, pare di sentire qualcosa di noto, un piccolo suono distoglie l’attenzione, quasi a volersi prender gioco dei nostri sensi. Partendo da un immaginario mondo digitale, l’aspetto (e la controparte) umana viene rappresentata da un incetta di strumenti classici, dalla suadente chitarra, al solenne glockenspiel, fino a giungere alle scorbutiche percussioni.

L’introduzione, come da programma, riguarda ciò che abbiamo da dire all’inizio di un viaggio. Le spiegazioni che nessuno mai capirà, le lacrime che mai nessuno riuscirà a ricordare. Le parole, si sperdono inesorabilmente fra un tripudio di sibili glaciali, quando pensano di ritornare, verso la fine, gesticolando disperse. Il titolo, giusto per ribadire, è “Leaving Home”.

Prosegue, con la calma di un mare sul termine del tramonto, la splendida “The Safest Place”. Note di piano centellinate, la cui cassa di risonanza si spande con profondità, una chitarra già alza il tono emozionale, estenuando gli occhi, il cuore, ogni sentimento malinconico possa esser concepito viene a galla. Prosegue placida, lo sgretolarsi dell’armonia è progressivo, i timbri via via si fanno più rarefatti, disgregati, sfaldati. Le fine, è il trionfo di un silenzio dalle sembianze fuori dal tempo.

Uno stralcio di melodia scarabocchiata nella notte, le tensioni di un gelo sferzante, movimenti turbolenti e distrutti, quasi dei suoni accennati ma mai portati a termine. “Two Steps Back” si struttura con gentilezza, gira intorno a qualche accenno morbido, sprofondato nell’aria, si schianta fra rumori disturbanti, aventi l’aria di qualcosa d’estraneo. Sbatte, infine, nel solito punto d’arrivo, una quiete sorniona, una ninna-nanna per bambini troppo cresciuti.

Il percorso prosegue, si fanno largo le intemperie, ed arriva la neve. Infatti, “Snowing”, narra una musica artica, distaccata, spezzettata in fiocchi. Sì, fiocchi di consistenza immateriale, minuscoli granuli piovono dall’alto con frequente cadenza. Piccoli beat, minimamente delineati, fanno spazio ad alcuni attimi di pura desolazione.

Il cammino continua fra sembianze orrorifiche e spettri sonori (“Arriving At Jan Maymen”), gentili tappeti ambient camuffati da una patina lo-fi e xilofoni tintinnanti (“Mountains”), un ritmo che si affaccia sottoforma di canzone, completa di percussioni e andamento tuttosommato stabile, nella toccante “Your Birds”.

Ancora la notte, però questa volta è serena, c’è una luce, la si vede chiarissima in cielo. Si spande, affascina, i suoni raggi sono così lucenti che emettono un piccolo suono apparentemente udibile. “Nightlight” ha un tocco quasi commovente, soprattutto nel modo in cui si srotola, puro, vivido, impreziosita per l’ennesima volta da xilofoni mai grossolani ma sempre misurati e brillanti.

Un piccolo sapore per i sensi gustativi, nella cortissima “Saltwater”, gemme d’esecuzione pianistica, nell’essenziale intreccio dai contorni sensuali di ”I Remember When You Were Good”.

Se il mare norvegese, a quanto sembra, ispira attimi di pienezza mai riscontrati fino ad ora, con un azzeccato colloquio fra una chitarra sparuta e  una polverina elettronica, i suoni perforanti e a loro modo funerei di “Dying Minutes”, cesellano frangenti ripetitivi e sfiancanti, la cui terminazione naufraga, con un rumore concluso pochi secondi prima dell’effettiva fine.

Pare conclusa la carrellata di emozioni, almeno ci s’aspetta che le ultime due tracce siano dei compendi di valore, sì, ma non come “Fear”. E invece c’è anche lei. Forse l’unica traccia in cui la struttura compositiva è riconoscibile, con dei tratti fermi e decisi. Perciò, quando la chitarra inizia a snocciolare il proprio ritornello, tutto si tramuta in felicità, perché successivamente arrivano, solcando la paura come sfrontatezza, note di piano, timbri colorati, una percussione che ripete, senza il bisogno di essere interpretata, :”Corri, non avere paura, continua con questa cadenza”. Durante, e dopo, si aggiungono xilofoni, reticoli elettronici, deviazioni ambientali, per un risultato finale di una bellezza così autentica da non lasciar altro dentro di noi se non lo stupore e una vaga rassicurazione.

Giunti, ora sì, davvero alla destinazione, “tutti i fari” sono puntati su di noi, e il vento, si staglia flemmatico e pungente, la freddezza di un saluto ritorna in mente, il terrore dell’abbandono si ripresenta puntuale. La malinconia era il termine più adatto a un tragitto così lungo e tortuoso, pieno di difficoltà ed anche sorrisi, per un disco che, sì, si distingue, perché, come tutti sanno, non ogni storia, come lo è questa, finisce a lieto fine, visto che, in questo caso, pare non dare appigli, sicurezze, ma solo illusioni, speranze, fantasie. Ma d’altronde, la tensione è ciò che più (ci) piace.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana