domenica 26 giugno 2011

Boxcutter: "The Dissolve" (Planet Mu, 2011)



Irlandese distinto e poco menzionato negli articoli che contano, Boxcutter arriva al quinto album con alle spalle una carriera di tutto rispetto. Cavalcando solo in parte la moda del dubstep, Barry Lynn ha inanellato un'opera più significativa e incisiva dell'altra, dimostrando personalità e gusto artistico rarissimi. Giunto ad un bivio in cui si può scegliere se attestarsi su un ritmo da croceria dignitoso o sfondare la porta del cambiamento, il ragazzo prende la seconda via e spiazza tutti con qualcosa di veramente inusuale.

Lasciata da parte la nebbia dubstep a cui attingeva ai tempi di “Glyphic”, l'artista incorpora nella sua miscela influenze inusuali per il suo passato. In “The Dissolve” troviamo una chiara struttura ritmica funk, la quale viene espressa con l'innesto di basso e percussioni suonate, oltre ad alcune voci femminili di ispirazione soul. Questa scelta, mutuata dallo spirito originario della techno, si tramuta spesso in costruzioni funk/techno che ricordano i miti Robert Hood e Derrick May, fino a raggiungere vere e proprie cavalcate basso/voce in stile funk/soul. L'asciuttezza di questa soluzione propone tredici tracce bilanciate fra inventiva e classicità, componendo un album solido e viscerale.

Il disco si sviluppa con un inizio che esprime la nuova tendenza con tre ballate funk spaziali e avvolgenti, successivamente si possono trovare numeri techno d'alta scuola (le magnifiche melodie incantate di “Cold War”, “Factory Setting” e “Moon Pupils”), strumentali fra elettricità e ritmi decisi (“Passerby”, “TV Troubles”) e qualche ultima concessione al dubstep (i bassi corposi in “Little Smoke”). Fra una title-track un po' fumosa e poco chiara, avvolta da un coltre di ritmi indecisi se spingere o rallentare, e qualche altro episodio inattaccabile (gli intrecci sintetici di “Topsoil” e “Allele” faranno la felicità di ogni appassionato di elettronica), l'album conclude con l'ennesima canzone cantata da Brian Greene ("Ufonik") suggellando le trovate menzionate ad inizio disco.

Non un quinto disco banale per Boxcutter, la scelta di rinfrescare la sua musica con l'iniezione di innesti classici e fisicità funk ha prodotto risultati rigeneranti scongiurando il morbo della staticità e dando una nuova linfa alla sua carriera.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 14 giugno 2011

Gus Gus: "Arabian Horse" (Kompakt, 2011)



Intenti ad approfondire una forma tutta personale di musica elettronica, gli islandesi Gus Gus giungono al settimo disco in studio, due anni dopo lo splendido “24/7”. Assunte per l'occasione tre vecchie conoscenze del gruppo come Urður "Earth" Hákonardóttir, Högni Egilsson e Davíð þór Jónsson, con “Arabian Horse” il trio continua un discorso di perfezione formale e di contenuto iniziato con il precedente album. Naturale propaggine delle dieci tracce pubblicate nel 2009, la nuova prova sviluppa e approfondisce temi solo accennati in passato.

L'attuale intento dei Gus Gus sembra quello di mostrare al mondo le linee guida per compilare delle canzoni dance. Rimanendo fedeli all'isolamento che caratterizza la registrazione delle loro sedute di studio, “Arabian Horse” è stato realizzato in una abitazione immersa tra i ghiacci nel mezzo dell’Islanda. Questa atmosfera elegiaca, spartana e fiabesca, si traduce in suoni altrettanto estatici. Allergica al manierismo o alla sterile rivisitazione, la musica del trio è una fresca e studiata miscela di suoni vivaci, vividi, votati alla distensione house progressiva, formula della quale la band è rappresentante quasi unica.

Fra progressioni di synth modulari che prendono il sopravvento (l'iniziale “Selfoss”, la fluida “Changes Come”) e decisi trance-pop stellari (mai uguali a se stesse le varie “Be With Me”, “Deep Inside” e “Magnified Love”), il disco assume una personalità statuaria e inattaccabile, mostrando i muscoli mentre accarezza note delicate. Dove il battito si tramuta in deciso martellamento techno (le forti tinte soul di “Over” e “When Your Lover's Gone” e “Within You”) i toni variano, alternando algida freddezza e calore viscerale. Lasciati per strada i brillanti vocalizzi femminili nella title track e la stramba “Benched” (battuta bassa, melodie ariose e accenni idm), l'album conclude il suo percorso con maestria e possenza.

Mai domi e assoluti pionieri di uno stile autentico ormai dimenticato, i tre cesellatori dance provenienti dal freddo prendono in mano la materia e la plasmano ottenendo risultati perfetti da ogni punto di vista. La loro arte è classica ma non manieristica, avveneristica ma non pretenziosa. Come il palpitante destriero bianco in copertina, l'album dei Gus Gus è fatto di vento e sangue, cuore e velocità.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 1 giugno 2011

Agnes Obel @ Chiesa di Sant'Ambrogio, Villanova di Castenaso (BO), 22/05/2011



In un contesto da rito medievale o sacra liturgia cattolica, si svolgono nella chiesa di Sant'Ambrogio a Villanova di Castenaso dei concerti particolari, collegati al Rocker Festival, che ogni anno si tiene a Bologna intorno alla metà di maggio. Grazie alla collaborazione del Covo Club e alla disponibilità del parroco Stefano Benuzzi, le date hanno proposto musica di grandissima qualità: dopo la nobile partenza con le sue tenerezze acustiche di Mark Kozelek, il programma è proseguito con l'intenso cantautorato pop di John Grant e con le composizioni neo-classiche di Dustin O'Halloran. L'ultimo concerto di questa particoalre rassegna è stata l'esibizione di Agnes Obel, cantautrice danese lanciata da un album meraviglioso (“Philarmonics”) e dall'inclusione di un suo brano nella colonna sonora di "Grey's Anatomy".

Con le panche della chiesa riempite da un pubblico eterogeneo, l'artista si presenta sul palco al piano, mentre al suo fianco si accomoda la violinista a supporto. Sorpresa da applausi generosi e fragorosi, la ragazza, seppur trincerata dietro un'estrema timidezza, infonde una forza incredibile alle sue canzoni. In grado di personalizzare con arrangiamenti live le tracce originali del suo debutto, la danese attira l'attenzione con un fare angelico, suonando il piano con precisione e finezza, coadiuvata perfettamente dalla sua partner, che non le è inferiore in termini di empatia e vigore. L'atmosfera si fa via via più intima grazie a un continuo susseguirsi di sibili, docili linee vocali e splendide partiture pianistiche.

L'esibizione è veloce, emozionante, scorrevole, non ha sbavature e il ritmo lento delle canzoni non appesantisce ma rende il tutto deliziosamente flemmatico, mozzafiato, quasi una lieve cantilena d'amore della durata di un'ora e mezza. Il contesto chiesastico è un perfetto guscio che pare essere costruito appositamente per ospitare questi suoni e non altri: le pareti, le luci, i piccoli anfratti della cappella settecentesca proteggono i suoni rilasciando un'acustica cristallina e incantata. Nonostante queste premesse, non è facile immaginare le delicate litanie “Just So” e “Riverside” risuonare fra queste mura conscrate, le parole non possono restituire tale emozione tanta è la particolare empatia creatasi fra contenuto e contenitore.

Nonostante qualche fastidio provocato dai flash dei fotografi, l'artista danese si è dimostrata grata e riconoscente per il calore dimostrato dal pubblico con un fare dimesso ma pur sempre rispettoso. Sorrisi, qualche cenno di consenso e un paio di inchini prima e dopo il bis sono quanto la sua indole introversa ci ha concesso.

Convinti di aver assistito a qualcosa di veramente speciale, consigliamo a chiunque abbia la possibilità di vedere un concerto di Agnes Obel in Italia o all'estero di fiondarsi senza esitazione, il prezzo del biglietto sarà ben ricompensato da uno spettacolo con pochi eguali.


recensione di Alessandro Biancalana