Alle volte capita, quando si è veramente innamorati della musica, di imbattersi in storie strane, affascinanti, ammalianti. L’orecchio (e la mente) vengono attratti inesorabilmente e, talvolta, liberarsi, è terribilmente difficile. Un mucchio di canzoni che stanno esattamente sul palmo di una mano, una mano in cui la luce riflette, magari proprio davanti a una spiaggia, quella in cui inizia (o si conclude) il mare a cui si riferisce il titolo di quest’opera.
Graham Richardson è pressoché uno sconosciuto, questa sembra la sua prima incisione. Parla del suo album come di un viaggio. La fascinazione per gli orizzonti remoti e isolati, l’idea di un itinerario incantato, la brillantezza di un sole che distrugge ogni dubbio. La voglia di intraprendere un percorso senza meta, senza partenza, senza scopo. Il bisogno di fuggire dagli aspetti terribili (e terrificanti) della propria vita per raggiungere un’esistenza all’apparenza migliore, fuori da ogni dolore e sofferenza. La disillusione finale, il ritorno alla realtà, la consapevolezza che ogni inizio ha sempre una fine. I temi che caratterizzano ‘Sea’, intrisi in ogni nota, sono la solitudine, il disagio, il disincanto, la necessità di fuggire. La speranza, una manciata di speranze accartocciate negli scompartimenti più desolati dell’anima, riesumati per l’occasione giusta.
L’album è un tenero sciogliersi di trame pianistiche contorniate da trattamenti elettronici soffici e flebili, appena solcati da un ritmo minimale, piccolo, a tratti inesistente. Se da lontano, come se fosse tutto difficile da capire, pare di sentire qualcosa di noto, un piccolo suono distoglie l’attenzione, quasi a volersi prender gioco dei nostri sensi. Partendo da un immaginario mondo digitale, l’aspetto (e la controparte) umana viene rappresentata da un incetta di strumenti classici, dalla suadente chitarra, al solenne glockenspiel, fino a giungere alle scorbutiche percussioni.
L’introduzione, come da programma, riguarda ciò che abbiamo da dire all’inizio di un viaggio. Le spiegazioni che nessuno mai capirà, le lacrime che mai nessuno riuscirà a ricordare. Le parole, si sperdono inesorabilmente fra un tripudio di sibili glaciali, quando pensano di ritornare, verso la fine, gesticolando disperse. Il titolo, giusto per ribadire, è “Leaving Home”.
Prosegue, con la calma di un mare sul termine del tramonto, la splendida “The Safest Place”. Note di piano centellinate, la cui cassa di risonanza si spande con profondità, una chitarra già alza il tono emozionale, estenuando gli occhi, il cuore, ogni sentimento malinconico possa esser concepito viene a galla. Prosegue placida, lo sgretolarsi dell’armonia è progressivo, i timbri via via si fanno più rarefatti, disgregati, sfaldati. Le fine, è il trionfo di un silenzio dalle sembianze fuori dal tempo.
Uno stralcio di melodia scarabocchiata nella notte, le tensioni di un gelo sferzante, movimenti turbolenti e distrutti, quasi dei suoni accennati ma mai portati a termine. “Two Steps Back” si struttura con gentilezza, gira intorno a qualche accenno morbido, sprofondato nell’aria, si schianta fra rumori disturbanti, aventi l’aria di qualcosa d’estraneo. Sbatte, infine, nel solito punto d’arrivo, una quiete sorniona, una ninna-nanna per bambini troppo cresciuti.
Il percorso prosegue, si fanno largo le intemperie, ed arriva la neve. Infatti, “Snowing”, narra una musica artica, distaccata, spezzettata in fiocchi. Sì, fiocchi di consistenza immateriale, minuscoli granuli piovono dall’alto con frequente cadenza. Piccoli beat, minimamente delineati, fanno spazio ad alcuni attimi di pura desolazione.
Il cammino continua fra sembianze orrorifiche e spettri sonori (“Arriving At Jan Maymen”), gentili tappeti ambient camuffati da una patina lo-fi e xilofoni tintinnanti (“Mountains”), un ritmo che si affaccia sottoforma di canzone, completa di percussioni e andamento tuttosommato stabile, nella toccante “Your Birds”.
Ancora la notte, però questa volta è serena, c’è una luce, la si vede chiarissima in cielo. Si spande, affascina, i suoni raggi sono così lucenti che emettono un piccolo suono apparentemente udibile. “Nightlight” ha un tocco quasi commovente, soprattutto nel modo in cui si srotola, puro, vivido, impreziosita per l’ennesima volta da xilofoni mai grossolani ma sempre misurati e brillanti.
Un piccolo sapore per i sensi gustativi, nella cortissima “Saltwater”, gemme d’esecuzione pianistica, nell’essenziale intreccio dai contorni sensuali di ”I Remember When You Were Good”.
Se il mare norvegese, a quanto sembra, ispira attimi di pienezza mai riscontrati fino ad ora, con un azzeccato colloquio fra una chitarra sparuta e una polverina elettronica, i suoni perforanti e a loro modo funerei di “Dying Minutes”, cesellano frangenti ripetitivi e sfiancanti, la cui terminazione naufraga, con un rumore concluso pochi secondi prima dell’effettiva fine.
Pare conclusa la carrellata di emozioni, almeno ci s’aspetta che le ultime due tracce siano dei compendi di valore, sì, ma non come “Fear”. E invece c’è anche lei. Forse l’unica traccia in cui la struttura compositiva è riconoscibile, con dei tratti fermi e decisi. Perciò, quando la chitarra inizia a snocciolare il proprio ritornello, tutto si tramuta in felicità, perché successivamente arrivano, solcando la paura come sfrontatezza, note di piano, timbri colorati, una percussione che ripete, senza il bisogno di essere interpretata, :”Corri, non avere paura, continua con questa cadenza”. Durante, e dopo, si aggiungono xilofoni, reticoli elettronici, deviazioni ambientali, per un risultato finale di una bellezza così autentica da non lasciar altro dentro di noi se non lo stupore e una vaga rassicurazione.
Giunti, ora sì, davvero alla destinazione, “tutti i fari” sono puntati su di noi, e il vento, si staglia flemmatico e pungente, la freddezza di un saluto ritorna in mente, il terrore dell’abbandono si ripresenta puntuale. La malinconia era il termine più adatto a un tragitto così lungo e tortuoso, pieno di difficoltà ed anche sorrisi, per un disco che, sì, si distingue, perché, come tutti sanno, non ogni storia, come lo è questa, finisce a lieto fine, visto che, in questo caso, pare non dare appigli, sicurezze, ma solo illusioni, speranze, fantasie. Ma d’altronde, la tensione è ciò che più (ci) piace.
(7,5)
recensione di Alessandro Biancalana
recensione di Alessandro Biancalana
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