domenica 15 dicembre 2013

The Uncluded: "Hokey Fright" (Rhymesayers Entertainment, 2013)
















Non è il caso di perderci fiumi d'inchiostro nello spazio di una recensione, ma davvero sarebbe il caso di chiedersi seriamente il perché certi album non godano dell'hype che sulla carta meriterebbero. Accadde già nel 2011, quando Kimya Dawson, a suo tempo fin troppo osannata per l'avventura con i Moldy Peaches e poi divenuta un culto indie internazionale con la colonna sonora di "Juno" (che le fruttò anche tanti bei soldini), pubblicò il suo disco più bello, "Thunder Thighs", nell'indifferenza generale. Ora, non è che alla logorroica cantautrice post-hippie sia mai importato alcunché delle luci della ribalta, però il suo ritorno in pista dopo "Juno" era molto atteso e il disco bellissimo. Magari è un problema legato alla predominanza dell'elemento lirico, che quindi la rende poco appetibile al di là dei confini anglofoni, fatto sta che per lo meno nel Belpaese di quel disco non si accorse quasi nessuno.

Peccato, perché tra l'altro nasceva esattamente in una mezza manciata di tracce di "Thunder Thighs" la collaborazione tra il folletto antifolk Kimya e il (troppo in fretta) dimenticato rapper Aesop Rock. Uno spilungone bianco con una voce nerissima che al principio del nuovo secolo aveva fatto la sua parte per impreziosire il catalogo Def Jux di El-P, imponendolo come uno dei marchi fondamentali per capire l'ultima rivoluzione underground dell'hip-hop. Una rivoluzione che in parte cospirava proprio nella direzione di un avvicinamento alle frange più intellettuali dell'universo indie. Il matrimonio artistico fra Kimya ed Aesop Rock era quindi perfetto sulla carta ma non troppo facile da immaginare nel concreto: così "bianca", spedita e naif la musica di lei; così black, torbida e "pesante" quella di lui. Eppure il terreno della scansione linguistica del rap (o magari dello scioglilingua...) era un primo elemento di contatto fra due musicisti che degli steccati stilistici e delle politiche di "genere" non hanno mai saputo che farsene. Quindi, dato che l'esperimento sul disco di Kimya funzionava, perché non farci una vera e propria band? Fu così che nacquero gli Uncluded...

“Hokey Fright” è tanto particolare quanto dal destino incerto. Perfetta fusione fra stilizzazione folk e strutture rap/hip-hop, il disco rischia di scontentare tutti o di piacere a chiunque. Potrebbe essere troppo morbido e delicato per i fan del rap, eccessivamente contaminato per i puristi della musica voce e chitarra. Tuttavia è difficile rimanere indifferenti alla dolcezza degli episodi in cui la spensieratezza del piglio di Kimya prevale come in “Delycate Cycle” (accompagnata da un bellissimo video di lancio), come nei casi in cui gli spigoli di Aesop la fanno da padrone (la scura “Tv On 10”, il magma di parole di “Bats”). Magnifico il flow di “The Aquarium”, capolavoro di lirismo e ritmi come nella migliore tradizione rap, seguito dalla struggente e gracile favoletta adolescenziale di “Teleprompters” in cui Kimya mette nero su bianco una delle sue più belle canzoni mai scritte. Il disco si dilunga e presta il fianco al minutaggio con qualche riempitivo sopratutto sul finale (”Wyhoum”, “Tits Up”), tuttavia la lunghezza sostenuta risulta funzionale a raccontare e far comprendere meglio che cosa sono gli Uncluded. Difficile dire se sia un progetto più di Kimya o di Aesop Rock, fatto sta che l'equilibrio delle due parti è quasi perfetto, ed entrambi riescono a calarsi perfettamente nelle parti dell'altro, adattandosi magnificamente ai tempi del folk e quelli dell'hip-hop. Non stride per niente sentire il rapper bianco sputare sentenze sorretto solo da alcuni arpegghi di chitarre, come del resto non è fuori luogo la voce eternamente adolescenziale della ragazza riccioluta attorniata da ritmi up-tempo.

In virtù di tutta questa sfrontatezza e novità resta appunto da vedere come procederà il duo, se sarà la solita esperienza one shot o se le idee sono un po' più strutturate e a lungo termine. A prescindere da ciò, “Hokey Fright” resta un album divertente, efficace e vagamente innovativo. Probabilmente rimarrà pieno di polvere in molti degli scaffali in cui è stato esposto, tuttavia a noi resta la sensazione che tutto ciò è davvero ingiusto.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Federico Savini

mercoledì 4 dicembre 2013

Close: "Getting Closer" (!K7, 2013)



 












Era da molto tempo che l'uomo dietro la Simple Records (Ian Pooley e Motocitysoul hanno pubblicato qui) non usciva con materiale nuovo, prendendo una breve pausa dal suo lavoro di boss discografico e DJ. Inglese di nascita (Glastonbury), produttore, disc jokey e reclutatore di talenti, discograficamente ha lasciato ai posteri diversi 12” con il sodale Tam Cooper nel biennio 2007/2009 e un discreto album solista “Space Between” datato 2005, minestrone di dub, techno e broken-beat. Si è sentito parlare pochissimo di lui, le sue produzioni, nonostante siano di discreta se non ottima qualità, hanno avuto poco clamore e dunque questo suo ritorno ha suscitato uno scarso interesse sulla piazza del mercato discografico.

Il progetto Close prevede in primis la collaborazione della vocalist Charlene Soraia (bello il suo “Moonchild” del 2011), del musicista reggea Tikiman e di Fink (artista di casa Ninja Tune) includendo dunque dei pezzi cantati, oltre agli strumentali di contorno. L'album, intitolato “Getting Closer”, prevede un classico, seducente ed efficace meticciato electro capace di assorbire varie tendenze elettroniche. Se negli episodi con supporto vocale siamo sempre in perfetta sintonia fra trip-hop, synth-pop e house, nel resto delle tracce techno, downtempo e broken-beat animano  tracce ispirate, contenenti bei suoni, mai sconvolgenti ma sempre sopra una media qualitativa invidiabile.

Quello che fa di “Getting Closer” un disco pregevole è però anche e soprattutto una qualità affatto scontata nel genere, la capacità di incasellamento, di patchwork, di stimoli tanto disparati in un insieme fluido e compatto. Will Saul si dimostra in questo una vecchia volpe di prima classe: mano lucida ed elegante, evita gli strafacimenti, gli effetti facilotti e le accozzaglie, sa quando è il momento di cambiare marcia mantenendo sul complesso una chiara visione d’insieme. Così si può pensare a “Getting Closer” come a un piacevolissimo tappeto omogeneo in cui trovano posto il dream-synth-pop di “I Died 1000 Times”, lo splendido future-dub di “Born In A Rolling Barrel”, i sentori downtempo di “Cubizm” (si può pensare al recente Bonobo) l’audace “Time Fades”, riuscita commistione tra house music e certi esperimenti à-la Burnt Friedman fino allo stiloso house-pop di “Beam Me Up”.

“Getting Closer” è uno di quei dischi che in qualche modo riescono a conquistarsi con discrezione un posto particolare nel cuore dell’ascoltatore, non ruba mai del tutto la scena ma non fa neppure da tappezzeria, scorre con morbidezza alzando i toni ai momenti opportuni.
Per Will Saul, ad oggi, la sua opera più riuscita.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo

domenica 1 dicembre 2013

Psapp: "What Makes Us Glow" (The State51 Conspiracy, 2013)

Autori di uno stile unico e riconoscibile, gli Psapp hanno marchiato a fuoco lo scenario musicale indipendente degli ultimi dieci anni. Dal 2008, anno in cui fu rilasciato l'ultimo lavoro “The Camel's Back”, si è sentita la mancanza di quella visione del pop fuori dai canoni, estroversa, fiabesca, una prospettiva di cui si sente il bisogno per evadere dai luoghi comuni della musica. Lungo una carriera composta da tre album e una celebrità inaspettata (la sigla di Grey's Anatomy con “Cosy In The Rocket”), la band europea (tedesco Carim Clasmann, inglese Galia Durant) non ha mai accellerato i tempi, moderando i ritmi di pubblicazione e la quantità di musica prodotta. Tuttavia, cinque anni per una band contemporanea sono davvero tanti. Cosa sarà successo al magico toy-pop degli Psapp?

“What Makes Us Glow” ha l'arduo compito di fare da collante con il passato dopo un lungo periodo di assenza dalle scene, risultare attuale senza snaturare una formula vincente e possibilmente non essere ripetitivo. La buona notizia è che ci riesce egregiamente, la brutta è che dura troppo poco. La voce di Galia, le deliziose cromature, i ritmi mai domi, le stranezze della toy-orchestra, tutto è rimasto come prima senza risultare calligrafico o azzardato. Straordinaria coerenza, senso della misura e capacità tecniche smisurate sono solo alcune delle qualità che permettono a questo collettivo di mantenere una peculiarità che, sì, possiamo dirlo senza dubbi, rimane saldamente intatta.

Trovare tratti distintivi a una giostrina sfavillante di tale finezza è una pratica masochistica al pari di dover distinguere i colori di un arcobaleno estivo. La forza degli Psapp non è l'assolo di chitarra o un sintetizzatore in solo, come gli acuti vocali. La vera carta vincente la troviamo in suono complessivo sfaccettato, dove molti elementi, ognuno in egual misura ed egualmente necessari, compongono pezzo per pezzo un unicum efficace e distinguibile. Dunque non una musica di singoli o di personalità emergenti, tuttavia il prodotto di una banda, di un gruppo, di una molteplicità.

Dunque quando il carillon di “Wet Salt” prende il via, fra xilofoni, chitarre, strumenti giocattolo e percussioni, inizia come un viaggio fra cantilene mistiche (“The Cruel, The Kind, The Band”, l'eleganza magniloquente di “That's The Spirit”), la gioiosità psichedelica degli episodi più sballati (le varie “Seven”, “In The Black”, “Your Hot Knife”) e le solite tendenze world-pop (sonorità e profumi arabeggianti in “Everything Belongs To The Sun” e “In And Out”). Dove la lentezza prende il sopravvento si scoprono lati più riflessivi (i deliziosi ritmi cadenzati di “Bone Marrow”, botta-risposta fra violino e tromba per “The Well And The Wall”), smorzando temporaneamente una rincorsa forsennata e irresistibile. Come manifesto del disco possiamo prendere la title-track, sunto esaustivo di dodici tracce perennemente in bilico fra fantastico e fantasioso, mai stucchevoli, pronte a rimanere con i piedi per terra senza superare i limiti del buon gusto.

Per chi gli aspettava, per chi non li conosce o anche per chi li ha sempre odiati o ignorati, non c'è altro da dire se non: “Bentornati Psapp!”.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 18 novembre 2013

Suuns @ Bloom - Mezzago, Covo - Bologna



















Bloom, Mezzago (MB) - 14/11/2013

Premessa: "Esiste un locale nei dintorni di Milano in cui il livello dei volumi si sia fermato a prima che qualche riforma del caso passasse in parlamento, a quando i concerti non finivano alle 23.45, un luogo che permetta di far vibrare la cassa toracica e contorcere lo stomaco coi bassi, in cui la vecchia di turno espettora acutamente ingiurie nei confronti di una "musica troppo alta"?" Ebbene ne sono rimasto pochi, pochissimi. Il Bloom è uno di questi. Spezzo la lancia a suo favore e chiudo la premessa senza troppi fronzoli.

I Suuns arrivano al Bloom dopo la data torinese allo Spazio 211. Entrano sommessi, un accenno con la mano e niente più. Un colpo in cassa li annuncia, seguito da una cantilena araba che nell'intorno pare essere l'incipit de "L'esorcista", con un frastuono sordo di bassi e sintetizzatori. Vibra lo stomaco e quando "Music Won't Save You" ci aggancia siamo in sintesi già da qualche minuto con le vesti di Ben Shemie, chitarra e voce della band di Montreal; pare un incrocio imbastardito e inquietante tra Lou Reed e Thom Yorke e i gli accordi dissonanti di quell'entrata - in verità chiusura del secondo lavoro "Images Du Futur" - sono dichiarazione d'intenti chiara e semplice: "la musica non vi salverà, state sereni e godetevi il nostro spettacolo".
Il rimorchio è "Bambi" che comincia a inasprire l'aria e inacidire le gambe che rimbalzano sulle note definite della chitarra di Joe Yarmush e i contorni rotondi del duo tastiera/batteria formato da Max Henry e Liam O'Neill: il pubblico sta già fermentando perché questi "mezzi francesi" ci sanno fare. Allora è la volta del singolo "2020", la slide guitar session che ammalia e profuma d'incenso psichedelico le stanze del Bloom, di un profumo forte, acre, non certamente rasserenante ma sicuramente contagioso, che prosegue con le dilatazioni uterine di "Minor Work", più carica live che su album. Entusiasmo.

"Arena" cambia lo scenario e dimostra quanto i Suuns siano una realtà musicalmente valida e con qualcosa da dire: tratta dal primo lavoro "Zeroes QC", "Arena" è un continuo contorcersi, un crescente rigurgito di basso che si quieta quando a metà traccia Shemie sussurra passionevolmente le melodie cantate, in una danza macabra con l'asta del microfono. Intervallata prima da "Up Past The Nursery" parte poi una versione doom di "Powers Of Ten" che sembra di essere ad un concerto dei Sunn O))), senza bussola, senza orientamento, e un trasporto che prosegue con le distorsioni plastiche di "Armed For Peace", una sveglia da schiaffi strappati alla chitarra di Yarmush per ritornare infine alle deformazioni sintetiche di Henry. MDMA nei bicchieri forse non l'han messa, ma quando la chiusura di quel viaggio iniziato con "Arena" si conclude con "Pie IX" un pensiero sovviene: alieni si presentano dietro le nostre spalle, toccandoci le orecchie prima che un ballo di chitarra molto Badalamentiano chiuda il momento migliore della serata.

I quattro anticipano i saluti con "Sunspot" degna chiusura a-là Radiohead di Kid A ma, acclamati da quattro affezionati (il pubblico era caldo, ma poco numeroso), rientrano dopo una pausa durata due-tre minuti per un finale non troppo entusiasmante e forse troppo di dovere; buttan fuori "Mirror Mirror" e una buona "Edie's" Dream" a coronamento di un'ora e venti di psichedelia dark, elettronica plastica e un motivo in più per pensare che questa band, riservata e schiva, dimostri qualità durature nel prossimo futuro.

Covo Club, Bologna - 16/11/2013

A Bologna la serata inizia similmente alla data milanese con cantilena araba in sottofondo e sferragliate di feedback molto rumorose, pare di stare a un concerto di un'altra band. E la cosa continuerà per altri quindici minuti abbondanti, con bordate soniche di potenza non indifferente, con il basso e la batteria a comporre un comparto ritmico di grandissimo rilievo. Con lo svolgersi del live e l'esecuzione dei pezzi, la componente psych/noise si attenua in favore di linee chitarristiche limpide e chiare, più coerenti alla relativa leggerezza di tracce come "Edie's Dream" e "Holocene City". La grande qualità dei Suuns, già evidenziata ampiamente su disco, è quella di fondere in modo quasi impeccabile le tendenze out e la forte componente pop del loro suono, risultando in alcuni casi un riuscitissimo incrocio fra un brit-pop cristallino (qua e là si sentono addirittura i Blur) e le sterzate violente degli Animal Collective o dei Deerhoof.

C'è un'anima malata e distorta nella foga di "Sunspot", eseguita con una batteria in completa trance e un basso che zampilla sangue e sofferenza, in un flusso che si completa con "Bambi", un capolavoro di trasfigurazione pop con pulsazioni electro bastardissime. E che dire delle parole biascicate dal cantante in occasione di "Minor Work"? Il tutto attorniato da spore silenti e spettri demoniaci, in un'atmosfera generale enormemente più soffocante della lineare esecuzione su album. L'apporto dell'elettronica sale di caratura con il passare dei minuti, in cui le rasoiate del synth e della drum-machine sono un perfetto compendio al suono di questo band che non smette mai di stupire. Tutti i componenti hanno perfettamente il controllo della situazione e propongono un live sì violento e in parte dissonante ma pur sempre misurato, calibrato, mai eccessivo o troppo spinto. Sanno mettere lo spettatore in condizione di scatenarsi o di adagiarsi con suoni più delicati, il tutto perfettamente impastoiato con melodie decisamente originali. Un'ora e spicci di musica ispirata e potente, in una notte bolognese vagamente autunnale, i Suuns sanno dare brio e corpo ai nostri momenti più insignificanti.

Questi due live confermano in maniera decisa le impressioni avute con il secondo disco; questa band ha tutto ciò che serve per fare qualcosa di veramente nuovo ed elettrizzante, il tutto sta, come sempre, nella capacità dei canadesi di continuare su questa strada sintetizzando velleità con umiltà, sfrontatezza con misura. Facile a dirsi ma non a farsi probabilmente, fatto sta che noi non vediamo l'ora di ascoltare altre canzoni, non so voi.

articolo di Stefano Macchi e Alessandro Biancalana

lunedì 4 novembre 2013

Poliça: "Shulamith" (Mom + Pop, 2013)
















Il 2013 sarà ricordato come un anno di mancate conferme. Dopo le prove sottotono o quantomeno controverse dei vari Gold Panda, Agnes Obel ed Emika, ad aggiungersi al gruppo arrivano i Poliça. Il gruppo di artisti appena citato aveva l’obbligo di confermare esordi molto positivi, nel caso della band americana il compito era doppiamente arduo. Provenienti dall’esperienza dei Gayngs, i quattro di Minneapolis hanno sconvolto il mercato discografico indipendente solo un anno fa con un esordio abbagliante. Niente chitarra, un basso, due batterie e una voce con davanti un vocoder. Una forma scarnificata di trip-hop, un pop d’ambiente scheletrico, essenziale, musica ombrosa, urbana, perfettamente puntellata dall’esile voce di Channy Leaneagh. “Give You The Ghost” rappresentava qualcosa di nuovo, qualcosa di veramente originale come non si sentiva da moltissimo tempo. Gli interrogativi dopo un ascolto così disarmante erano tutti rivolti a un eventuale secondo disco, a come la band avrebbe reagito a tale clamore e a come avrebbe sviluppato una formula talmente efficace. Andiamo con ordine.

I Poliça hanno deciso di giocare la carta dell’elettronica, trasformando la loro musica in modo abbastanza deciso. Niente più strutture scheletriche, rimangono le linee di basso pulsanti, la batteria non è più un elemento primario e arrivano moltissimi synth e alcune drum-machine. La scelta di inserire l’elettronica non è stata a priori sbagliata, d’altronde cercare di ricalcare quanto di buono era stato fatto poteva rivelarsi un tranello autoreferenziale, semplicemente si è cercato di fare qualcosa di nuovo. Purtroppo, però, le basi elettroniche inserite non hanno la qualità necessaria per mantenere intatti i delicati equilibri di cui queste canzoni hanno bisogno. La voce, non essendo né potente né limpida, non riesce a salire in cattedra e a colmare eventuali lacune di scrittura. Pure in “Give You The Ghost” le tracce salivano di tono grazie a un'atmosfera complessiva avvolgente, non certo per meriti dell’interprete femminile che, nonostante un sapiente uso del vocoder, rimane una cantante dalle doti limitate (vedere i live per rendersene conto).
Detto questo, siamo di fronte a un disco che sa regalare emozioni, altalenante e complessivamente di buona fattura.

Ritmi incalzanti e improvvise esplosioni salgono in cattedra (l’iniziale “Chain My Name”, i bei ritornelli electro di “Vegas” e “Very Cruel”), mentre “Smug” colpisce per un andamento dolcemente svenevole. Da qui in poi c’è un calo di tono che compromette un buon inizio, con sospensioni irrisolte (“Warrior Lord”, “Torre”), momenti electro-pop contraddittori (la buona “Trippin”, i grossolani synth del primo singolo “Tiff”), l’asfissia quasi tribal-techno-pop delle fascinose “Spilling Lines” e “Matty”. Con un finale fuori fuoco (“I Need $” e “So Leave” non colpiscono fino in fondo), “Shulamith” conferma di essere un disco combattuto.

Le qualità non sono svanite, rimane un talento e un’idea di massima inestimabile, tuttavia, se di cambio di rotta vogliamo parlare, forse sarebbe meglio scegliere la strada degli episodi più concitati, dove l’inserimento dell’elettronica risulta essere più funzionale. Considerando tutto, siamo ancora di fronte a qualcosa di molto piacevole, un insieme di tracce mediamente coinvolgenti, la necessità dei Poliça adesso è quella riordinare le idee e scegliere una strada precisa, capace di dare un sbocco definitivo alle potenzialità espresse.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 11 ottobre 2013

Agnes Obel: "Aventine" (PIAS, 2013)















Dopo un corposo tour in giro per il mondo, la danese Agnes Obel arriva a un nuovo album, a tre anni di distanza dall'acclamato e ottimo “Philharmonics”. La formula di pop pianistico melodrammatico fortemente cameristico ha impressionato il mondo, destando attenzione e sorpresa nei confronti degli sviluppi di una carriera di sicuro interesse.

“Aventine”, va detto fin da subito, conferma ma non sorprende. L'album non esplode, si accasa su atmosfere troppo simili al predecessore e non possiede la felice scrittura di “Philharmonics”, semplicemente le canzoni non hanno la stessa efficacia. L'arricchimento con elementi strumentali nuovi, quali violoncello e altri strumenti ad arco, dona sfumature differenti e leggermente più varie, tuttavia il tono, le melodie, le soluzioni non hanno sbocco se non quello di edulcorare la potenza dell'esordio.

Non si sta certo parlando di un pessimo album o di un caduta di stile, siamo sempre di fronte a un cantautorato sopra la media, scritto discretamente e suonato da professionisti del genere. Tracce come la title track, magnificamente punteggiata da note di violino, o la bella favola acustica di “The Curse” sono la dimostrazione di come le intenzioni siano di ottima fattura, le potenzialità sono tutte lì, non completamente espresse ma ci sono, esattamente come tre anni fa.

Non un colpo d'arresto, si tratta piuttosto di un adagiamento da evitare in un eventuale futuro, la Obel ha troppo talento per potersi permettere di non pretendere di più. Un pizzico di coraggio e sfrontatezza compositiva aiuteranno l'autrice danese a ottenere un risultato più stimolante.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 16 settembre 2013

Syclops: "A Blink Of An Eye" (Running Back, 2013)















Per chi vive ed ha vissuto l'elettronica in maniera approfondita, non potrà aver ignorato la carriera epica di Maurice Fulton. Esperienze di levatura eccellente in ambito house, una moglie dal passato fugace (Mu, da non dimenticare “Out Of Breach”) e una miriade di progetti paralleli da far perdere l'orientamento. Fra questi c'è anche Syclops, collettivo – con lui un trio di muscisti finlandesi - creato nel 2005 sotto l'elgida della DFA con un interessante “I've Got My Eye On You” e lasciato poi da parte per un po' di anni. Con un pizzico di sorpresa scopriamo questo “A Blink Of An Eye” dopo quasi un decennio, secondo atto di stralunante pienezza.

Di non facile individuazione stilistica, l'opera di Fulton e soci ricorda le opere di composizione elettronica totale che a suo tempo attuava Matthew Herbert da solista con la sua Big Band. House, disco, funk, techno, jazz; un frullato multiforme e plastico di tecnologica applicata alla musica in maniera fluida e naturale. Ascoltando questo album si ha un senso di soddisfazione sonora che prescinde dai generi o dai gusti, la varietà tonale della tavolozza del gruppo è tale da lasciare attoniti. Strafare spesso conduce a passi falsi o ad un'amalgama poco omogenea, qua invece l'estrema ecletticità è sorretta da un'esperienza di base che contiene sbavature o derive eccessive.

Si passa dalla techno martellante e alienante (il rantolare di “Unmatched”, le movenze funk di “Michele's H With C”) a bizzarre sperimentazioni contaminate con la disco (le space guitars di “Jump Bugs”), fino ad arrivare a forme mutate di deep-house (le tastiere ambient su base jazz di “Karo's B”). Non c'è limite alle soluzioni messe in atto, infatti è ancora il jazz ad entrare in gioco con la coppia “5 in” e “Got To Get Up For Monday”, una marcia tambureggiante fra bleep, note da pianobar e rintocchi sintetici in un tafferuglio sintetico di spessore universale, un vero piacere per chi ama sentire sempre qualcosa di nuovo. Fra classicismi techno (rimbalzi standard per “Back When Lynn (The Classic)”) prende corpo la finale title-track, un andirivieni di loop e giochetti di synth nel bel mezzo di una batteria che pare provenire da un bar della Chicago anni '30. Pacata e mossa da un ritmo che non esplode mai, la traccia si muove in perfetta sintonia ed equilibrio, trovando un punto di accordo fra due mondi apparentemente inconciliabili.

Oltre a consigliare l'album praticamente a chiunque, escluso chi non è curioso di ascoltare qualcosa di minimamente innovativo, questa recensione è dedicata a chi asserisce che la musica elettronica è tutta uguale e fatta con due tasti, per smentire tali voci sarebbe sufficiente mettere sù questo disco.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 3 settembre 2013

Cloud Boat: "Book Of Hours" (Apollo, 2013)















Esordiente e di nazionalità britannica, il duo Cloud Boat, composto da Sam Ricketts e Tom Clarke, dà in pasto al pubblico uno sfizioso ricettacolo di elettronica pop di prim'ordine. Un po' lasciati da parte e mai definitivamente considerati, con “Book Of Hours” i due si concedono un'uscita fortemente ambiziosa e fuori dagli schemi.

Mai completamente sbilanciata o settoriale, l'opera prima di questo sodalizio propone un soul digitalizzato à-la James Blake con un tocco di sperimentazione elettronica imparentata tanto con il dubstep quanto con il cantautorato. Infatti troveremo strumentali pulsanti colmi di acredine e struggenti ballate electro-soul in punta di chitarra e beat, il tutto impastoiato con mano ferma e sapiente.
Il bello di questo album è la sua integrità: nonostante i riferimenti e gli spunti siano innumerevoli, il quadro generale non perde mai un grammo di credibilità. Perfettamente consapevoli di aver riciclato qualcosa di esistente, i Cloud Boat gettano l'amo e fanno la loro musica senza freni.

Dunque troveremo frizzanti divagazioni uptempo (i movimenti spastici di “Lions On The Beach”, l'ambientazione chitarristica in “Pink Grin II”), plumbee distese di melma (il disagio nel suono di “Amber Road”), con il restante gruppo di tracce strabordanti di un romanticismo da songwriter moderno e innamorato. Come non trovare adorabili e toccanti canzoni come “Youhern”, “Bastion” o “Drean”? In queste chitarre così ben pizzicate, in quella voce soul e profonda, nell'elettronica pungente e dolce contemporaneamente, c'è l'animo di artisti che amano la propria musica.
Passione esposta con tale trasporto da risultare imbarazzante, un po' come il rivelarsi dei nostri segreti. Date  un ascolto a “Wanderlust”, per esempio. Il suo incedere lento, scandito da ritmi balbettanti, è un inno alla bellezza come le note di chitarre tintinnanti che compongono il corpo della traccia.

In un decennio in cui tutto è stato fatto e molti suoni già spolpati della loro essenza, la ricerca spasmodica del nuovo spesso rovina tante carriere quante ne celebra, per i Cloud Boat forse siamo nel secondo caso. Chi ama la dolcezza dell'essenziale e il ritmo di un carillon un tempo festoso con “Book Of Hours” spende bene il suo tempo. Un disco che tramuta le proprie materie prime in un risultato dal fascino sottile e essenziale.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 30 agosto 2013

The Asphodells: "Ruled By Passion, Destroyed By Lust" (Rotters Golf Club, 2013)















Dietro un uomo come Andrew Weatherall ci sarebbero mille storie da raccontare e altrettante parole da spendere. Per un personaggio che ha lasciato il segno su uno degli album più celebri delle ultime decadi (il celeberrimo “Screamadelica” dei Primal Scream), oltre ad aver fatto parte di formazioni di spessore assoluto (Two Lone Swordsmen e soprattutto Sabres Of Paradise), il giornalismo non potrà mai rendere sufficientemente la reale portata del suo talento. DJ istrionico e produttore lungimirante e sfrontato, l’inglese presenta la sua nuova idea a fianco di Tim Fairplay. Non molto conosciuto chitarrista della band electro-rock Battant, il britannico vira la sua carriera in ambito elettronico con cose molto buone come l’EP “Timothy J Fairplay EP”, in cui Andrew collabora remixando “Sleighride/Blizzard”, e il successivo “Somebody, Somewhere”, perfetti preludi per la collaborazione a stretto contatto con il più quotato connazionale. Come nota a margine, è utile ricordare che Fairplay ha coinvolto in veste di bassista il suo collega Andy Baxter nei già citati Battant.

Progetto già pianificato da anni e infarcito di simbolismi fra i più disparati a partire dal nome: The Asphodells. Nel periodo vittoriano l’asfodelio, genere di pianta abbondante nei prati soleggiati, era presagio di rovina e distruzione, come per Omero era una specie erbacea degli inferi. A conferma di quanta sostanza ci sia dietro questo album, troviamo la cover di un poema di John Betjeman. Poeta e scrittore d’inizio 900, il britannico è stato uno dei riferimenti della cultura adolescenziale di Weatherall, il quale, con l’assenso di Fairplay, ha deciso di realizzare una cover di “Late-Flowering Lust”, traccia contenuta originariamente nell’album “Late Flowering Love” del 1974. Con una tale impalcatura a metà fra misticismo e letteratura, il disco acquisisce un alone di epicità non indifferente.

Musicalmente l’opera è una magistrale fusione di suoni, tendenze e ritmi. Unendo l’esperienza di decenni di produzioni, il Nostro frulla house cavernicola, chitarrismi rock, electro e tentazioni disco con l’aggiunta di un’atmosfera mai sopra le righe, dimessa, perennemente nera come la pece. Come nei dischi dei Two Lone Swordsmen, il suono è come incapsulato, compresso, oppresso, proprio come una discoteca a seicento metri sottoterra (ascoltare “From The Double Gone Chapel” per farsi un’idea). Nei pezzi in cui spunta una vaga struttura rock, il duetto basso-chitarra richiama a certi richiami wave/post-punk, un qualcosa a metà fra Jah Wobble e Wire, il tutto perfettamente celato da meccanismi electro mai sotto l’eccellenza. La voce, sempre di Weatherall, è un perfetto corollario demoniaco che si incastra magistralmente nei toni marci delle tracce, contribuendo a rimpolpare la natura tormentata della musica.

Troviamo incastri electro-techno che duettano con chitarre e basso dub con risultati strabilianti (la coppia “Never There” e “Skwatch”), ci sono hit da balere deserte e distrutte (l’incedere micidiale dell’iniziale “Beglammered”, i flussi di synth in “Another Lonely City”), le due versioni della cover di Betjeman (“Late Flowering Lust” e “Late Flowering Dub”, entrambe scosse da vibrazioni ritmiche inimitabili). Trovano spazio singoli quasi riconducibili alla stagione electro-clash (il giro di synth di “We Are The Axis” sembra venir fuori dal 2002), ariosità synth-pop eighthies (“The Quiet Dignity (Of Unwitnessed Lives)”), divagazioni disco sfigurate (la lunga e flessuosa “A Love From Outer Space (Version 2)”). In coda c’è il tempo per progessioni hard-electro ossessive (l’infinità ciclicità dei suoni in “A Minute's Dub”) ed altri rigurgiti wave/electro (“Zone”), oltre al remix di “A Love From Outer Space” da parte di Mugwump.

”Ruled By Passion, Destroyed By Lust” ha le carte in regola non solo per diventare uno dei dischi dell’anno ma anche per essere un classico, siamo infatti di fronte allo stato dell’arte dell’ispirazione di Andrew Weatherall. Continuazione di un processo di esplorazione della musica elettronica, l’esordio del nuovo duo Asphodells è un disco potente, vissuto, passionale e colmo di musica malata e ispirata.

(8) 

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 28 agosto 2013

Monokle: "Saints" (Ki Records, 2012)















Dopo Christian Löffler e la sua techno sognante, torna su queste pagine un altro recupero dell'etichetta Ki Records. Questa volta dalla Germania viene pescato Monokle, russo di San Pietroburgo con coordinate stilistiche non dissimili dal tedesco citato poco sopra.

Siamo sempre nei dintorni di un'elettronica addomesticata con incantevole moderazione, modulata nei dintorni di una ritmicità contenuta, mai eccessiva o aggressiva. Qualche anno fa la si chiamava dream-techno e mai una definizione fu così azzeccata, infatti l'anima sudata, funk e scientifica della techno viene fusa con suoni, melodie e ritmi vellutati, morbidi, tenui. Il risultato, nonostante sia un tantino già sentito, è meravigliosamente riuscito. Le canzoni sul lungo periodo sanno emozionare e coinvolgono con un sapore di amarognolo perfettamente calato in un'atmosfera da film sci-fi distopico. Immaginando delle lande sperdute ai confini di una metropoli in rovina, cos'altro piazzare se non pezzi come “Homesick” o “Embers”? E c'è di che gioire al principio con gli arrangiamenti classici di “Holt Found”, la quale prosegue idealmente con la successiva “Glow” dove le stesse voci vengono circondate da numeri di synth giocosi.

Si gioca anche la carta minimal-techno con “Swan”,  virando verso un ambient disturbante con il procedere della traccia che si rileva dinamica, silente, ancora adornata da una ricerca sulle melodie per niente banale. Il resto del disco attesta la propria identità sul versante pensoso e rilassato della techno, lasciando da parte complicate geometrie compositive ed esplorando la bellezza del suono con pochi e semplici componenti. Niente di propriamente innovativo ma realizzato con enorme passione e precisione.

In tutto questo immaginario così fuori da un contesto da dancefloor canonico, trova posto anche un singolo potentissimo come “Slower”, questa volta non solo strumentale ma coadiuvato dalla voce di Nadya Gritskevich. Un sorprendente numero techno-pop colmo di elementi di interesse, fra controvoci campionate, brandelli di melodia e synth gommosissimi a corredo, oltre alle corde vocali della Gritskevich (esordiente) veramente molto efficaci.

La musica elettronica ha bisogno di nuovi elementi di talento per svilupparsi in maniera omogenea e sincera, dunque non si può che elogiare il lavoro svolto dalla piccola e minuscola Ki Records, dove in patria teutonica sta rovistando nel mucchio dei nuovi musicisti per promuovere e sostenere elementi dal sicuro futuro come Monokle. “Saints” è senza ombra di dubbio uno dei migliori esordi in circolazioni negli ultimi anni, dunque non lasciatevelo sfuggire.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Moderat: "II" (Monkeytown Records, 2013)


Dare un seguito, proseguire un inizio ben impostato, è sempre stato il cruccio di ogni musicista, a prescindere dall’era e dal genere di riferimento. Ogni qualvolta un oggetto di successo attende un seguito le speranze si rivolgono sempre al futuro, a cosa verrà, quale magia ci riserverà quel tal artista. Questo concetto è perfettamente applicabile a “II”, seconda prova del sodalizio artistico fra Sascha Ring aka Apparat e il duo Modeselektor. Il primo album era stato preceduto da una discreta curiosità, tali erano le potenzialità teoriche di un tale accordo dando una veloce scorsa alle prestigiose carriere delle menti in gioco. Ed infatti “Moderat” si rivelò uno splendido esempio di modernariato elettronico sinuoso, seducente, con “Rusty Nails” ad ergersi a capolavoro su tutte le altre tracce dalla qualità media altissima. Dette tali premesse, la parola “attesa” nei confronti di “II”, seppur banale e scontata, è quantomeno dovuta.

Pubblicato in piena estate, ed anticipato dal singolo “Bad Kingdom” un paio di settimane prima, il disco non delude e rimpolpa il progetto di nuovi stimoli. Nonostante il suono di riferimento sia quello solito, un misto fra  techno teutonica e suoni UK (garage, 2 step), l’album vaga mirabilmente fra atmosfere, umori e sensazioni, travalicando gli steccati di genere. Le canzoni possiedono un suono totale, potente e preciso, graffiano nel profondo e sostengono la durata sopra i cinque minuti grazie a ritmi e melodie scintillanti. La voce di Apparat, sue le liriche di ogni pezzo cantato, sono il definitivo marchio di fabbrica di un progetto che questa volta rinuncia alle collaborazioni esterne e si autoalimenta con le proprie forze. Anima tedesca, attenti alle tendenze ma non calligrafici, Apparat e soci compiono un'ulteriore rivisitazione del loro immaginario di suono elettronico, tecnologicamente avanzato ma malinconicamente nostalgico, mai stucchevole e perennemente perfettibile.

Se “Bad Kingdom” ricalca l’epicità pop della corrispondente “Rusty Nails”, l’introduzione dei breakbeat ’90 dona ai pezzi un fascino crepuscolare (la rilassatezza quasi chill-out di “Version”, i bei controtempi in “Ilona”), mentre la classicità techno lascia libero spazio alle straordinarie capacità di beat-maker di Apparat (la voragine e i contraccolpi ritmici di “Milk” e “Therapy”). Le movenze a metà fra downtempo e techno-pop dei pezzi cantati coniugano l’eleganza di ere e stili diversi, cercando un ideale incontro fra gruppi come Télépopmusik e Telefon Tel Aviv, raggiungendo vette altissime (lo splendore di “Let In The Light”, soul digitalizzato per “Gita”), lasciando per strada canzoni sincere e passionali, intrise di malinconia e mistero, mostrando un’anima profondamente romantica (la struggente “Damage Done”). E la conclusione “This Time”, abisso di silenzio e tappeti di synth affilatissimi, è la perfetta chiusura di un cerchio a cui è impossibile rimanere indifferenti. Schiocca l’ultima scintilla e l’album termina, si siede e riparte da capo.

Difficile dire qualcosa di più significativo di fronte a una bellezza così gentile e ben architettata, perfettamente nobilitata dalla presenza di qualche piccolo difetto di forma e contenuto. Mesi di lavoro e una gestazione lunga quasi tre anni hanno portato il trio a un risultato intenso, un disco che prosegue e ben completa il bell’esordio, sicuramente una delle migliori uscite elettroniche del 2013. Ed anche adesso, l’attesa, seppur banale e scontata, di ascoltare nuovi sviluppi è fortissima.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 21 luglio 2013

Gold Panda: "Half Of Where You Live" (Ghostly International, 2013)















Forte di un'inaspettata celebrità negli ambienti che contano dell'elettronica “calda”, Gold Panda torna dopo tre anni con una schiera di appassionati in trepidante attesa. Preceduto da una nutrita tournée mondiale, toccando l'Italia al roBOt 2012 in quel di Bologna, “Half Of Where You Live” disattende leggermente le ottime premesse messe in mostra con “Lucky Shiner”. Non stiamo parlando di un pessimo album ma di un piccolo passo indietro.

Dove il predecessore esplodeva in un florilegio di colori e tentazioni, il nuovo album dell'inglese sorprende per pacatezza e monotonia compositiva, siamo infatti di fronte a un album di elettronica bloccato su degli standard ben realizzati. Non c'è un singolo esplosivo come “You”, non c'è quella mistura di sensazioni che aveva elevato pezzi come “Same Dream China” o “Before We Talked” sopra la media delle produzioni in vigore in quel periodo. Tuttavia l'album è ben prodotto, i suoni sono spesso piacevolissimi e il nostro tiene ancora le redini ben salde, dando l'impressione di poter esprimere ancora molto.

Fra l'ordinarietà techno/idm spiccano le pennellate di synth in “s950”, il bell'assalto di tastiere nell'iniziale “Junk City II” e qualche frangente nelle varie “Flinton” e “Enoshima”. Tutto il resto è sì dignitoso e ben realizzato ma non stuzzica, non smuove gli animi, resta un qualcosa di drammaticamente ordinario. Per chi si aspettava una versione aggiornata del teatrino elettronico fulminante e stravagante di “Lucky Shiner” rimarrà sonoramente deluso.

Detto questo la valutazione è ampiamente sufficiente anche grazie a una costruzione dei pezzi efficace e ad una classe innata, tuttavia Gold Panda deve e può fare molto meglio, la sua ancor giovane carriera lo ha dimostrato e saprà senz'altro sorprenderci ancora.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 18 luglio 2013

Emika: "DVA" (Ninja Tune, 2013)















Dopo due anni di tour e una pausa compositiva, torna Ema Jolly, conosciuta anche come Emika. Il bel debutto omonimo di due anni fa ha permesso all'inglesina di ottenere un discreto riscontro in ambito elettronico, anche grazie a una campagna di promozione positiva, sia attraverso il suo sito sia sui social media, mettendo in campo una strategia di marketing capillare. L'attesa per ascoltare il seguito di “Emika”, viste le potenzialità messe in campo, era tanta, generata dall'efficacia di una formula a metà fra tech-pop e dubstep. Singoli come “Double Edge” avevano dalla propria una tensione espressiva di rara intensità.

Spiace constatare che tutta la tensione morbosa, erotica e sensuale di quelle canzoni svanisce quasi completamente in “Dva”. Le nuove tracce (ben quindici, decisamente troppe) ricalcano in parte la formula del predecessore, allentando la corda in maniera sensibile, infatti spesso il ritmo è pacato e non prende mai quota. Male anche i suoni e le melodie, banali e un pochino affettati con l'accetta, non c'è ricerca e i synth suonano malsani, un po' grossolani e poco rifiniti.
Non un fallimento su tutta la linea, la canzoni ancora ci sono, vedere per esempio la buona “Young Minds” o “Fight For Your Love”. Incomprensibili, però, gli arrangiamenti d'archi sparsi un po' qua e là, fuori contesto e mal posizionati.

Purtroppo c'è poco da salvare, resta solo da sperare che sia solo un incidente di percorso, la ragazza è molto giovane e può rifarsi ampiamente, il tempo non le manca.

(5)

recensione di Alessandro Biancalana

Blue Hawaii


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Qualcuno l'ha ascoltato? E' l'esordio dei Blue Hawaii e si chiama "Untogether". Fra i tanti dischi elettro-pop e similari mi è sembrato davvero ben fatto, seducente e con tanti bei suoni. Da non trascurare la bellissima voce femminile.

Ho ascoltato anche il loro esordio "Blooming Summer" del 2010 e devo dire che le impressioni positive sono confermate. A questi ragazzi manca solo un po' di hype e possono decisamente sfondare. Sanno mixare tendenze electro-pop, rivoli dell'era indie-tronica e tante belle melodie, il tutto condito con quel sapore dreamy deliziosissimo. "Liliac" ne è un esempio:



Mentre "Dream Elextrixra" è un pochetto più solare, pare di ascoltare un mix fra certo dark-pop e il pop elettronico di inizio '00.


 

lunedì 10 giugno 2013

Boduf Songs: "Burnt Up On Re-entry" (Southern, 2013)














Mentre cominciano a spuntare i suoi primi “discepoli”, personaggi solitari persi nei meandri della propria mente, armati di una chitarra e poco altro, a tre anni dall'ultima prova sulla lunga distanza ritorna Boduf Songs, il più oscuro dei cantautori d'Albione, il musicista che nell'intimo della propria cameretta ha contribuito a dare nuove accezioni e sfumature a termini quali “solitudine” e “oscurità”. Accezioni che ha coltivato, sviluppato, ridefinito nel corso dei suoi primi quattro dischi, piegandole a tenebrose, cupe riflessioni di stampo goth-folk, tanto scarne nella composizione quanto cangianti nelle soluzioni adottate, specialmente nelle prove più recenti.

Giunto al quinto album di una carriera sinora accudita con cura e dedizione da un'etichetta storica quale è la Kranky, il musicista di Southampton si trovava però di fronte a una svolta decisiva. Complici il trasferimento di là dall'oceano per stare al fianco della compagna Jessica Bailiff e l'esigenza di nuovi veicoli espressivi per la sua musica, "Burnt Up On Re-Entry" segna il passaggio dall'etichetta di Chicago alla Southern di Londra (label che ha ospitato nomi quali le Babes In Toyland e i Karate di Geoff Farina, per dire), ma anche la compiuta transizione verso un sound irruento e aggressivo, mai espresso sinora con tale convinzione.

Chitarre rabbiose, turbolenti rumorismi e una discreta scorza rock erano già trapelati in altre circostanze, specialmente in occasione dello scorso “This Alone Above All Else In Spite Of Everything”, in cui la carica di elettricità si concedeva ben più di qualche estemporanea comparsata. L'approccio, al tempo comunque soltanto timidamente incoraggiato, per questa nuova fase nella carriera di Mat Sweet viene portato alle estreme conseguenze: l'abrasiva chitarra elettrica che irrompe col suo taglio quasi metal nel bel mezzo di “Fiery The Angels Fell” non lascia nemmeno il tempo di dire “buongiorno” che già svela molte delle dinamiche del disco.

Il tono vocale, quello sì mai cambiato, rimane catatonico e mai sopra il poco più che sussurrato. Sweet, oltre a iniettare nella sua musica massicce dosi di rock, gioca la carta della manipolazione elettronica a livello ritmico, ottenendo un risultato non dissimile da certo doom-folk di casa Southern Lord. Suoni e melodie non assumono più le vesti da folk pastorale drammatico come in passato: in “Burnt Up On Re-Entry” l'alienazione è sì totale, ma assume toni più umani, si distende, lascia spazio a qualche luce. Nelle varie “Song To Keep Me Still” e “A Brilliant Shaft Of Light From Out Of The Night Sky” gli accordi di chitarra e il ritmo generale prendono così le sembianze di torch-song à-la Waits: non si tratta più di un lento discendere, ma di una graduale e dolorosa ascensione.

Sono quindi piccole-grandi variazioni, quelle che entrano in gioco, per una formula assodata e difficilmente scardinabile: rimbrotti elettronici di spessore (synth e drum-machine per la tesa “Whither Thou Goest, Cretin”), addirittura una voce robotica in “Drexelius Sick Man Quarles Emblemes Closed Heaven”), concessioni alla vecchia maniera (“Everyone Will Let You Down In The End”, “Long Divider”) e la nuova vena rock che prende il sopravvento (le cavalcate elettriche di “Between The Palisades And The Firmament”).

In generale, pare comunque che “Burnt Up On Re-Entry” sia un album di passaggio, un qualcosa per cui Sweet ha lavorato molto ma che fatica ad avere una propria identità. Mai sotto la sufficienza a livello qualitativo, la nuova fatica dell'inglese segna elementi di cambiamento non ancora del tutto compiuti. Si spera in una definitiva svolta nel prossimo disco: la musica di Boduf Songs merita una consacrazione di largo respiro.
 
(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Vassilios Karagiannis

domenica 9 giugno 2013

The Black Dog: "Tranklements" (Dust Science Recordings, 2013)















Hanno certamente un segreto, un trucco, qualcosa di magico i Black Dog. Una carriera lunghissima che ha vissuto altissimi e bassissimi, momenti di silenzio e mutazioni radicali. A due anni dal pregio di "Liber Dogma" e le uscite digitali dei podcast Darkwave, arriva l'atteso "Tranklements".

Il disco viene preceduto da due EP solo in parte collegati ad esso ma utili per tratteggiare l'orizzonte su cui si sono spostati gli ex-giovanotti di Sheffield, in cui vediamo coinvolti due numi tutelari della techno più oscura degli ultimi anni: Karl O'Connor aka Regis e il punk Luke Slater nella sua incarnazione più sotterranea L.B. Dub Corp. I due EP annunciano una belligeranza analogica riscoperta in cui il corpo astratto tipico delle produzioni Black Dog lascia il passo ad una compattezza formidabile. Ed è questo il punto di svolta di “Tranklements”, laddove i Black Dog si sono sempre distinti per le capacità di disegnare l'ambient con la fu IDM, qui si rimane sempre ben attaccati alla materia techno anche nei momenti più frammentari tutti intitolati Bolt, come a voler definire quel tipo di campo d'azione, sempre al di sotto del minuto e mezzo.

Gli sviluppi nel minutaggio danno prova di eclettismo e mestiere dalle prime note di "Alien Boys", fino all'isolazionismo cupo di "Internal Collapse" in cui la destrutturazione classica dell'IDM viene ricomposta in una spirale che con difficoltà lascia trasparire qualche speranza. Ma lo spazio viene riempito anche dal classicismo techno di "Cult Mentality" da leggere alla voce "si, viaggiare", scostandosi dalle acidità post-punk si vola verso una profondità dei tempi andati. La trovata di alternare lunghe dissertazioni techno a tracce corte e più astratte dona alla nuova fatica dei Black Dog lo status di testamento definitivo, compimento massimo della loro arte elettronica e – cosa che non guasta – donano una varietà di umori che discoiglie tutta la tensione accumulata nei momenti più concitati. Con un poco più di attenzione si trovano le frattaglie circuitali di "Bolt 3533f" e i suoni sci-fi di "Bolt 11b" e "Bolt No.6", intercalari sotto il minuto di squisita estrazione alienoide.

Il resto del disco infila integralismo techno di fattura eccelsa (il taglio dritto e deciso di "Atavistic Resurgence" e "Funked Industry", rimpalli anthemici della coppia "Pray Crash I"/"Pray Crash II"), mentre altrove melodie meno opulente influenzano e ammorbano le composizioni con risultati eccezionali (il bel gioco di motivetti sghembi in "Hymn For SoYo", le magnifiche sciabolate cyber-punk di "Internal Collapse"). Capolavoro di tutta l'opera, vero fulcro e sunto di una vita in musica, è "First Cut", epopea ambient-techno di otto minuti, variegata, dallo sviluppo sinuoso e oscuro come solo il Carl Craig dei tempi d'oro sapeva fare. A seguire altre cose molto ben realizzate come le movenze plastiche di “Death Bingo” (notare la bellezza dei suoni), “Spatchka”, deliziosa e placida a dischiudersi, il ritorno all'IDM più classica in “Mind Object”. Tutto mai casuale o fuori posto, siamo di fronte a un progetto tanto nostalgico quanto futuristico, un'opera tanto architettonica quanto ingegneristica.

In un momento in cui fare techno è diventato difficile quanto distinguersi in mezzo a una folla di diecimila persone, gli inglesi, se non capaci di dare una botta di innovazione al genere, ci mettono la personalità e il cuore, denudando il loro status di artisti come solo una formazione di culto sa e deve fare.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Guidetti

lunedì 3 giugno 2013

Gianfranco Grilli: "Ancient Roads" (Mons Avium, 2013)
















Marchigiano di nascita, compositore e musicista, Gianfranco Grilli lavora nell'ambito della musica ambient con grande passione da diversi lustri. Lavoro il suo oscuro, misconosciuto, poco in risalto. Leggendo la sua biografia si legge che ha scritto opere per radio, televisione e cose nel settore della meditazione e della new age. Non semplici tappeti rilassanti o scialbi rintocchi per delle sedute yoga, bensì musica pulsante e di valore universale.

La sua opera è di facile individuazione stilistica, ambient placida e distesa, vagamente ricollegata alla tradizione kraut dei Popol Vuh e i Tangerine Dream. Fra i musicisti preferiti Grilli cita anche Peter Gabriel e King Crimson, infatti, oltre all'animo prog di entrambi, Grilli estrapola brevi rimandi dalla vena world-music di Gabriel in diversi parti di "Ancient Roads".
Il suo nuovo album è un disco concettuale, dedicato al viaggio, ispirato dal sapore antico di strade calpestate migliaia di anni fa, profumato e intriso di un sentore di antichità e misticismo. Tutti questi elementi, fusione e riassunto di ogni singola componente lavorativa del musicista, danno al lavoro complessivo un fascino discreto e crepuscolare.

I dieci minuti abbondanti di "The Journey" sono l'incipit perfetto, un'ode alla rusticità di paesaggi millenari e campestri, splendida descrizione musicale della copertina di Carlo Fabbri. Le trame leggermente più intricate di "Arrival At Dakhla Oasis" fanno da contraltare alla generale pace infusa dalle lunghe "Underground Roads" e “Water Roads”, con la seconda particolarmente ispirata e incisiva (splendido il synth onnipresente). Per il resto, non male l'accoppiata "A Long Walk" e "Sky Roads", silenti fruscii di una notte, lungo un cammino infinito, attraversando terre e sentieri infiniti.

L'unico vero appunto riguarda l'estrema settorialità di questa musica, poco aperta ad altre soluzioni se non quelle prestabilite, la quale rende l'album di poco respiro e un po' asfittico. Tuttavia, le realizzazione impeccabile e il grande impegno per uscire dall'ovvio danno ad “Ancient Roads” e al lavoro di Grilli un appeal di sicuro interesse.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 27 maggio 2013

Christian Löffler: "A Forest" (Ki Records, 2012)
















Maschio, tedesco, pieno d'incantata ispirazione elettronica, Christian Loffler lascia al 2012 un album immeritatamente ignorato. Rare le notize su di lui, essendo poco più che ventenne il suo curriculum è decisamente esiguo. Ciò che si legge dalla sua biografia riguarda l'età in cui ha iniziato a comporre musica - quattordici anni - e il luogo di nascita, una sperduta regione teutonica, presumibilmente immerso nel verde e nella malinconia della campagne nord europee. Una perfetta storia per un talento esordiente, talmente inflazionata da lasciarci incantati ogni volta.

La musica di Loffler è un ambient-techno di stampo classico, battito dolce e mai pompato, tappeti di synth delicati, molta empatia melodica e tanto, tanto talento. La differenza la fanno i suoni, i quali, passando da una semplice nota ripetuta o a un rumore, fanno compiere un passo decisivo a ogni traccia, rendendola da buona a eccellente. Un esempio è "Pale Skin", placida e candida fiaba techno mediamente efficace e positiva dal punto di vista formale, eccezionale nei particolari, con uno stralcio di tastiera, unito a una polvere di bit nella parte centrale, a rendere la composizione un sogno ad occhi aperti. Ed è questa preziosa ricerca a livello tonale a rendere l'album qualcosa di più di una buona prova, progressioni armoniche come "Signals" lasciano il segno perché non sono banali, introducono continuamente nuovi elementi e fanno capire quanto il ragazzo si sia sforzato di fare qualcosa di personale.

Sia quando decide di inserire l'elemento vocale (l'ombroso techno-pop "Eleven", la commovente "Feelharmonia"), sia quando i battiti per minuto si innalzano (il bel tiro secco e pulito di "Ash & Snow", l'anthemica "Field") i risultati non sono mai scontati e banali, bensì di grande pulizia e fantasiosità. Chi ascolta questo settore della musica elettronica sa bene quanto sia difficile fare qualcosa di differente o inedito, Loffler ci riesce quasi del tutto ed è per questo che gli va reso merito. Partendo da solide basi e scorpacciate di ascolti adolescenziali, il tedesco dà un tocco naif e spensierato a una musica che se presa troppo sul serio risulta essere una parodia di sé stessa.
La rarefazione dei pulviscoli in sottofondo di "Blind" mette in primo piano un'introspezione positiva e non catatonica, perfettamente inquadrata in un piano di costruzione del brano a dir poco perfetto. Il crescendo della voce campionata, unito a un tappeto di contrasti cromatici, toglie ogni dubbio sulla versatilità di un'ispirazione cristaliina.

Ed è la conclusiva “Slowlight, dopo la spoken-techno di "Swift Code" e i colori tenui in "A Hundred Lights", un trionfo di luci sintetiche e intrecci melodici miracolosi, a dare segno che l'album è concluso. "A Forest" sarà probabilmente lasciato da parte o dimenticato, tuttavia è compito di un onesto appassionato di elettronica dargli almeno una chance, lo sforzo potrebbe essere ripagato con un'intensa soddisfazione sensoriale.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 14 maggio 2013

Lusine: "The Waiting Room" (Ghostly International, 2013)















Nonostante la freschezza della proposta e l'attualità di una musica fortemente immersa nello scenario elettronico attuale, Jeff Mcllwain aka Lusine è attivo da tredici anni. Infatti, "L'usine", esordio fortemente influenzato dall'ondata IDM, vede la luce nel 1999 e lascia in calce suggestioni di notevole spessore. Con dieci album, svariati EP e molti remix, il nostro ha saputo mantenere alto il suo stile colorato e pieno d'ispirazione, mostrando gusto e sagacia compositiva.

"The Waiting Room" è il decimo album e viene dopo la sbornia electro-pop di "A Certain Distance". Il disco uscito nel 2009 mostrava un animo pop asciutto, centrato, ispirato, contenente piccoli capolavori come "Two Dots" e "Twilight". Nonostante la formula non sia cambiata in maniera evidente, il tono delle nuove canzoni è più monolitico, sostenuto da ritmi più profondi, non tanto in termini di velocità ma di potenza sonora. Siamo di fronte a un disco di house-pop negli episodi cantati, mentre negli strumentali viene fuori un'attitudine più diluita, distesa e sviluppata, infatti, le durate non vanno mai sotto i quattro minuti e sforano spesso i cinque (punta massima l'assalto tech-house della finale "February"). Se "Lucky" splende come singolo di lancio (impossibile da non notare la perizia nei ritmi, cantata da Vilja Larjosto) pezzi come "On Telegraph" impressionano per la densità sonora, mostrando i muscoli senza mai sforare il limite della ricercatezza.

C'è mestiere e talento, c'è una sviluppata capacità di fare le canzoni con la materia elettronica e si raggiungono vette importanti - anche dal punto di vista delle suggestioni - con la leggerisima "Without a Plan" che si piazza al confine tra i motivi armonici dei furono Postal Service e un immaginario elettronico quasi j-pop. Ma è la visione complessiva del disco che mette in luce le capacità di Mcllwain maturate in una visione sempre personale ma mai ottusa, un produttore a volte distante dalle luci dell'hype ma in grado di costruire un percorso e un tratto distintivo che lo rende - nonostante la produzione più che prolifica - ancora in grado di regalare album di grande pregio come questo "The Waiting Room".

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Guidetti

giovedì 4 aprile 2013

Locust: "You'll Be Safe Forever" (Editions Mego, 2013)
















Il ritorno alla composizione per Mark Van Hoen è una succosa iniezione di vitalità per i nostalgici dell’era d’oro dell’elettronica di fine anni ’90. Mark Van Hoen, come già ampiamente descritto all’interno della monografia dei Seefeel e nelle recensioni precedenti a suo nome, ha contributo a incollarsi addosso un immaginario di grande culto. Rimasto ai margini del collettivo capitanato da Mark Clifford, l’inglese si è sempre distinto per un approccio profondamente indipendente e poco appariscente nelle sue produzioni. Poco clamore, molta sostanza e attitudine a rimanere dietro le quinte. Tanti i suoi progetti, tanti i centri, pochi i buchi nell’acqua. Locust, progetto nato nel 1994 con lo scintillio quasi amatoriale di “Weathered Well”, è proseguito in una manciata di anni con quattro album e un mito che ancora scorre nel vociare degli appassionati.

Ora, a distanza di quasi vent’anni dall’esordio e dodici dall’ultimo album “Wrong”, Van Hoen, sulla scia del suo ritorno in solo negli ultimi tempi (meritevole d’attenzione il già trattato “Where Is The Truth”), produce, compone e mette in scena il suo ennesimo atto. Con l’aiuto di Louis Sherman (di cui poco si sa) “You’ll Be Safe Forever” è un disco nostalgico, palpitante, febbrile, legato a immaginari antichi ma non stantii. Il marchio Locust è fatto salvo e perfettamente riconoscibile: electro ambientale, voci di contorno, battuta bassa, attenzione alle melodie piuttosto che al ritmo, un suono pulito, centrato, delizioso e sognante.
C’è della nostalgica nelle trame di questo disco, nostalgia per quel sapore lo-fi dell’elettronica sbocciata con numi tutelari come Boards Of Canada e Aphex Twin e sviluppata negli anni anche grazie a carriere underground come quella di Van Hoen. Nostalgia che si trasforma spesso in un dramma malinconico, quel dramma caratteristico in quella musica di metà decennio, mai scontato o funereo, tuttavia disciolto, narcotico, decisamente fuori dai canoni. Come altro descrivere “Fall For Me” se non drammaticamente bella? Voci ambientali sfuggono a un quadro ben definito in un andirivieni di brandelli di melodia e ritmi caracollati, in una complessiva sensazione di grazia bucolica e fascino sfuggente.

Composto e assembrato in ben sei anni, “You’ll Be Safe Forever” rimette in circolo però anche quel caratteristico clima tutto metropolitano che, se non lambisce gli spigoli e le asperità dell’indimenticato “Truth Is Born Of Arguments”, ne rinnova comunque in pieno le suggestioni più intime, alternando numeri più asciutti e ritmicamente sostenuti (“Strobes”, “Just Want You”) ad appannamenti dreamy che rimandano in qualche modo al trip-hop della prima generazione.
“Non abbiate timore, avrete la salvezza eterna”, evangelizza ammiccante “Do Not Fear”, dubbie promesse di pace e serenità che si disperdono nel disorientamento urbano ultimo in una manciata di preghiere downtempo, fino alla catarsi seefeelianamente oscura della conclusiva “Corporal Genesis”.

Ritorno in grande spolvero per il signor Van Hoen, dunque. Non abbiate paura e lasciatevi pure confondere dalle adulazioni del maestro: sarete tutt’altro che salvi, ma ne avrete guadagnato prospettive nuove e un ascolto di pregiatissima classe.

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo

Combustible Edison: "The Impossible World" (Sub Pop, 1998)


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Non ho mai visto citare questo album e onestamente non ricordo nemmeno io dove scovai la band. I Combustible Edison sono (stati?) un un vero e proprio "complesso": sei componenti. Una cantante dall'ispirazione vintage e una band che imbastice un teatrino strumentale molto variegato. In piena era downtempo, trip-hop e future-jazz, "The Impossibile World" è un qualcosa di assolutamente inedito. Incrocio originale e stranissimo fra lounge-jazz, cabaret-pop e atmosfere da film noir, la scaletta è un continuo crescendo di umori, stili e ritmi. Provate ad ascoltare alcune canzoni:







martedì 5 febbraio 2013

AGF: "Source Voice" (Line, 2013)















La prima impressione che si ha del nono lavoro in studio di Agf, a posteriori, è sostanzialmente quella giusta: un disco in cui non succede assolutamente nulla - se a dinamica vengono associati schemi e sviluppi usuali della popular music. Sviscerati i più diversi livelli semiotici e sociologici, la tedesca traghetta infatti, a questo turno, in una dimensione del tutto nuova la sua già intrepida ricerca artistica di estetica e contenuto, isolando con gesso fosforescente il corpo del suo oggetto di studio prediletto – il linguaggio. Affrancato dalla funzionalità e dall’utilità terminale attribuitegli dall’abitudine, questo medium sterilizzato necessita, nell’idea di Agf, di un ripensamento radicale, di essere ricondotto in qualche modo a uno stadio bambino e innocente. Alla sua fonte, precisamente.
Quello che rimane allora non può che essere lo strumento umano ripiegato su se stesso, sciolto da ogni convenzione: i testi sono scomparsi, le articolazioni linguistiche asciugate, la sensualità vocale dell’artista deformata, le strutture pop-elettroniche senza più alcun significato.
La signora Greie-Ripatti squarcia la tela quindi con un disco breve e asciutto, stilisticamente coerente con l’approdo alla label di sir Chartier, e che soprattutto fa ben poco per accomodare l’ascoltatore.

L’esordio di un'opera che si preannuncia difficile, ostica ma non inaccessibile, “The Human Condition”, lancia anche gli unici paralleli postulabili a primo acchito: gli esperimenti di Maja Ratkje e il björkianoMedúlla”, non fosse però oscurata (o meglio, ignorata) in maniera quasi programmatica ogni facile concessione romantica. L’attacco della voce è in ogni composizione nudo e inespressivo, spesso ridotto al solo respiro, salvo però deturparsi in mille direzioni diverse con il silenzioso contributo del digitale (ogni singolo suono infatti nasce unicamente dalla voce di Agf), senza fare sfoggio di alcuno stile vocale, ma con l’umile obiettivo di ridare dignità alle potenzialità inaudite dello strumento nella sua forma più cruda, timbrica e astratta. Ultimo ma non ultimo, l’intento di indurre l’ascoltatore alla reazione, allo stupore, ma anche al puro e semplice fastidio. “Breathing In Lines” e “Voice Count” si pongono così ai due estremi, la prima – nettamente il capolavoro della raccolta – si lacera a tal punto da attorcigliare un incantevole drone prossimo al rumore bianco, mentre la seconda si compone di stranianti grumi vocali al limite della sintetizzazione.

Passando per l’unica meditazione non trattata del disco (“Kaamos”), si scorge finalmente il cuore dell’opera, “Digital Yoik”, il pezzo che ha dato il la all’intero esperimento. Ispirata dall’ancestrale tradizione folk scandinava dello yoik, infatti, Agf ha trascorso un intero anno in giro per fiordi, ghiacci e montagne a cimentarsi con l’antica tecnica (stando ai libri di testo, ancora praticata da alcuni focolai tribali), che consiste nel riprodurre vocalmente, in uno stato di semi-trance, i suoni della natura e delle condizioni atmosferiche circostanti. Una scelta del tutto simbolica quindi quella di cominciare questa temeraria riforma, dalla preistoria folk che riallaccia queste ambizioni futuribili a una prosa irriducibilmente umana e terrena. L’intervento del laptop infine, più sottile che altrove, è anche qui determinante per allentare il potenziale immaginifico e completare questo inquietante rituale di purificazione digitale con un vago senso di distacco e assenza.
Superata questa soglia è possibile allora ricominciare a edificare da zero e azzardare una prima e unica melodia vocale: “Hum Pitch Play”, una modulazione semplice ed essenziale che ha fatto scuola di questa intima riflessione e che si prepara a partire verso chissà quali porti ancora da delinearsi.

L'introspezione infusa nell'approfondimento della voce come strumento giunge al suo ultimo stadio, il compimento finale e definitivo. Fin dal suo esordio "Head Slash Bauch" - più di dieci anni fa - la tedesca ha sempre dato l'impressione di avere in mente un percorso preciso, ascoltando la sua discografia si è come guidati in un sentiero che è anche la vita di una persona e di un'artista. Se negli anni i concedimenti al pop sono sempre stati di gran spessore - senza mai dare l'impressione di cavalcare le mode ma sempre coerente e sincera - la vera natura di Agf è questa, rannicchiata davanti ai suoi strumenti, profondamente immersa nella sua arte e in un raccoglimento quasi religioso. L'emblema e l'approdo verso questa sublimazione è la traccia finale in coppia con il boss Richard Chartier: un lento, silenzioso, snocciolarsi di brumi glitch e timide onde sensoriali, dolce, freddo e profondamente nordico, come la tradizione dei pionieri della frozen-ambient insegnano.

L’indagine decostruttivista della Greie è arrivata quindi al suo limite estremo.
Ci piace pensarla isolata fra i suoi fiordi, mentre disegna e immagina qualcosa di completamente diverso da "Source Voice", scardinando le certezze dei propri ascoltatori o confermandole, mettendo sempre a disposizione di chi la ama qualcosa di "diverso".
Difficile dire così dove andrà a parare questa sostanza così brumosa e indefinibile, sicuro è per ora il suo carattere di opera colta ma mai accademica o autoreferenziale, nonché esperienza coinvolgente al di qua delle cuffie: costretti a un raccoglimento nuovo con il proprio strumento, Agf ci dà un'altra possibilità di ripartire per una conoscenza altra di sé e del mondo. Non sfruttarla significa perdere un’occasione, in musica, difficilmente replicabile.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo

domenica 3 febbraio 2013

FaltyDL :"Hardcourage" (Ninja Tune, 2013)















New York, città di perdizione e confusione sensoriale. Come per "You Stand Uncertain" la miticità del posto in cui vive è un fattore fondamentale per Drew Cyrus Lustman. Quando nel 2011 il musicista americano diede alle stampe il suo secondo disco, la Planet Mu scommise su di lui, proponendo la sua musica agli appassionato di elettronica. A distanza di due anni il cambio di etichetta è un po' strano, infatti, nonostante il target della Ninja Tune non sia molto diverso, la fine di tale rapporto rappresenta una rottura con il passato. Rottura che, aldilà di dettagli contrattuali a noi oscuri, si materializza anche in termini di suono.

Ascoltando uno di seguito all'altro "Hardcourage" e "You Stand Uncertain" è chiaro il cambio di direzione. Nonostante le coordinate siano sempre le stesse – mistura di Uk Garage, dubstep e house-, il tono cambia e non poco. Nel precedente passo della sua carriera Lustman impastava le sue melodie con un retrogusto più dolce e caldo, quasi amatoriale, i suoi pezzi erano accoglienti, ambientali, profondamente legati ai luoghi. Il suo attuale stato artistico è plasmato da influenze elettroniche più secche, decise, i synth si sentono più taglienti, i ritmi meno impastati e cadenzati. Ascoltando "Stay I'm Changed" e "Gospel Of Opal" la discrasia è lampante, la prima è un ingombrante assalto di rimbombi anthemici, la seconda una flebile pop-song cantata in punta di piedi. Un centro assoluto, infatti sopratutto in ambito elettronico le sterzate sono sempre un modo per rinfrescare le proprie idee, azzerando percorsi e progetti ed approdando ogni volta in qualcosa di nuovo.

La maturità acquisita permette di spaziare in modo più che proficuo, fra tastiere e vagiti sintetici di primissima scelta (le meraviglie di "Kenny Rolls One", la dolcezza 8 bit di "Korben Dallas") e minimalismi fra cui marcette elettroniche vagamente ambientali ("Reassimilate") e fascinosi soul-pop digitalizzati ("She Sleeps"). In mezzo ad episodi canonici ma pur sempre ben realizzati ("Straight & Arrow", "Uncea"), si scorge altra epicità in "For Karme" al cui interno troviamo un agglomerato di suoni e ritmi così ben fusi assieme da risultare quasi un pezzo educato e gentile, tuttavia la stratificazione del suono si rivela appieno  dopo un ascolto attento.

Queste ed altre meraviglie compongono l'immaginario sonoro di FlaltyDL, un artigiano sapiente e incantato, con i piedi per terra ma baciato da una magica ispirazione. Se vi piace l'elettronica o semplicemente un bel disco di ritmi e suoni originali, questo è ciò che fa per voi, con la preghiera di uscire fuori dal proprio orticello e far entrare "Hardcourage" nelle vostre grazie.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 13 gennaio 2013

Mock & Toof: "Temporary Happiness" (Tiny Sticks Inc, 2012)















 A due anni di distanza dal notevole "Tuning Echoes", ecco ricomparire il duo inglese Mock&Toof.  Dopo tutta una serie di apparizioni più o meno considerevoli presso i locali più ambiti di mezza Europa, Duncan Stump (Mock) e Nick Woolfson (Toof) hanno ben pensato di accomodarsi in cabina di regia e dar vita alla seconda opera della loro (fin qui) breve e luminosa carriera. Messa momentaneamente da parte la facile propensione al remix (non a caso, i due sono tra i remixers più richiesti da quel buontempone di James Murphy per la sua DFA, ma anche dalla tedesca Permanent Vacation), con il qui presente "Temporary Happiness" questi due gemelli del groove sembrano aver placato la propria sete electro-pop ad appannaggio di una mescola più quieta ma non per questo meno fascinosa e pulsante.

Se con l'esordio l'intento era far confluire elettronica da intrattenimento  e certo synth-pop inglese dei primi Ottanta dal ricamo tropicale, ora pare aver preso quota un'improvvisa smania lounge, tra battiti appena abbozzati, sezioni e ricami mai invadenti, oltremodo eleganti e sinuosi. La sola "Everything Is Know", con quel suo tastierone bislacco farebbe gola all'intera Gomma di Mathias Modica, aka Munk. Ma non solo. L'erotica divagazione vocale posta nei primi istanti di "My Head", sfumata gradualmente a metà del piatto seguendo un motivetto tanto banale quanto penetrante, lascia ben intendere le nuove attitudini del duo, prima che una sensualissima voce deep-soul prenda gradualmente il sopravvento, lasciando che il ritmo ne assecondi le grazie.

Il party-pop dell'esordio è ormai un lontano ricordo – dimentichiamoci la vena modaiola di "Farewell To Wendo"-, infatti già con "Confusion Time" il battito rallenta, mostrando il fianco a una generale rivisitazione dell'approccio alla composizione attuata dal duo. Nonostante qualche episodio stanco e un po' melenso (il lounge-pop senza spina dorsale di "Sleeper"), la band sa dare segnali di inventiva con fumosi noir-pop sciccosissimi (le convulsioni vocali di "Don't Work, Don't Care", il bel battito chillout di "Confusion Time"), dimostrando capacità sia come beat-maker – notevole il downtempo di "Happy Crash" - sia nelle vesti di creatori di melodie (gli incroci di synth estasiati in "Snowball"). “Temporary Happiness” ha bisogno di tempo per farsi apprezzare, non ha la presa rapida del suo predecessore e agli inizi potrebbe non piacere. Non avendo dalla sua un singolo killer o un piglio pop contagioso, ma bensì un tono pacato e dimesso, il disco non si ancora al passato ma bensì evolve, evitando una pericolosa stagnazione su percorsi abusati (vedere la carriera degli Hot Chip per esempio).

Stump e Nick hanno voglia di andare avanti, progredire e proporre sempre qualcosa di nuovo, magari in principio potrebbe essere difficile da accettare ma in questi casi è sempre la scelta giusta. Non c'è niente di più deludente nel vedere una band a cui vogliamo bene scadere nella monotonia e nel mestiere. Dunque, benvenuto “Temporary Happiness”!

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Kreidler: "Den" (Bureau B, 2012)
















Tornati in grande stile solo un anno fa dopo un periodo di lunga assenza, il collettivo tedesco si ripresenta nel 2012 con "Den". "Tank" ha rappresentato il vero canto del cigno per una band condannata da più di un decennio al quasi totale oblio. Album inappuntabile e frizzante, mischiava sapientemente, come da tradizione kreidleriana, kraut-rock, elettronica teutonica e spazialità post-rock, sintetizzando in maniera perfetta un'intera carriera di sperimentazioni.

“Den” ricalca quasi pedissequamente quello che avevamo detto per "Tank". Infatti siamo di fronte a sette composizioni formalmente inappuntabili, realizzate con un pizzico di maniera, le quali a questo giro pagano un po' di staticità ritmica e melodica. Nonostante gli amanti della musica dei Kreidler e in generale gli appassionati di musica strumentale apprezzeranno, "Den" mostra un po' la corda dopo i primi ascolti, dimostrando come le tracce siano come uscite da una coda della session di registrazione del quasi coetaneo "Tank". Non mancano certo flessuose melme electro-rock (le atmosfere nebbiose di "Moth Race", i fumi industrial in "Cascase"), né lande elettroniche di splendida fattura come i riflessi sonici della chiusura "Winter", nella quale vengono campionati degli spari di fucile; è nel complesso che l'album non trascina definitivamente, non riuscendo a mettere in fila tutto il necessario per anche solo eguagliare il centro del predecessore. Tutta questa qualità in un album "minore" dimostra come la band abbia capacità di esecuzione ed esperienza compositiva fuori dal comune, dando ulteriore linfa al mito di una carriera per troppo tempo dimenticata.

Non una definitiva bocciatura vista la perfezione esecutiva e i rimandi stilistici, tuttavia ci sentiamo di consigliare questo album ad adepti del genere, mentre rimandiamo tutti gli altri, soprattutto a chi non conosce i Kreidler, ad ascoltare il capolavoro "Tank".

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 6 gennaio 2013

Crystal Castles: "(III)" (Fiction Records, 2012)















Autori negli anni di un versione peculiare della stagione electro-clash, Alice Glass e Ethan Kath tornano con il loro disco numero tre, tre (questa volta fra parentesi) come il titolo dell’album: "(III)". Nonostante la formula dei Crystal Castles non sia mai stata rivoluzionaria, il carisma della cantante, unita al sapiente lavoro di regia del sodale maschio, ha contribuito a creare un alone di mitizzazione intorno alla coppia. Concerti colmi di fan nero vestiti, miriadi di gadget come le pop-star, attesa spasmodica per le nuove prove, tutto questo ed altro rende la pubblicazione di "(III)" un qualcosa di relativamente significativo.

Non ci discostiamo un granché dal passato, infatti siamo sempre di fronte a una forma stracciata, svestita e stuprata di electro-pop. Ritmi e melodie opprimenti, cantato squarciato in gola, ariosità ridotta allo zero, giochini elettronici e tanto disagio generazionale. La solita minestra per le solite orecchie verrebbe da dire. I due di Toronto però non sono degli stupidi, riescono a creare l’evento unendo misticismo di facciata e una musica che colpisce tale è forte il sentimento di disturbo umano del quale è intrisa. Non molte le canzoni forti a cui fare appiglio per un lancio su scala internazionale (forse la sola "Pale Flesh"), tuttavia la sensazione è che "(III)" vada preso nel suo complesso, considerando i quaranta minuti di musica come un unico canto di un cigno bianco malato, ferito e morente.

E' un insieme conturbante, in cui si evince un netto nichilismo melodico, con la Glass a sguazzare perennemente nell'ombra, tra alzate di tono e improvvise cadute nell’oblio. La sezione ritmica imposta da Ethan Kath abbraccia il synth pop deviato dei primi Ottanta con le tastiere a ricamare giretti ombrosi e mai domi. Pare di assistere a un'improbabile fusione tra il Wes Eisold di "Cremations" ("Insulin", "Telepath")  e un disco rotto fatto girare perlopiù al contrario. Allo stesso tempo, subentrano qua e là altri paralleli (im)possibili, come suggerito dal campionamento di "Wrath Of Gold", rubato magari agli Underworld, o l’intro sbilenca e fatata di "Transgender", con la fascinosa Alice ben ferma sullo sfondo prima che Ethan (ri)giri a modo le proprie manopole.

A differenza dei due predecessori, "(III)" è un disco genericamente pulsante. Lo conferma il groove emo e vibrante di "Violent Youth", così come i vari stop&go mutanti di "Mercenary" con tanto di tastierone lunare in coda a ipotizzare fantasmi e qualche demone disperso.
Trascorsi i sette anni di attività, i Crystal Castles mantengono ancora intatto il cristallo che costituisce il loro bel castello sonoro, ergendosi di fatto a paladini del nuovo electro-clash, tra agghiaccianti spruzzate sintetiche e una sempre più nutrita schiera di giovanissimi adulatori.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli