domenica 26 marzo 2006

TUNNG




una band nascosta proveniente dagli u.k. che sa rendere il folk un qualcosa di morboso e ballerino. quel tentativo di ammorbare il corpo acustico con le macchine invadenti.
I due componenti (Mike Lindsay e Sam Genders) hanno girovagato per un bel periodo intorno alla realtà indie, collaborando sia come produttori sia come musicisti in varie formazioni.
Iniziano a pubblicare dei 7" agli inizi del 2004, palesando la loro voglia di uscire dai canoni dei cantautori tutta acustica e cuore.
la primissima uscita, il singolo A Tale From Back, contenente la title-track, un gioiellino splendente e delicato, dolcemente rumoroso e scorbutico. una chitarra strimpella agonizzante, fra un drone strisciante e una polvere digitale che compare qua e la. Il ritmo è sostenuto da una drum-machine povera e malandata, degli strappi elettronici lacerano un andamento claudicante.
la successiva Pool Beneath The Pond è una canzone monca e sconclusionata, la riflessione in uno specchio distrutto della precendente.
dopo pochi mesi ecco un altro 7" ed ancora due canzoni.
Maypole Song è un giochino fantasioso e giocattoloso, Surprise Me è un perfetto connubio fra un folk amatoriale e una macchina impazzita. una miriade di bleeps va a braccetto con le note cristalline delle corde pizzicate.
dopo l'ennesimo 7" (Magpie Bites), con altre due perline sibilanti ("The Bonnie Black Hare", "Magpie Bites"), esce, finalmente, il loro album d'esordio.



Tunng: "Mother's Daughter And Other Songs" (Static Caravan, 2005)

qua c'è tutto quanto avevano già dimostrato con le loro prime prove.
una fusione assolutamente coesa e compiuta fra una chitarra che suona a bassa fedeltà e un rigurgito elettronico, una manciata di canzoni piacevolmente velenose e contagiose.
L'iniziale Mother's Daughter è un lamento ossessionante e magico, fra rintocchi solenni e un battito che rimbomba. Due voci decantano la loro poesia raccontando storie fantastiche ed immaginifiche.
un mantra oscuro e rimbombante, si dipana fra la notte (People Folk), sfigurare un qualcosa che si chiamava canzone, fra una parola che si sdoppia e delle note che non sanno più dove collocarsi (Out The Window With The Window).
Beautiful And Light è un vero e proprio capolavorino con quel goccio di pazzia compositiva, sapiente lavoro di costruzione ritmica, in cui il battito è davvero ben ibridato con uno strappo digitale da una parte e uno strimpellare felice dall'altra.
Di Tale from Back abbiamo già parlato prima e, rispetto alla prima versione, c'è soltanto un arrangiamento che si fa più vivo e ricco.
Song Of The Sea mi ricorda i deliziosi Woodcraft Folk, per il gusto lo-fi e bambinesco. La fisarmonica libera suoni d'altri tempi, un banjo pare uscito da un concerto country, la percussione è finta e si connubia perfettamente, senza lasciare perplessi.
Kinky Vans è forse (anzi, lo è) il pezzo più bello del disco.
Sdruciture elettroniche, contornate da un oblio di glitch-ettini, notarelle storpiate, un groove IDM, momenti di marasma orchestrale, con un violino e un cello che si intrecciano come due amanti. 5 minuti di pura sperimentazione dolcemente accessibile.
Una pioggia bagna un fiore e lo spezza involontariamente, con un gruppo di amici a pochi passi che cantano una litania fra il malinconico e il nostalgico (Fair Doreen), un'insistenza quasi danzerina seduce una chitarra ben vestita (Code Breaker).
Conclude Surprise Me, di cui ho già parlato e non posso che confermare quanto detto: classicità deformata, una canzone gustosa e saltellante.
Arrivati al 2006, spunta The Pioneers, un EP bellissimo.
si parte con il remix di un pezzo dei Bloc Party, la title-track.
questo pezzo è fantastico, non ho altro da dire.
andamento sincopatico, un cantato che va a rima come un poeta scrive il suo poema, il battito digitale è gentile e conciliante, i rumorini metallici in sottofondo sono un brivido che ti sale per la schiena.
quando si approccia una voce femminile il tutto si tramuta in candore, fra una vocalizzo angelico e un racconto congelante.
uno dei rifacimenti del 2006, ci sono poche storie.
un remix di Tale From Black sono scheggie glitch che pungono con dolore e sensazioni contrastanti, la riproposizione della vecchia Pool Beneath The Pond è soltanto benvoluta, ancora più tenera e graziosa, ma confusionaria e distratta.
spero vivamente che prima o poi si facciano un giretto in Italia per regalarmi queste emozioni dal vivo, per godere, a turno, di una chitarra che gentilmente si concede, e uno schiocco che con il suo approccio ballerino mi farà sognare.

sabato 25 marzo 2006



visto la settimana scorsa. non mi ha impressionato.
una discreta storia adolescenziale, fra vendetta, amicizie controverse, rapporti frustranti.
la colonna sonora è molto avvolgente e gli attori discretamente espressivi, con punte di malinconia discrete.
il film nel complesso è carino ma la storia, non so, non mi ha avvolto completamente e ne sono rimasto un po' estraneo, senza affascinarmi.
ripeto, magari ce ne fossero sempre di film così, sopratutto in questo ambito.
da ricordare i diversi premi che ha vinto. secondo me, in parte meritati.
da segnalare il finale. lacrimevole e significativo.
comunque sia merita la visione.
SAIMIR (Francesco Munzi)



toccante, veramente toccante.

non avevo mai visto un film sulla degenerazione dell'immigrazione in Italia.

il film che avrebbe voluto fare Tullio Giordana, sprofondato nella banalità con la sua ultima prova. agghiacciante e superficiale.

qua dentro io c'ho visto moltissimo dell'ultimo fantastico film di Amos Gitai, Terra Promessa. i due film sono molto diversi, ma i temi di fondo, l'intenzione è quella. mostrare un mondo vagamente immaginato ma mai mostrato con tutte le sue verità laceranti.

Francesco Munzi è già autore di ottimi lavori, i cortometraggi Giacomo e luo ma e Nastassia, rispettivamente del 2000 e del 1996.

questo film è bello e lacerante, vero e diretto.

si racconta la storia di un ragazzo albanese costretto a una vita fatta di furti, trasporto di gruppi di persone in Italia, aiutando il padre in questo traffico illegale e maledetto.

Saimir è un ragazzo testardo, dolce ma soccombente ai voleri del padre, d'altrocanto è l'unico modo per la loro famiglia, altrimenti costretta alla fame.

l'amore per una ragazza morto sul nascere, palesando la sua incapacità d'instaurare rapporti umani, relegato in un'esistenza fatta d'immagini strazianti.

la sua vita è uno schifo.

fra un furto e l'altro, nella sua testa medita la svolta.

toccante la sequenza in cui assiste al raggiro sottoposto ad un ragazzetta di 15 anni, a cui è stato promesso d'andare a Milano. sarà portata in un bordello, per fare da giocattolo sessuale. assite e soffre, assiste e muore dentro di se.

più le immagini scorrono, più non riesce a vivere in questo mondo che gli gira intorno.

si ribella, lascia andare tutto.

il finale è, per così dire, la dimostrazione della sua bontà.

i cattivi vengono rinchiusi, il suo viso scorre in un auto, al tramonto, con la musica che suona, il sole che splende per l'ultima volta, nel giorno più caldo e bello della sua vita.
Ossessioni della settimana



Ant: "Footprints Through The Show" (7)

ma che bello questo disco..
acquarelli folk di delicatezza floreale e bellezza cristallina.
il trittico iniziale è da lacrime gioiose e sorrisi malinconici.
mi riesce difficile togliere dal lettore mp3 questo disco, mi ritrovo spesso a cantare queste canzoncine deliziose.
Slipped Away mi ha gonfiato il cuore d'amore e felicità.Cool



Castanets: "First Light's Freeze" (8)
Castanets: "Cathedral" (7,5)
Castanets: "What Kind Of Cure" (7,5)

eccoci qua, davanti a una band fra le più (immeritatamente) dimenticate.
un frizzante ibrido fra un folk cristallino e un'elettronica spumosa e colorata.
sia il lato più intimista e scarno (What Kind Of Cure), sia gli scampoli più alieni e disturbati (First Light's Freeze), sono un piccolo sogno magico che si realizza.
Good Night, Yr Hunger è balletto amatoriale, No Voice Was Raised è bella da far male. mira al cuore, proprio nel centro.



Caroline: "Murmurs" (8)



Artiste Jappo della settimana

 

+



Melody: "Be as one" ( /10)
Melody: "Sincerely" (7)
Maaya Sakamoto: "Yunagi Loop" (8)

è uscito il secondo disco di Melody..
erano mesi e mesi che aspettavo questo disco, propio un'attesa snervante.
quasi intimorito dalla delusione avuta con Ayumi Hamasaki (Sad), non mi sono fatto aspettative d'ogni sorta e ho ascoltato questo album con tranquillità. e ho fatto bene.
ieri mattina mi è arrivato il pacco dal giappone.
Be as One è bellissimo.
see you... mi sta colorando le giornate d'un atmosfera tenue, la title-track è pianto felice, Realize si candida fra i pezzi jappo dell'anno. Close Your Eyes non è ancora realizzabile. fra qualche giorno capirò che è vera. un voto per ora non c'è.
anche il primo Sincerely non è affatto male, visto che contiene canzoni come Just Be a Man, Over The, Cristal Love. Gocce di rugiada splendenti.
vabbè, eppoi c'è Maaya. Lei non mi tradisce mai.


Sorpresa della settimana



Temporary Residence Limited. 1st Episode

The Anomoanon: "Everything Comes & Goe" (7)
The Anomoanon: "Joji" (7)
The Anomoanon: "Asleep Many Years in the Wood" (6,5)
Bellini: "Small Stones" (8)
By The End Of Tonight: "A Tribute To Tigers" (7)
Cex: "Starship Galactica" (7)
Howard Hello: "EP" (7)
Howard Hello: "Don't Drink His Blood" (7)
Eluvium: "An Accidental Memory In The Case Of Death" (7,5)
Nice Nice: "Summer" (7)

conoscevo già qualche disco di questa etichetta, ma non avevo mai approfondito fino a fondo. diciamo che ero rimasto alla discografia dei Fridge e poco più.
dopo la folgorazione per Caroline mi son deciso ad ascoltare buona parte, se non tutto il catalogo.
beh, ne sono rimasto affascinato.
i Bellini li conoscono già tutti e il disco indicato è un siluro di distorsioni, gli The Anomoanon sono un carillon autunnale per casette di montagna, con canzoni belle da far innamorare.
passando per gli schizofrenici passaggi post-noise-rock dei By The End Of Tonight, cullando sogni immaginifici con l'ambient delicata di Eluvium, toccando le stelle con Cex.
menzioni specialissime per Nice Nice e Howard Hello.
i primi sono uno sperimentalisimo alieno e scuro, fra uno space-rock stellare e un rumore di sottofondo che ti sfonda lo stomaco. Deliranti.
simili ai Tarentel, ma più eterei gli Howard Hello. un incubo delicato e appartato, con canzoni come Even More Of The Same e Follow che non lasciano scampo. Sognanti.
prossima settimana ascolterò un'altra manciata di dischi e vi farò sapere.

giovedì 23 marzo 2006


Juan Atkins: "The Berlin Sessions" (Tresor, 2005)


Uno dei massimi padrini della techno marchiata Detroit ritorna alla ribalta con sei tracce intitolate nella maniera più appropriata, semplicemente: "The Berlin Sessions". Deragliante semplicità. Strabordante perfezione.
Torna l'uomo che ha ribaltato con scossoni tellurici tutta la storia dell'elettronica: dal progetto Model 500 alla storica etichetta Metroplex. Impartendo lezioni a destra e a manca, dando le basi per lo sviluppo della musica-tutta.
Pensare a un disco di Lui ieri e veder una nuova uscita oggi rende il tutto leggermente straniante. La techno, a corto di soluzioni innovative, stagnante, addizionata solo di bpm, estremizzata in questi anni, al suo cospetto si blocca. Il suo tocco immobilizza mente e corpo. Non accenna a cambiare al cospetto del tempo, un tempo che sembra non passare. O semplicemente ancora lontano, ancora una volta. Non rimane nient'altro che ascoltare in silenzio. Catarsi interplanetaria.
Il disco è prodotto insieme a una nuova promessa della techno berlinese, Pacou, e non poteva che essere pubblicato dalla storica Tresor.
I suoi groove cosmici sanno di spazio. Profumano di leggenda. Ed è leggenda, sono mani che assemblano una dimensione parallela. Trasportano l'inconscio in una realtà fatta di ballo, sangue, buio ed esplosioni luminescenti. L'anima del dancefloor riluce nuovamente sotto il colpo della cassa. Luccicanti aneliti stellari, sofferenti interiora funk, perfidi stomp ossessionanti. È l'antico splendore che sembrava perso, un genere chiuso tra introspezioni minimali molto spesso autoreferenziali e macrobeat serrati, costruiti per l'amalgama chimica di un rave. Bleep sovente si intromettono con coraggio apprezzabile e paiono pianeti lontani rispondere al richiamo del suono. Atkins ci introduce ancora nel suo mondo di visioni techniche, è incredibile pensare alla longevità creativa di questo uomo. È un piacere straordinario sentire ancora quei suoni, prodotti ora per suonare nel 2005, ma che fanno comunque da apripista.
Musica per un club di alieni su Marte a migliaia di chilometri sottoterra. La terra trema e non può esimersi dal farlo. Ogni singolo insignificante granello batte, sbatte, ritorna, compone, distrugge.
Fondamenta techno, animo house, screziature elettro. Turbine devastante di generi e influenze. Materiale immortale e immarcescibile. Mai un club terreno potrà riprodurre un ambiente adatto per ospitare timbri, schiocchi, sciabordate di questa portata. Lo spazio verrebbe saturato e l'ossigeno disintegrato. Saturazione inevitabile, insopportabile. Solo il silenzio potrebbe ascoltare.
Suoni moderni, l'acidità che si impossessa del beat nella quinta sessione, quel suono idraulico che Atkins utilizzava quindici anni fa, e che ora l'house imbastardita ha adottato, qui torna a casa. Una progressione di suono che punta verso vette di nuova vita, l'eco analogico unito alla modernità digitale, senza mai invadersi, fondendosi anzi.
Ci si potrebbe chiedere cosa c'è di miracoloso in un album che sembra non avere nulla da aggiungere a quello che disse già in passato Mr. Mastermix, o che non dissero già Hawtin, Silent Phase e soci. La risposta è nell'ascolto. La risposta è la classe sovraumana di un uomo che dopo aver fatto storia, dopo aver fatto spazio alle nuove leve minimali quando il suo tempo sembrava essersi concluso, è tornato a dettare legge. Una legge primitiva, quella del ritmo. Quello di trovare sempre nuove soluzioni in un suono secco e preciso, senza la follia iperproduttiva di quell'Aphex Twin che continua a essere in gran forma.
Atkins è un uomo che mette il proprio suono davanti a tutto. Lo dimostra il centro del disco, la terza e quarta sessione, opposte. L'antitesi l'una dell'altra. La prima risucchiata nel vortice castigato di microvariazioni, di suoni d'ambiente e una cassa, piccola, a scandire il tempo. Uno sguardo a un tempo forse un po' grigio. La seconda, opulenta, macroscopica. La cassa piena, un piano funk e synth a colorare il suono. Raramente una canzone ha avuto così tanto corpo, si sente addosso questa profusione di solarità. È una sensazione incredibile.
La chiusura è affidata al remix e reinterpretazione della prima traccia. Pacou incattivisce il suono, lo rende tribale e trascinante, un beat lento e cupo, come una chitarra degli Jesu è un vortice malato. Una depressione cosmica che muta lentamente per poi morire lentamente. Se ha avuto l'onore di collaborare con un gigante come Atkins non è stato per caso.
Il disco si ferma. Rimane lo stupore davanti alla bellezza di questa creatura. "The Berlin Sessions" è un viaggio nella techno, di qualsiasi estrazione. Juan Atkins ha colpito ancora. La musica elettronica nel 2005 ha ritrovato il suo miglior profeta.



(8,5)


Recensione di Biancalana Alessandro e Guidetti Alberto



Edie Sedgwick: "Her Love Is Real... But She Is Not" (De Soto, 2005)

Guardate la copertina. Riconoscete quella faccia spiritata? Si, è lui. Il bassista degli ex-El Guapo (ora Supersystem), tale Justin Moyer che diventa una drag queen. E' lui il protagonista di questo nuovo disco della combriccola. Si traveste da donna, un po' di rossetto, sguardo effemminato, abiti stravaganti (guardare il booklet per credere) tanta voglia di divertire e un nome forgiato per l'occasione: Edie Sedgwick. I titoli delle canzoni dedicati a vari attori (!?!, umoristicamente serio il racconto presente nel booklet). Il disco? Beh, siamo sulle coordinate dell'album uscito da poco sotto il nome Supersystem ("Always Never Again"). L'unica differenza sta nel fatto che l'evoluzione dei nostri è stata su ritmi più dancy, questo riprende l'anima giocosa e lo spirito del divertimento che più gli si addiceva. Per capirici, siamo sulle orme di "Fake French" (firmato El Guapo). Canta solo Justin coadiuvato da Pete Cafarella e Rafael Cohen, e il risultato è uno spasso totale. Drum-machine in delirio, synth presi da forti convulsioni, voci in loop e un sacco di pazzie assortite.
Si parte con un pezzo ("Martin Sheen") basato su un giro di synth simpatico e seguito da un groove veramente contagioso, la voce cangiante che ne segue è perfetta. Si applaudono pure da soli nel finale. Spassoso. Sulle stesse basi si attesta "Sigourney Weaver": synth svolazzante, batteria in amplesso, voce assatanata. Segue una techno-song ("Robert Downey Jr.") da far impallidire: drum-machine possente, organo trattato in sottofondo e voci in loop che rendono il tutto alquanto straniante, ma al contempo originale. Si avvicenda un minuto scarso di pazzia pura ("Lucy Liu"), vari strumentini elettro liberi di intrecciarsi, come non si sentiva dai tempi di "Super/System" (sempre sotto nome El Guapo). Il risultato rimane ai quei livelli. Altra gemma: "Molly Ringwald". Base di basso, ritmo tenuto dalla drum, chitarra molto eterea, coro in loop in sottofondo; mettiamoci altre convulsioni digitali sul finale e amenità assortite: stupenda.
"Michael J. Fox" forgia un suono elguapiano, coretti da sbellicare, rumori che provengono dal nulla, strumenti elettronici sapientemente dosati, fantasia da vendere. Ecco un pezzo tipicamente punky-funk, come vuole il trend attuale ("Arnold Schwarzenegger II"); forse l'unico un po' troppo normale rispetto al disco. Il finale rimane comunque divertente, come sempre del resto. Vera techno in "Tim Robbins", con groove possente, soltanto un minuto rosicchiato, purtroppo. Si prosegue con "Harrison Ford": altro pezzo non dissimile dai tratti descritti sopra, comunque marchiato da ritmi spezzati e da una melodia malata.
Mancava proprio di nominare il buon "Tom Hanks (II)". Ed ecco qua l'ennesimo pezzo da ricordare. Inizio stranamente pacato, con Justin che recita nel silenzio, quando inizia la base musicale sono faville: una drum-machine così giocosa non si sentiva da un po'... da ascoltare in loop per ore. Avanti con un pezzo abbastanza standard ("Sally Field"), forse l'unico un po' stanco. Le coordinate sono quelle di brani piu inspirati, ma la melodia non prende. Li perdoniamo. Il penultimo pezzo è una piece per organo (da messa), rumorini glitch in sottofondo e voce struggevole: interessante. Chiusura affidata a "Haley Joel Osment": altra meteora volante che ti prende e non ti lascia più.
Cosa dire di questo disco? Nel complesso è da ricordare. Nei singoli episodi siamo davanti a un lavoro molto ben fatto, che cade solo su alcuni pezzi un po' meno ispirati ("Sally Field", "Arnold Schwarzenegger II"). Rimane questa la strada che dovranno seguire i compagni del nostro Justin: divertirsi e farci divertire con i loro motivetti accattivanti e la loro fantasia. Lasciar perdere velleità troppo dance e riprendere il cammino iniziato benissimo da "Super/System" e "Fake French". Promosso a pieni voti.

(7)


Spoon: "Gimme Fiction" (Matador, 2005)


Provenienti da Austin, Texas, sembrano il solito gruppo di indie-rocker. Quanto di più sbagliato. Ripudiati dalla Elektra (stessa esperienza provata dagli Stereolab) per le vendite non all'altezza.

Linee melodiche fresche e sapienti. Intrecci e rimandi eccelsi, riproposti con gusto e sapienza. Arrivati al quinto disco, il loro itinerario artistico s'è sempre sbrigato egregiamente con un post-punk al vetriolo e un'anima indie. Linee tastieristiche sbarazzine e un'ottima sezione strumentale caratterizzano il loro repertorio. A completare il tutto si aggiunge una voce tipicamente wave.


In questo album cercano di modificare (rinnovare?) il loro stile deviando su un approccio leggermente oscuro e ombroso. Un approccio quasi dark. Sontuoso lavoro sonoro e pregevole precisione certosina nella composizione di ogni singolo timbro. Un impegno tale da rendere le loro canzoni talora irriconoscibili rispetto al passato. Si rimane spiazzati davanti agli episodi del disco.


Già dall'apertura ("The Beast And Dragon, Adored") s'intravede un andamento lento e pacato. La voce non dispiace e si incastona perfettamente con il contorno. Parole decantate con stanca sicurezza. Batteria sfacciatamente slow-core ammalia, chitarra distorta sovente screzia il normale percorso. Un piano sornione impreziosisce con placide note di straziante malinconia. Colonna sonora per un notte scura e ubriaca.

Proseguiamo con la più solare "The Two Sides Of Monsieur Valentine". Immaginaria storia di un fantomatico signor Valentine. Guitar-pop destabilizzato da intramezzi di cello e andamento claudicante, sicuramente non regolare. Gli interventi classici non risultano ingombranti e, anzi, danno un ché di puro e incalzante ai tre minuti scarsi della canzone.


La vera rivoluzione del suono spooniano la troviamo nella successiva "I Turn My Camera On". Irresistibile groove rallentato, batteria in 4/4, voce perfetta e mutata rispetto ai rispettivi episodi. La chitarra scandisce il battito della batteria con regolarità chirurgica. Variegati strumenti acustici fanno da sottofondo. Non un tassello fuori posto. Qua risentiamo il primo Elvis Costello che fa finta di suonare gli Hall & Oates. I più attenti riscontreranno in questo pezzo qualche (lontana) somiglianza. Si tratta, infatti, della riscrittura (completa) della "Emotional Rescue" di stoniana memoria.


"My Mathematical Mind" spiazza con un (iniziale) chorus di piano e un sapiente uso della sezione ritmica. Presa ipnotica e non immediata. Andamento dinoccolato e perfezione d'intenti. Fondere l'estetica naif del carrozzone indie con una composizione spumeggiante e senza pause. Crescendo strumentale sul finire ed esplosione di rumori provenienti da ogni dove. Straniante oltre ogni aspettativa.


Coacervo di chitarre amplessate, nel cuore del disco, in "The Delicate Place". La batteria è introdotta verso il primo minuto da un ritmo contagioso e non lascia scampo. Sparute chitarre spaziali solcano il cammino della canzone. La voce, lodevole e in evidenza per tutto lo svolgersi, snocciola il testo con appararente distacco. Soltanto apparente, visto che il coinvolgimento è massimo. Ammorbante.

Classicità in "Sister Jack". Sulla superficie una ballata elettrica con andamento irregolare e allegro. Solito marasma chitarristico contraddistingue il loro marchio e come al solito non dispiace, rimanendo, peraltro, l'episodio meno rimarchevole dell'opera.


Stupendo pattern di batteria e guitar-session da favola in "I Summon You". Come enfatizzare il mood smodatamente notturno che caratterizza tutto l'album dando quel tocco di originalità senza esagerare. Umili.

Non ci discostiamo nella traccia successiva. Il morboso stomp della batteria fa da compagno al coraggioso (!) synth in sottofondo. Interventi pianistici accostati a sovrapposizioni vocali. Poliedrici.


Arrangiamenti e produzione sfavillante caratterizzano anche le successive tracce senza lasciare mai un anelito di indecisione, né un gusto amaro.

Ritorna un inedito (per loro) synth nella successiva "Was It You?", dove la voce capita sporadica presentando un brano perlopiù strumentale. Stimolanti linee elettroniche stuzzicano l'orecchio, sottofondi di pulviscoli chirarristici terminano il quadro.

Si conclude il cerchio con il rock strapazzato di "They Never Got You" e l'apprezzabile se non decisiva conclusione di "Merchants Of Soul".


Gli Spoon hanno forgiato una formula tutta loro, ovviamente debitrice di band storiche (Television, Sonic Youth, ecc.), ma in ogni singolo angolo innovativa ed emozionante, senza sfoggiare una pedante trasposizione di suoni vecchi di 20 anni.

La nuova via dell'indie-rock americano.


(7)


Textile Ranch: "Bird Heart In Wool" (Very Friendly, 2005)


Il genietto dell'indie-tutto Glen Johnson s'inventa un altro gioiellino di artigianato pop.

Il main-project Piano Magic risulta già un'entità extra-ordinaria di questi ultimi anni di musica indipendente, con questo album non fa che confermare appieno le sue capacità di composizione straordinarie. Bozzetti, canzoni monche, voci, rumori. La singola esamina dei pezzi non renderebbe mai il vero senso di questo (capo)lavoro.

Suoni rubati al mondo, estirpati dal semplice scorrere del tempo. Il tempo che percorre un sentiero di luccicante bellezza. Si percepisce un qualcosa di famigliare scorrendo le tracce. Ci perdiamo-ritroviamo davanti a questo guazzabuglio di timbri materiali, essenziali, granitici.


Loop, scricchiolii, battiti, fischi, aneliti, disfacimenti, strabordanti estraneità sonore.

L'elettronica va a braccetto con tutto ciò, si accompagna come se seguisse la stessa strada maestra, come se non ci fosse distinzione tra ciò che è concreto e ciò che è finto.

I suoni creati dalle macchine riproducono un battere ossessionante e corposo, invadente, evanescente. Il tocco di non-umanità a un suono sfacciatamente puro.


Acusticità deformata, mai presente nella sua forma naturale. Strumenti dissimulati, sterzati, deviati, destabilizzati. Percussioni, xilofono, tocchi di chitarra, chissà quali altri strumenti. Il risultato è un qualcosa di cristallino, deciso, puntuale.

Le voci rimangono al di fuori. Non vogliono essere troppo invadenti, non se la sentono proprio. Decantano la loro presenza con parole sottili, minimali, misurate, delicate. Voci di donna, l'essenza stessa della dolcezza.


Ascoltare questo disco è come trasportarsi in un mondo diverso, perfetto, elegante.

Mai un'invadenza, mai un'intromissione malintenzionata. Il nostro corpo non viene mai aggredito. Le nostre orecchie non vengono mai minacciate. La pace assoluta regna nella nostra mente. Ci lasciamo trasportare da queste terre che parlano, che non smettono mai di emanare un qualcosa chiamato canzoni. Quelle canzoni che vorremmo sentire ogni volta che siamo soli, ogniqualvolta il nostro animo è afflitto da dolori indicibili. Le canzoni immerse nell'aura di color dorato, ricoperte di luccicante patina, impreziosite da sapienza terrena.


Un'opera senza limiti di catalogazione, impossibile da contestualizzare in un filone musicale. Per farsi definire basta ascoltarla. Con calma e passione. Davanti a un fuoco. A occhi chiusi. Soli. Ammirando senza profferire una parola. In silenzio.


(7,5)



Boduf Songs: s/t (Kranky, 2005)

No, non è l’ennesimo affiliato al fortunato filone dei cantautori tristi e depressivi, né tanto meno il risultato di un’estetica musicale studiata o costruita a tavolino. È soltanto una delle migliori tra le recenti produzioni di minimalismo acustico, dai toni sommessi, oscuri ed avvolgenti, originati da non altro che una sensibilità artistica permeata da uno scarno songwriting e da ambientazioni sonore spoglie, ridotte all’essenzialità di una chitarra acustica appena supportata da qualche campionamento o drone in lontananza.
Boduf Songs è il moniker dietro al quale si cela Mat Sweet, cantautore di Southampton, il cui omonimo album di debutto corrisponde in realtà al demo spedito a suo tempo alla Kranky, i cui cervelli (senza dubbio in un unicum con i cuori) sono rimasti a tal punto fulminati da questi nove tenui bozzetti sonori, da decidere di pubblicarli nella loro versione originaria, senza alcuna modifica o reincisione. L’immediatezza un po’ lo-fi da “musica da cameretta” traspare tutta nella mezz’ora scarsa di durata di “Boduf Songs”, così come anche si intravede attraverso essa l’ambientazione nella quale l’album è stato creato, nell’intimo isolamento di un autore alle prese con la sua ispirazione ed i pochi mezzi tecnici a disposizione, al riparo dal fin troppo banalmente immaginabile paesaggio grigio del sud dell’Inghilterra, tra alberi spogli battuti dal vento ed una natura dai contorni aspri ma sublimi al tempo stesso. Gli stessi contorni presenta infatti la musica di Sweet, sospesa tra un approccio cantautorale degno del Kozelek più depresso ed l’attitudine concettuale ad un’asciutta psichedelia rurale che intreccia oscure componenti elettroniche all’acusticità più cristallina, conseguendo in ciò un risultato di uno spessore forse mai più raggiunto dall’epoca di “Further” dei Flying Saucer Attack.
Lo scorrere del disco è una passeggiata in una foresta maledetta, l’atmosfera si fa sempre più oscura e morbosa, immagini di dolore appaiono sovente davanti ai nostri occhi, le note di una chitarra spartana sono un puntiglioso incedere che sa di dolore e inquietitudine, un elettronica minimale ma tagliente sfigura una manciata di secondi dall’apparente dolcezza armonica.
Il viaggio di estenuante malinconia inizia con la toccante “Puke a Pitch Black Rainbow To”. Una confessione d’un male commesso e mai rivelato, le lacrime scorrono copiose, solo un timbro sommesso, una nota di piano alimenta sospetti, una voce sussurrata e malandata recita la sua poesia. Ventate di elettronica pacata sono un freddo maligno che ci taglia il viso, un dolore insistente e piacevole al contempo.
Scendiamo ancor più negli inferi con la successiva “Claimant Reclaimed”. Un accordo di chitarra frenetico e incessante viene ripetuto in maniera pedissequa, alternato con cambi di tono, e una solita voce appena udibile, un pugno di vocabili tanto misteriosi quando diretti e precisi. Una battito metallico risuona velenoso, lo segue a ruota uno strappo elettronico tagliente e lacerante. Sembra di sentire il ballo malzano e maledetto d’un gruppo di folletti neri ed oscuri, una danza funesta e nefasta.
Un piccolo inframezzo vagamente ambientale in “Our Canon Of Transportation”, fra nastri in loop, suoni legnosi e delle folate di brezza crudele che sono docilmente devastanti.
Un mantra folk ombroso e nero, si spande fra le lande infestate del disco, un accordo vagamente sognante dipinge un cielo burrascoso, la voce pian piano si sfilaccia ed arriva a sdoppiarsi, rendendo il tutto più straniante. Un racconto al limite del fiume con un temporale in arrivo ed una sbronza da smaltire. Una novella dal nome “This One Is Cursed”.
Ancora quel pezzo di cuore che piange emana un canto monco e mistico, nella successiva “Grains”. Leggermente ci concediamo ai meandri di una composizione dai sapori scontrosi e distaccati. Timbri chitarristici sono un pulviscolo di polvere ai lati di una strada abbandonata, un piccolo organo malandato è una luce che illumina il buio, parole distanti sono il lamento di un vecchio, nell’angolo più dimenticato del mondo.
“Lost In Forests” è un vero e proprio pezzo slow-folk. La chitarra suonata con un incedere rallentato e stanco, le note distanziate da attimi di puro silenzio, il ritmo praticamente inesistente, sfiancanti attimi di pausa fra un frangente di cantato e l’altro. Il tutto si trascina con un andamento spossato e sfinito, una canzone alle fine dei suoi giorni. In conclusione, un drones dondola impertinente per circa 20 secondi, ondeggiando con un suono ferroso e stridente.
Un immediato intreccio di contrappunti sgangherati si scioglie con un fare scombinato nel passo successivo, “Ape Celebrate Your Vague Words”.
Altro cantico strimpellato e starnazzato da un menestrello infausto, le note di uno strumento dannato, la voce dai contorni stanchi e sospettosi, un’atmosfera saturata di rumori e cattiveria si crea nell’aria.
Anime elettroniche scorrazzano fra uno spazio e l’altro, le note, una nota dopo l’altra, si fanno lo sgambetto a vicenda, sovrastandosi fra loro, fino a una pausa, o alla fine, colma di silenzio immaginifico.
“Oh Celebrate Your Vague Words And Coquettish Sovereignty” non è una canzone per animi felici, è un oblio di oscurità che colma la nostra voglia di solitudine.
Uno scampolo fatto di colori cattivi ed oscuri, una conclusione scomposta e solenne, il principio della fine si concretizza con le prime note stellari di “Vapour Steals The Glow”.
Un vibrante suono spaziale veleggia un cielo notturno, con insistenza disturbante, emanando un fracasso digitale fatto di stelle e colori. La litania di congedo viene snocciolata con sottomissione e distacco, un timbro dopo l’altro si fa emaciato e distrutto, piccole parole d’un sognatore compongono storie fantastiche e immaginifiche. Ancora clamori ingombranti si (ri)presentano infettando un suono già di per se malato, gli ultimi secondi sono un frenetico sciabordare d’una chitarra ferrosa, un fischio invisibile e la voce che si scioglie gradualmente.
Opera che sa di male e dolore, piccolo testamento d’un demone silenzioso e triste, volenteroso di raccontarci le sue favole e le sue storie, le storie di un mondo fantastico e misterioso. Un mondo composto di suoni quando delicati e sinuosi, quando scostanti e difficilmente accoglienti.

(7,5)

recensione di Biancalana Alessandro e Raffaello Russo


Caroline: "Murmurs" (Temporary Residence Limtied, 2006)


La splendida realta’ della Temporary Residence c’aveva gia’ abituato a una musica magica e sognante, deliziosamente apprezzabile. Da quel gioiellino ambient che e’ il disco di Eluvium, passando per gli storici Fridge (Four tet ne e’ il responsabile), fino ad apprezzare nuove leve come i Nice Nice e le conturbanti prove dei Tarentel.
Arrivati al 2006 arriva quasi in sordina, come una stella scintilla in cielo, il debutto di questa ragazzina, un angelo proveniente dal Giappone.
Originaria di Okinawa, consegue un diploma in una rinomata scuola d’arte musicali a Boston, nel 2003. Nonostante questo la sua casa e’ Los Angeles.
Le sue canzoni sono un candido cullare di suoni gentili e concilianti, la sua voce e’ una lacrima glaciale che scende da un viso angelico, un piccolo suono risplende fra i confini di un cielo sereno, un battito effigia minuscoli animaletti che saltellano per una foresta.
Un disco pop, quel pop straziato da una realta’ troppo limitante, una manciata di composizioni fuori dal tempo, un tripudio di sensazioni consolanti e toccanti. Il pianto di uno spirito celeste, il canto di un essere solitario e infelice, un sorriso fatto di letizia e amore, un suono che profuma come un campo di fiori rigogliosi.
9 pezzi di un cuore pulsante, parti di uno stesso modo di adorare gli attimi, frammenti di un pianeta fatto di dolcezza e candore.
Tutto inizia con un fiato che starnazza pomposo ed ingombrante, fra uno xilofono che tintinna spensierato, un suono di tastiera centellinato come le gocce di una medicina preziosa. La sua voce entra in gioco e il cuore inizia gia’a perdere colpi. Il suo afflato e’ assolutamente emozionale, un tono vocale d’altri tempi, fra una parola che vola alta fra le nuvole bianchissime e una frase che compare malinconica. Un tono metallico pare una pioggia che cade incessante, fra il sole splendente e un arcobaleno che colora il cielo. Battito digitale e finto sostiene un ritmo fiabesco, ancora quella tromba borbotta, frasi dai contorni arrotondati. Questa e’ “Bicycle”, e siamo solo all’inizio.
“Pink & Black” e’ una canzoncina per un prato soleggiato, un tepore primaverile e una giornata da passare fra un raggio di luce fastidioso e un filo d’erba profumato. Un andamento inizialmente sostenuto ci propone un brano timido e appartato, dal suono dream. Un’arpa riempie l’aria di schegge di cristallo, una percussione elettronica scalfisce con gentilezza, parole come ”i must confess I feel uneasy,
my cheeks weigh heavily” esprimono imbarazzo ed ingenuita’. Un improvviso scatto ritmico ci trasporta in una corsa verso l’orizzonte, ci conduce verso un obbiettivo inarrivabile, la felicita’, contrastata da un mondo pazzo. Un mondo gaio e triste, come ci dice sul finire. Una verita’ malcelata vieni fuori con pacata prepotenza.
Un piccolo pezzo di diamante trasparente si intravede ascoltando ad occhi chiusi “Sunrise”. Un’atmosfera incantata, una chitarra emana note celestiali, miseri tocchi d’un organo vibrante, dei cori lontani e sensibili, un rumore lontano si tramuta in deliziosa sporcizia di sottofondo. Un testo fatato ci insegna che e’ possibile sognare, ci e’ concesso immaginare un mondo fatto di oro, argento e gioia.
Giungiamo a uno delle canzoni piu’ emozionanti e commoventi degli ultimi anni.
“Where’s My Love” e’ un qualcosa di irrealizzabile con le parole. Voglio provarci a presentarla.
Una foresta di contrappunti tintinnanti fanno da anticamera a una visione onirica che si tramuta in realta’. Il desiderio d’amore, uno spasmodico bisogno di affetto. Quando la sua voce dondola spensierata, quando ci racconta il suo dolore e le sue inquietiduni, quando narra lacrime perse e strazianti. La musica e’ quanto di piu’delicato si possa sentire, stille di elettronica spumeggiano radiose, lo xilofono dipinge con tinte sfavillanti, un piccolo folletto saltella su una tastiera e ci rimangono le sue note soavi. Un miraggio sonoro fatto di splendore, incanto e magia fatata.
Si cambia completamente registro compositivo, con la movimentata “Everylittlething”. Un’inizio vagamente pacato si tramuta in miriade di sciabordate digitali, una sorta di IDM spaziale. Si rimane leggermente spiazzati davanti al cambiamento ma non dispiace.
Non è un passo azzardato, anzi, lo stile canoro è lo stesso, cambia il soltanto il contorno musicale, ed il risultato è perfettamente coeso e ben riuscito. Un ballo d’un gruppo di angeli con ali dorate, vesti bianche e capelli lucenti.
Dopo l’incursione in una dimensione ballerina, viene riproposta la solita suggestione sonora, con la seducente “All i need”. Una gemma che sa di spazio ed è colorata da screziature vivaci, uno luccichio inusuale la circonda. Parole come “My nose is pressed against the window of your heart, got lost in the maze that leads to you” esprimono una sorta di malumore sornione e una tristezza nascosta, come si costudisce un tesoro inestimabile. Una perlina dream-pop, sfumata da alcune intromissioni dolcemente invasive.
Piccoli ricordi scattanti e disturbatori si materializzano con la vibrante “Drove Me To The Wall”. Un sottofondo acquoso e scorrevole è affascinanante e cattura, carpendo i nostri sensi, una chitarra suona curata e accarezzata, una miriade di puntini sonori si generano ciclicamente, disorientando. La voce viene sdoppiata e dilungata, un vocalizzo si proietta in paradiso, il finale è un graduale sgretolarsi del ritmo e un progessivo avvicinamento al silenzio.
Interferenze pop sono ciò che ci propone l’estatica “I’ll Leave My Hearth Behind”, pulsante e viva, un motivetto viziato da un afflato cordiale e affascinante, una percussione incontrollabile scappa e fugge, scheggia in ogni direzione. Un piano mette in ordine una manciata di note distese, un gemito sibilante è un frangente di dolore.
Conclude con tatto e garbo “Winter”. La cantilena sull’avvento di una stagione scontrosa e sgarbata ma affascinante e gioiosa. Una sorta di ambient-pop sporcato da polveri stellari, sdruciture lievi e toni armoniosi.
La graziosità di questo album esce da ogni limite immaginabile, tinto da una pittura sinuosa e docile, rifinito con precisione maniacale, uno scrigno contenente tesori sorprendenti e senza prezzo.

(8)

domenica 19 marzo 2006



visto che a Lucca fanno tutta la retrospettiva, sto ripercorrendo le tappe più significatve del percorso artistico del maestro.
il film in questione è una serie di 8 sogni fatti dal regista, non con intenti auto-biografici, sono solamente 8 pezzi di inconscio pennellati con immagini e suoni.
le atmosfere sono molto pacate e soffuse, i fotogrammi che raccontano il passato spezzettato di una persona, le esperienze di un uomo che cresce.
Per realizzare il "sogno" del suo 29° film il regista ha impiegato al solito cinque anni. La lavorazione è durata quasi due anni; ancora una volta per montare il progetto finanziaramente gli sono venuti in aiuto i suoi ammiratori americani Spielberg e Lucas, che sono riusciti a coinvolgere nella distribuzione la Warner Bros.
Gli otto sogni che compongono il film (inizialmente dovevano essere dodici) si susseguono per semplice giustapposizione, introdotti da un titolo indicativo che potremmo anche ignorare :"cercare di interpretare i sogni in maniera razionale è un controsenso" dice il regista, alla presentazione del suo film, nel contesto del 43esimo festival Cannes.
I primi due sono legati all'infanzia del regista (Raggi del sole nella pioggia, Il Pescheto). I tre successivi (Tempesta di neve, Il tunnel, Corvi) ci riportano agli anni Trenta e Quaranta, quando Kurosawa cercava la sua strada tra pittura (il riferimento a Van Gogh) e cinema (non fece la guerra perchè riformato per motivi di salute).
Il Fuji in rosso e Il Lamento dell'orco sono ambientati ai giorni nostri, o meglio in un futuro che speriamo non arrivi mai. Nel sogno conclusivo (Il viaggio dei mulini ad acqua) ci riporta agli inizi del secolo, in un passato ormai mitico.
Il film è un magico alternarsi di immagini frizzanti, un piccoli suono, un ballo mistico e un bimbo che sorride.
Voglio imprimere l'attenzione sopratutto sui primi due sogni, i più misteriosi e colorati, quelli maggiormente incantati e rilucenti di un'abbagliante luce.
Nel primo vediamo un ragazzino di cinque anni avventurarsi dal solo nella foresta, (contraddicendo agli ordini della madre) per osservare il miracolo della natura. Dietro dei cedri finemente colorati il piccolo fuggitivo è folgorato da una visione immaginifica (come i due samuri nella foresta stregata del Castello della ragnatela): un corteo di volpi in abiti sgargianti celebra una festa di nozze eseguendo con leggerezza e grazia una danza rituale. Il ragazzo si crede in paradiso, ma ecco che sentendosi spiato deve fuggire precipitosamente.
: "Hai visto quello che dovevi vedere" dice la madre che dopo avergli messo in mano uno spadino, lo rispedisce nella foresta ordinandogli di farsi perdonare dalle volpi. Stringendo l'arma al petto il bimbo, afflitto, si dirige verso la foresta, guidato da un gigantesco arcobaleno che gli appare all'improvviso all'apertura della verdissima valle. Alla soglia di questo paradiso terrestre il ragazzo si ferma in estatica ammirazione.
Il secondo sogno è egualmente fatato e tenuemente incantato.
E' il 3 marzo, festa della primavera e delle bambole (Hina Matsuri), le sorelline del protagonista (un ragazzo di dieci anni) e le amichette sostano davanti all'altare di famiglia su cui sono esposte le figurine che riproducono l'intera struttura della famiglia imperiale. Seguendo una misteriosa coetanea apparsa in giardino, il ragazzo si ritrova ai piedi di una misteriosa collina a terrazze; sui ripiani sono disposti - come in una gigantografia di un gruppo di bambole colorate - tutti i membri della corte in carne e ossa, rivestiti di abiti sgargianti (e bellissimi); rappresentano lo spirito degli alberi dei peschi in fiore; ma come potranno interpretare la rituale danza per la festa della bambole se i genitori del ragazzo hanno distrutto il fiorente giardino di peschi della loro tenuta? Alle pesanti accuse dell'imperatore, il ragazzo esplode in un pianto dirotto, alle fine quando riesce a provare la sua innocenza l'imperatore lo premia permettendogli di vedere ancora una volta (l'ultima) il suo pescheto in fiore: davanti agli occhi estasiati del ragazzo la corte in gran completo esegue un balletto monco e magico sotto una nevicata di petali di rosa; al termine di questa suntuosa danza generale, lo schermo è invaso da una miriade di alberi fioriti che si sostituiscono alle bambole imperiali; tra gli alberi riappare la misteriosa fanciulla Flora che invta il ragazzo a seguirla. L'incantesimo si rompe, gli alberi in fiore tornano ad essere mozzati, la collina dell'eden si trasforma in un arido deserto, al ragazzo cacciato dal paradiso non resta che singhiozzare sconsolato davanti all'unico ramoscello fiorito che spunta da uno dei tronchi infranti.
I rimanenti sei sono egualmente evocativi ma non eguagliano come bellezza visiva i primi due, rimanendo comunque un esempio della straordinaria capacità di Kurosawa nel trasporre in immagini e sensazioni dei semplici avvenimenti, trasformando in magia la più semplice dele circostanze.


: "I sogni sono l'espressione visiva dei nostri desideri e delle nostre angosce, sepolte nel profondo di noi stessi"

Dostoievskij

sabato 18 marzo 2006

AGF + Vladislav Delay 17 marzo @ Cascina, Città del Teatro



Nella cornice della cittadina pisana (Cascina), vicino la famosa Uliveto, si svolge uno degli show di musica elettronica più attesi dell’anno. AGF e Vladislav Delay approdano in Italia.
Un duo che, nell’arco del 2005, è riuscito a creare una musica ossessiva e notturna come non mai, cesellando canzoni dai tratti oscuri e delicati, un piccolo mondo fatto di battiti e suoni misteriosi.
Quel capolavoro di pop deviato e complesso che è Explode, un disco che non si lascia dare una definizione ben precisa, un’opera che sfugge e scappa, quella voce dall’accento sommesso, i timbri cavernosi, rintocchi ripetitivi.
Poco dopo ci troviamo davanti un altro lavoro altrettanto importante, con i Dolls (stavolta è un trio, si aggiunge Craig Armstrong), una via diversa d’intendere la sperimentazione sulla forma canzone, egualmente attraente ed innovativa.
Seduto nella sala, mi faccio assalire da una sensazione di vuoto. Atmosfera ottenebrante, le luci leggermente soffuse, un leggero sibilo elettronico di sottofondo, un buio accecante, due scampoli di colore si concentrano sull’entrata dei due esserini.
AGF, evidentemente incinta (verrò poi a sapere che è al settimo mese), si siede per terra, davanti alla console e i due laptop. Vladislav si accomoda alla batteria e si mette le cuffie, isolandosi dal resto.
Il concerto, nel suo complesso, è composto dall’approccio “impro” di Delay, costruendo i groove di batteria con vari tipi di bacchette e suonando svariate volte le pelli con le mani. Non c’è una regola nel suo modo di costruire il supporto ritmico, ed anzi, non c’è spazio per la stabilità, il tutto si prolifera con la più completa casualità. I suoi scatti da un tamburo all’altro, da un piatto all’altro, sono pura creatività. Riuscire a comporre un contorno alieno e disorientante, totalmente in contrasto con le tinte digitali spesso delicate e meno caotiche.
Le basi elettroniche sono pre-registrate, e la nostra Antye, oltre a cantare con la sua voce profonda e suadente, improvvisa con i suoi strumentini, varie percussioni fantasiose e una serie di ammenicoli digitali.
I singoli episodi sono una riproposizione quasi completa dei pezzi di “Explode”, ad eccezione di “Break Doors” (la cover dei Doors).
“Do Protest” è una convulsione di battiti e scintillio digitale, fra una voce in crisi epilettica e una batteria che rantola e non ha regola, “All Lies On Us” è una confessione meccanica e straziante, fra aperture melodiche e pattern ritmici scontrosi e sguscianti, “Useless” è un tripudio di ondeggianti ricami digitali, parole appena sussurrate, un rumore di fondo è una superficie scabrosa.
Uno sciabordare metallico risuona nella sala, con insistenza e incedere industriale (“Restrict”), lo scherzo contro lo sfarzoso edonismo moderno, nella catartica “A Distant View”.
Un’apaticità sonora si emana nell’ambiente con il viaggio schizofrenico di “Slow Living”, “From Forming On” è una nube solfurea che infetta i nostri sensi con una sapore piacevole e puntiglioso.
Dopo la prima uscita, tornano sul palco sorridenti e sorpresi per la grande approvazione. Infatti, durante tutto il concerto, nelle pause, esprimono la loro incredulità con espressioni interrogative, con una serie di sorrisini silenziosi.
Un bis estremamente intenso e fuggitivo. Viene eseguito un pezzo da “The Dolls”, intitolato “Choises”. Antye tiene il microfono sotto il braccio e con uno strumento (?!) particolare – una specie di strati di metallo girevoli, dalla dimensione ridotta – emana suoni ferrosi che sono disturbanti e piacevoli al tempo stesso, Delay è immerso nel suo mondo di spasmi timbrici e follie d’ogni sorta.
Arrivati alla conclusione i due si presentano al limite del palco e fanno un grande inchino, fra lo scroscio di applausi assordante. Appena dopo mi dirigo da lei, in frenetica eccitazione da shopping discografico ed evidentemente emozionato per poter vedere dal vivo un’artista tanto stimata. Acquisto i suoi due ultimi dischi (quello con Zavoloka e l’opera sonora-visiva con Sue.c) ed iniziamo a discutere. Una semplice chiacchierata dai contorni memorabili, per la gentilezza con cui mi spiega il piacere d’aver collaborato con Delay, le sue derive avant con le Lappetites, l’amore per la musica pop, la voglia di tornare a suonare in Italia.
Esco dal teatro e mi sento leggermente stordito, consapevole d’aver assistito a uno show fra i più memorabili degli ultimi mesi, una strana sensazione di soddisfazione, amore ed estasi.

venerdì 17 marzo 2006

Ossessioni della settimana



Windermere: "The World Is Here" (7)

Uno strano incrocio fra un post-rock chitarristico e un cantato molto deciso.
Alcune trame melodico-timbriche sono compiutissime e le canzoni si susseguono con piacere e scorrevolezza.
Il disco è molto emozionale, ci sono dei momenti in cui il crescendo strumentale viene accompagnato a braccetto da parole con il sorriso sbarazzino.



Melodium: "Rhythmi" (7)
Melodium: "Silica" (7)
Melodium: "QuietNoiseArea" (7)
Melodium: "A Possible Way Of Spending Time" (7,5)
Melodium: "La Tête Qui Flotte" (7,5)

nuova sensazione indie-tronica.
c'è tutto ciò che possa piacervi se avete amato il catalogo Morr Music, c'è tutto ciò che può farvi innamorare se vi piacciono dei piccoli giocattolini che suonano minimali e appartati.
Ogni carillon è delicato e cesellato con la massima cura.
La recensione de "La Tête Qui Flotte" sarà in home-page tra poco.




Manitoba: "Start Breaking My Heart" (7)
Manitoba: "Up In Flames (Special Edition)" (8)
Caribou: "The Milk Of Human Kindness" (8)
Caribou: "Tour CD 2005" (7)

questo è uno dei genietti elettronici dei nostri anni.
prima con il moniker Manitoba pubblica un capolavoro come Up in Flames, assolutamente uno dei lavori elettronici più belli pubblicati in questi anni, con Caribou spunta fuori con un altro gioiellino di artigianato elettronico.
sì sì, caro Dan, sei un grande.

Artiste Jappo della settimana



+



Asuca Hayashi: "Ahah" (7)
Asuca Hayashi: "Tsunaide" (7)
Tsukiko Amano: "A Moon Child In The Sky" (7)

melodie ariose e vagamente tribaleggianti nelle canzoni mistiche di asuca, una voce presente e molto forte ricama, insieme ai colori strumentali, delle atmosfere piacevolissime e piene di sensazioni.
l'album di Tsukiko è percussivo e sbarazzino, piccole note di chitarra, una voce deliziosa che spesso raggiunge vette importanti.
Stone è j-pop strano, pieno di archi e strumenti a corda, convulsioni percussionistiche e sali-scendi emozionali. un gran bell'album.

Sorpresa della settimana



48 Cameras: "...After All, Isn't Tango The Dance Of The Drunk Man"

uno stranissimo disco di ambient rumorosa e percussiva, una sorta di messa oscura e maledetta, un oblio di buio rumoroso e suoni schivi e taglienti.
un'opera davvero particolare, si spazzia dall'ambient-noise, ad atmosfere più dark, ibridando sovente, una sorta di free-noise-jazz. C'è pure un po' di campionamenti concreti, molto molto atmosferici.
bello e ossessivo, un disco da NON ascoltare di notte, da soli. alcuni frangenti sono orrorifici.

(7,5)

martedì 14 marzo 2006



(Autres Directions In Music, 2005)

amore a prima vista.
trovato per caso, questo fiorellino lucente mi ha rapito completamente.
lui si chiama Laurent Girard, altro non so, visto che questo disco l'ho ascoltato solo stasera..
cos'è? indie-folk, glitch, scomposizioni digitali, xilofoni tintinnanti, alcune fisarmoniche scordate emanano note amatoriali, calde, rassicuranti.
una sorta di musica ballabile ma calma e pacata, le note di chitarra si sovrastano a vicenda, componendo un'atmosfera autunnale, i battiti spezzano una pace tanto desiderata.
si sentano echi dei mùm, mi pare di sentirci un po' del mio amato Flim, lamenti di un folk sanguinoso, sperimentazioni acustiche, praline di ritmo colorato.
lo sto ascoltando da ore, in ruota. senza fermarmi. queste canzoni, con il loro approccio amatoriale, quei suoni giocattolosi e tenui, lo sfrigolio d'un elettronica mai così infantile, le vocine che rimbalzano come una pallina di gomma, su un soffitto infinito.
Quando un accordo di chitarra sa lasciarsi ammorbare da un pattern elettronico perfetto e contagioso (Hellomusic), una canzoncina borbottante e stellare mi gonfia il cuore di amore (Les Psychotropes Sont Mes Amis, Puis Mes Ennemis...), un piccolo sibilo metallico è il contorno per canto spastico e scomposto, il ballo in una notte malinconica, l'inizio (e la fine) di una storia, qualunque essa sia (Se Rayer Provisoirement De La Liste Des Vivants).
Sono stato capace di ascoltare Kill Me With A Smile 13 volte di seguito. Sono pazzo? Sì, pazzo di questa canzone.
Un ritmo semplicemente bello, un groove magicamente trascinante. Alcuni bleeps se ne vanno per le stelle, altri rimangono ad altezze raggiungibili, una chitarra si introduce sorniona e piano piano cresce di tono, un drones è facilmente riconoscibile. Eppoi la voce. La voce di un robot sofferente, parole confuse e incomprensibili. Attimi di pura bellezza indie-tronica. Come raramente mi capita di sentire.
Emptykuerten è più oscura e meno diretta, suoni freddi e disaccordanti si scontrano a vicenda, un arco è un oblio di oscurità, stomp sono pressurizzati e rimbombanti, quando l'anima elettronica sparisce e rimangono scheletri acustici, quando il tutto si fonde in un complesso ammaliante ma ombroso. Il piano, sul finire, ci lascia un pattern che pare rugiada mattutina, dai colori trasparenti.
Un racconto ballerino, uno strimpellare dilungato, una voce malata (Le Creux Est Ma Matière Première), proiettili digitali, per una guerra fra folletti robotici (L’Attachement Aux Symptômes), una pioggia che cade e lo xilofono che ricopre il rumore incessante, un ambient movimentata e mai così espressiva (Mon Baromètre Mental).
Rumorini scricchiolanti, schiocchi ferrosi, note di piano gelide, sdruciture taglienti in Interlude Pour Dépressifs.
Gamm-recomposé è un giochino leggermente pericoloso, fra una drum-machine saltellante e una fisarmonica docile, vocine dispettose sputano delle frasine immediate, un gruppo di fiati elevano il pezzo alla soglia delle perfezione. Emozioni a non finire.
Fantasmini urlanti (i drones), uno strumento starnazza volenteroso (la chitarra), qualcuno sbatte e scoppia (drum-machine), l'altro si lamenta dolorante (un synth). Marcher A L’Envers Dans Nantes-Atlantique è una stanzina arredata e saturata da questi eventi. Le tinte sono tenui e la sinfonia suona solitaria.
Rumori di una quotidianetà frenetica e caotica (Greg Davis > Craig David), una piccola perla sognante, con una voce di un bimbo di 3 anni (La Chanson De Laïs-Salomé), un folk composto con il cuore, gli strappi d'una macchina invadente, la voce di un ragazzo confuso (La Fin De Tout.
Conclude un altro capolavor(in)o di spumeggiante elettronic(hin)a, fra una chitarra scanzonata e un flauto che più solare di così non si puo' (La Vie Est Plus Belle Depuis...).
Ecco, e ora come faccio? A me cambia tutta la playlist 2005.
Credo che dormirò per questo, ma, sono sicuro, queste canzoncine, alla mattina o prima di coricarmi, saranno un caldo letto per il cuore e un ambiente accogliente per le mie orecchie, un ricovero per una delusione, una conferma se c'è un amore da coltivare.

domenica 12 marzo 2006









Vacabou: s/t (Hannibal, 2006)



Ecco qua un'altra piccola gemma nascosta, rimasta nei meandri della produzione discografia che dire frenetica è un eufemismo.

Il disco non è una vera e propria novità. E' uscito nel 2003 e distribuito in tutta Europa solo ora, attraverso la IRD, dopo la riedizione su All Saints.

In seconda battuta si rischia di prendere un grosso abbaglio se lo si ascolta con l'orecchio sbagliato.

Il genere di riferimento è il trip-hop. E voi direte: che senso ha fare trip-hop ora, quando il genere è morto?

Ecco, questo è sbagliato. Il disco parte da un sostrato trip-hop ma non si ferma qua, parte per strade trasversali e non si lascia dare una sola definizione univoca, non c'è staticità e fa della sua forza la poliedricità.

Le atmosfere sono oscure e ombrose, la voce è soffio di vento tagliente, la musica sa di dolore e malinconia.

Allora, un po' di storia di questo duo sconosciuto ai più.

L'autore della musiche è Juan Feliu, un compositore spagnolo, rimasto con il progetto "nel cassetto" perchè non riusciva a trovare una persona che cantasse le sue canzoni, non essendo in possesso di una gran voce (almeno da quanto dice lui).

In un intervista parla dei suoi primi passi con la musica, l'acquisto di un pc, la composizione frenetica, la voglia di esplorare nuovo orizzonti, la solitudine con cui si rinchiudeva nella sua cameretta per cesellare le sue lande sperdute.

Dopo qualche anno conosce Pascale Saravelli, la persona che fin da subito viene inquadrata da lui come l'adatto completamento alla sua musica, la voce che s'incastra perfettamente con le sue composizioni.

La ragazza non ha mai avuto esperienze in campo musicale ma si aggrega, e iniziano a registrare i loro pezzi.

Sembra un assurdità fare dei raffronti con le coppie uomo-donna di stampo sinuoso-melodico (Lamb, Goldfrapp) visto che, come detto in principio, non c'è cifra stilistica con cui poter catalogare questo lavoro.

Lo stesso Feliu dice:

: "La musica vive da sola, non siamo noi a crearla. Noi però la nutriamo con le nostre esperienze più diverse: viaggiare, leggere vedere mostro fogografiche - questo particolare è un aspetto che mi sta molto a cuore, nel live curiamo molto le proiezioni di immagini appropriate".

Ed ancora, leggo questo sua affermazione molto importante:

: "Tutti gli aspetti della composizione sono importanti, e io sono un perfezionista assoluto, prima di dichiarare finito un pezzo deve essere assolutamente privo di debolezze. Tuttavia, la cosa decisiva in una canzone è trovare il groove; e non è facile, non sempre risiede nel ritmo, a volta è in un accordo di chitarra, in una tastiera. E' difficile trovarlo, ma è fondamentale"

Le sue parole sono cruciali per riuscire a capire il senso della sua opera, per non fraintendere le sue intenzioni, dove con le sue composizioni voleva andare a parare.

E il disco ha davvero ritmo e groove. Non lasciano scampo queste pennellate autunnali, quell'andamento notturno, velenoso e ottenebrante.

Da non sottovalutare l'apporto della cantante, magistrale in diversi episodi, con un tono quasi sommesso, distaccatto e in disparte.

Meditation Park è una canzoncina per una radio alle 3 di mattina e un po' di alcool in più, con una chitarra strimpellare scema e scomposta, le voci si sovrappongono in un intreccio drogato. Le tastiere sono puntigliose, la percussione digitale è un letto di dolcezza.

To Rusia In White è un mantra urbano e lento, una cantilena digitale e claudicante, un pop malato e infettato da una malattia meccanica.

Note dirette e dilatate, loops stellari zampettano ovunque e un tappeto di bisbigli finti, quando docili, quando scabrosi, aggiungono un qualcosa di inusuale.

Life as Interference è digital-pop giocattoloso e spaziale, Plain è una canzone ad alto tasso creativo, con un piano, una batteria schizofrenica, crepitio elettronico e una voce maschile repressa.

Rannveig mi seduce con i suoi archi sintetici e una drum-machine indecisa se essere portante o di sostegno, in Blue Glass Highway i due si cimentano in un folk-tronic-pop. Sorprendente e piacevole.

Burunka Left è straniante e mai doma, fra un momento di classic-pop-rock ed attimi di sfrigolio digitale e marziano. Il tutto, con i secondi che scorrono, si scioglie in un silenzio rumoroso. La voce di Pascale è all'iceberg del disco. Un ibrido fra Beth Gibbons, Anneli Drecker, e chi altro? E' lei, senza paragoni ingombranti.

Iceland è birichina e amatoriale, una deliziosa sensazione home-made pervade per tutto il pezzo, le voci sono sdoppiate e il groove (come lo chiama Juan) è irresistibile. Fiati starnazzano, drones, percussioni metalliche.

Angels Of Night è forse il pezzo simbolo del disco. Bleeps colorati, una tastiera tintinnante, parole lontane/vicine, dolorose/piacevoli, un ritmo che fa fatica a prendere il largo e rimane impantanato in un mare di dolcezza e malinconia. Bellissimo, non riesco a starne lontano.

Conclude l'ambient distesa e rilassante di Dream Ner9 This Week: PDLV Piano. Una piccola suite per un mondo pacificio.

Questa opera non inventa, nè ha presunzioni d'impartire una qualche lezione. E' soltanto composta da canzoni dalla bellezza intrinseca e intriso di calore, amore e un battito che pare un cuore pulsante.

sabato 11 marzo 2006

LUIGI RUSSOLO



Seguendo un corso di Informatica Musicale, sono arrivato a scoprire le idee di questo artista, fantastiche per l'epoca, in Italia.
Musicista e pittore di grandissima inventiva, arrivò a teorizzare, con la sua "L'arte dei rumori", un concetto completamente nuovo in tutto il panorama europeo.
Visionario, e precursore, e' considerato il primo uomo ad aver teorizzato e praticato il concetto di musica elettronica, sostenendo che la musica doveva essere composta prevalentemente di rumori e non di suoni armonici.
La sua musica veniva eseguita con uno strumento da lui stesso ideato "l'Intonarumori", apparecchio meccanico capace di sviluppare suoni disarmonici e avanguardistici subito battezzati, nelle performances di quel movimento, "musica futurista"; nel 1922 costrui' il "rumorarmonio", mezzo necessario ad amplificare gli effetti musicali creati dall'intonarumori.
Questa riproduzione dei rumori portò ad una loro classificazione: Russolo arrivo' a costruire una ventina di diversi intonarumori divisi in: gorgogliatori, crepitatori, urlatori, scoppiatori, ronzatori, stropicciatori, sibilatori, scrosciatori.
Una iniziale creativa attività diede vita a tre opere: Risveglio di una città, Si pranza sulla terrazza del Kursaal, Convegno di automobili e di areoplani, eseguite a Londra.
Anche Prokofiev e Stravinsky si interessarono all'intonarumori.
Ma esaurita la spinta iniziale ben presto il nuovo strumento venne relegato al ruolo di contorno nelle orchestre tradizionali, in esecuzioni molto banali. Solo il lungimirante Edgar Varèse fece sua l'esperienza di Russolo ed ebbe la fortuna di vivere fino all'era dei mezzi elettronici, che hanno allargato a dismisura gli sbocchi possibili, gli interventi e i controlli sui rumori e sulla loro produzione-riproduzione.
Vi propongo il testo del suo trattato, in versione integrale:



L'arte dei rumori

11 marzo 1913

Luigi Russolo, Milano

Caro Balilla Pratella, grande musicista futurista,

A Roma, nel Teatro Costanzi affollatissimo, mentre coi miei amici futuristi Marinetti, Boccioni, Carrà, Balla, Soffici, Papini, Cavacchioli, ascoltavo l'esecuzione orchestrale della tua travolgente Musica futurista.mi apparve alla mente una nuova arte che tu solo puoi creare: l'Arte dei Rumori, logica conseguenza delle tue meravigliose innovazioni. La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesirno secolo, coll'invenzione delle macchine, nacque il Rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini. Per molti secoli la vita si svolse in silenzio, o, per lo più, in sordina. I rumori più forti che interrompevano questo silenzio non erano nè intensi, né prolungati, né variati. Poiché, se trascuriamo gli eccezionali movimenti tellurici, gli uragani, le tempeste, le valanghe e le cascate, la natura e silenziosa.

In questa scarsità di rumori, i primi suoni che l'uomo poté trarre da una canna forata o da una corda tesa, stupirono come cose nuove e mirabili. Il suono fu dai popoli primitivi attribuito agli dèi, considerato come sacro e riservato ai sacerdoti, che se ne servirono per arricchire di mistero i loro riti. Nacque così la concezione del suono come cosa a sé, diversa e indipendente dalla vita, e ne risultò la musica, mondo fantastico sovrapposto al reale, mondo inviolabile e sacro. Si comprende facilmente come una simile concezione della musica dovesse necessariamente rallentarne il progresso, a paragone delle altre arti. I Greci stessi, con la loro teoria musicale matematicamente sistemata da Pitagora, e in base alla quale era ammesso soltanto l'uso di pochi intervalli consonanti, hanno molto limitato il campo della musica, rendendo così impossibile l'armonia, che ignoravano.

Il Medio Evo, con gli sviluppi e le modificazioni del sistema greco del tetracordo, col canto gregoriano e coi canti popolari, arricchì l'arte musicale, ma continuò a considerare il suono nel suo svolgersi nel tempo, concezione ristretta che durò per parecchi secoli e che ritroviamo ancora nelle più complicate polifonie dei contrappuntisti fiamminghi. Non esisteva l'accordo; lo sviluppo delle parti diverse non era subordinato all'accordo che queste parti potevano produrre nel loro insieme; la concezione, infine, di queste parti era orizzontale, non verticale. Il desiderio, la ricerca e il gusto per l'unione simultanea dei diversi suoni, cioè per l'accordo (suono complesso) si manifestarono gradatamente, passando dall'accordo perfetto assonante e con poche dissonanze di passaggio alle complicate e persistenti dissonanze che caratterizzano la musica contemporanea.
L'arte musicale ricercò ed ottenne dapprima la purezza, la limpidezza e la dolcezza del suono, indi amalgamò suoni diversi, preoccupandosi però di accarezzare l'orecchio con soavi armonie. Oggi l'arte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l'oreccbio. Ci avviciniamo così sempre più al suono-rumore.

Questa evoluzione delta musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine, che collaborano dovunque coll'uomo. Non soltanto nelle atmosfere fragorose delle grandi città, ma anche nelle campagne, che furono fino a ieri normalmente silenziose, la macchina ha oggi creato tanta varietà e concorrenza di rumori, che il suono puro, nella sua esiguità e monotonia, non suscita più emozione. Per eccitare ed esaltare la nostra sensibilità, la musica andò sviluppandosi verso la più complessa polifonia e verso la maggior varietà di timbri o coloriti strumentali, ricercando le più complicate successioni di accordi dissonanti e preparando vagamente la creazione del rumore musicale. Questa evoluzione verso il "suono rumore" non era possibile prima d'ora. L'orecchio di un uomo del settecento non avrebbe potuto sopportare l'intensità disarmonica di certi accordi prodotti dalle nostre orecchie(triplicate nel numero degli esecutori rispetto a quelle di allora). Il nostro orecchio invece se ne compiace, poiché fu già educato dalla vita moderna, così prodiga di rumori svariati. Il nostro orecchio però se ne accontenta, e reclama più ampie emozioni acustiche. D'altra parte, il suono musicale è troppo limitato nella varietà qualitativa dei timbri. Le più complicate orchestre si riducono a quattro o cinque classi di strumenti ad arco, a pizzico, a fiato in metallo, a fiato in legno, a percussione. Cosicché la musica moderna si dibatte in questo piccolo cerchio, sforzandosi vanamente di creare nuove varietà di timbri. Bisogna rompere questo cerchio ristretto di suoni puri e conquistare la varietà infinita dei "suoni-rumori".

Ognuno riconoscerà d'altronde che ogni suono porta con sé un viluppo di sensazioni
già note e sciupate, che predispongono l'ascoltatore alla noia, malgrado gli sforzi di tutti i musicisti novatori. Noi futuristi abbiamo tutti profondamente amato e gustato le armonie dei grandi maestri. Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi e godiamo molto più nel combinare idealmente dei rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire, per esempio, l'"Eroica" o là "Pastorale". Non possiamo vedere quell'enorme apparato di forze che rappresenta un'orchestra moderna senza provare la più profonda delusione davanti ai suoi meschini risultati acustici. Conoscete voi spettacolo più ridicolo di venti uomini che s'accaniscono a raddoppiare il miagolìo di un violino? Tutto ciò farà naturalmente strillare i musicomani e risveglierà forse l'atmosfera assonnata delle sale di concerti. Entriamo insieme, da futuristi, in uno di questi ospedali di suoni anemici. Ecco: la prima battuta vi reca subito all'orecchio la noia del già udito e vi fa pregustare la noia della battuta che seguirà. Centelliniamo così, di battuta in battuta, due o tre qualità di noie schiette aspettando sempre la sensazione straordinaria che non viene mai. Intanto si opera una miscela ripugnante formata dalla monotonia delle sensazioni e dalla cretinesca commozione religiosa degli ascoltatori buddisticamente ebbri di ripetere per la millesima volta la loro estasi più o meno snobbbistica ed imparata. Via! Usciamo, poiché non potremmo a lungo frenare in noi il desiderio di creare finalmente una nuova realtà musicale, con un ampia di ceffoni sonori, saltando a piè pari violini, pianoforti, contrabbassi ed organi gemebondi. Usciamo! Non si potrà obbiettare che il rumore sia soltanto forte e sgradevole all'orecchio. Mi sembra inutile enumerare tutti i rumori tenui e delicati, che dànno sensazioni acustiche piacevoli. Per convincersi poi della varietà sorprendente dei rumori, basta pensare al rombo del tuono, ai sibili del vento, allo scrosciare di una cascata, al gorgogliare d'un ruscello, ai fruscii delle foglie, al trotto d'un cavallo che s'allontana, ai sussulti traballanti d'un carro sul selciato e alla respirazione ampia, solenne e bianca di una città notturna, a tutti i rumori che fanno le belve e gli animali domestici. e a tutti quelli che può fare la bocca dell'uomo senza parlare o cantare.

Attraversiamo una grande capitale moderna, con le orecchie più attente che gli occhi, e godremo nel distinguere i risucchi d'acqua, d'aria odi gas nei tubi metallici, il borbottio dei motori che fiatano e pulsano con una indiscutibile animalità, il palpitare delle valvole, l'andirivieni degli stantuffi, gli stridori delle seghe meccaniche, i balzi dei tram sulle rotaie, lo schioccar delle fruste, il garrire delle tende e delle bandiere. Ci divertiremo ad orchestrare idealmente insieme il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte sbatacchianti, il brusio e lo scalpiccìo delle folle, i diversi frastuoni delle stazioni, delle ferriere, delle filande, delle tipografie, delle centrali elettriche e delle ferrovie sotterranee.
Né bisogna dimenticare i rumori nuovissimi della guerra moderna. Recentemente il poeta Marinetti, in una sua lettera dalle trincee bulgare di Adrianopoli, mi descriveva con mirabile stile futurista l'orchestra di una grande battaglia:

''Ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare spazio con un accordo TAM-TUUMB ammutinamento di 500 echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all'infinito. Nel centro di quei TAM-TUUMB spiaccicati ampiezza 50 chilometri quadrati balzare scoppi tagli pugni batterie a tiro rapido Violenza ferocia regolarità questo basso grave scandere gli strani folli agitatissimi acuti della battaglia Furia affanno orecchie occhi narici aperti! attenti! forza! che gioia vedere udire fiutare tutto tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato sotto morsi schiaffi traak-traak frustate pic-pac-pum-tumb bizzarie salti altezza 200 metri della fucileria Giù giù in fondo all'orchestra stagni diguazzare buoi bufali pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack ilari nitriti ììììì.... scalpicii tintinnii 3 battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac (lento due tempi) Sciumi Maritza o Karvavena croooc-craaac grida degli ufficiali sbatacchiare come piatti d'ottone pan di qua paack di là cing BUUM cing ciak (presto) ciaciacia-ciaciaak su giù là là intorno in alto attenzione sulla testa ciaack bello! Vampe vampe vampe vampe vampe vampe ribalta dei forti laggiù dietro quel fumo Sciukri Pascià comunica te/efonicamente con 27 forti in turco in tedesco allò! Ibrahim! Rudolf! allò allò! attori ruoli echi suggeritori scenari di fumo foreste applausi odore di fieno fango sterco non sento più i miei piedi gelati odore di salnitro odore di marcio Timpani flauti clarini dovunque basso alto uccelli cinguettare beatitudine ombrie cip-cip-cip brezza verde mandre don-dan-don-din-bèéè Orchestra i pazzi bastonano i professori d'orchestra questi bastonatissimi suonare suonare Grandi fragori non cancellare precisare ritagliandoti rumori più piccoli minutissimi rottami di echi nel teatro ampiezza 300 chilometri quadrati Fiumi Maritza Tungia sdraiati Monti Ròdopi ritti alture palchi loggione 20.000 shapnels sbracciarsi esplodere fazzoletti bianchissimi pieni d'oro TUM- TUMB 20 000 granate protese strappare con schianti capigliature nerissime ZANG-TUMB-ZANG-TUMB-TUUMB l'orchestra dei rumori di guerra gonfiarsi sotto una nota di silenzio tenuta nell'alto cielo pallone sferico dorato che sorveglia i tiri".

Noi vogliamo intonare e regolare armonicamente e ritmicamente questi svariatissimi rumori .Intonare i rumori non vuol dire togliere ad essi tutti i movimenti e le vibrazioni irregolari di tempo e d'intensità, ma bensì dare un grado o tono alla più forte e predominante di queste vibrazioni. Il rumore infatti si differenzia dal suono solo in quanto le vibrazioni che lo producono sono confuse ed irregolari, sia nel tempo che nella intensità. Ogni rumore ha un tono, talora anche un accordo che predomina nell'insieme delle sue vibrazioni irregolari. Ora, da questo caratteristico tono predominante deriva la possibilità pratica di intonarlo, di dare cioè ad un dato rumore non un solo tono ma una certa varietà di toni, senza perdere la sua caratteristica, voglio dire il timbro che lo distingue. Così alcuni rumori ottenuti con un movimento rotativo possono offrire un'intera scala cromatica ascendente o discendente, se si aumenta o diminuisce la velocità del movimento. Ogni manifestazione della nostra vita è accompagnata dal rumore. Il rumore è quindi famigliare al nostro orecchio, ed ha il potere di richiamarci immediatamente alla vita stessa. Mentre il suono estraneo alla vita, sempre musicale, cosa a sé, elemento occasionale non necessario, è divenuto ormai per il nostro orecchio quello che all'occhio è un viso troppo noto, il rumore invece, giungendoci confuso e irregolare dalla confusione irregolare della vita, non si rivela mai interamente a noi e ci serba innumerevoli sorprese. Siamo certi dunque che scegliendo, coordinando e dominando tutti
rumori, noi arricchiremo gli uomini di una nuova voluttà insospettata. Benché la caratteristica del rumore sia di richiama brutalmente alla vita, l'arte dei rumori non deve limitarsi ad una riproduzione imitativa. Essa attingerà la sua maggiore facoltà di emozione nel godimento acustico in se stesso, che l'ispirazione dell'artista saprà trarre dai rumori combinati.
Ecco le 6 famiglie di rumori dell'orchestra futurista che attueremo presto, meccanicamente:


1. - Rombi, Tuoni, Scoppi, Scrosci, Tonfi, Boati.
2. - Fischi, Sibili, Sbuffi.
3. - Bisbigli, Mormorii, Borbottii, Brusii, Gorgoglii.
4. - Stridori, Scricchiolii, Fruscii, Ronzìì, Crepitii, Stropiccìì.
5. - Rumori ottenuti a percussione su metalli, legni, pelli, pietre, terrecotte, ecc..
6. - Voci di animali e di uomini: Gridi, Strilli, Gemiti, Urla, Ululati, Risate, Rantoli, Singhiozzi.

In questo elenco abbiamo racchiuso i più caratteristici fra i rumori fondamentali; gli altri non sono che le associazioni e le combinazioni di questi. I movimenti ritmici di un rumore sono infiniti. Esiste sempre come per il tono, un ritmo predominante, ma attorno a questo altri numerosi ritmi secondari sono pure sensibili.


CONCLUSIONI:

1. - I musicisti futuristi devono allargare ed arricchire sempre di più il campo dei suoni.
Ciò risponde a un bisogno della nostra sensibilità. Notiamo infatti nei compositori geniali d'oggi una tendenza verso le più complicate dissonanze. Essi, allontanandosi sempre più dal suono puro, giungono quasi al suono-rumore. Questo bisogno e questa tendenza non potranno essere soddisfatti che coll'aggiunta e la sostituzione dei rumori ai suoni.

2. - I musicisti futuristi devono sostituire alla limitata varietà dei timbri degl' istrumenti che l'orchestra possiede oggi, l'infinita varietà di timbri dei rumori, riprodotti con appositi meccanismi.

3. - Bisogna che la sensibilità del musicista, liberandosi dal ritmo facile e tradizionale, trovi nei rumori il modo di ampliarsi e rinnovarsi, dato che ogni rumore offre l'unione dei ritmi più diversi, oltre a quello predominante.

4. - Ogni rumore avendo nelle sue vibrazioni irregolari un tono generale predominante, si otterrà facilmente nella costruzione degli strumenti che lo imitano una varietà sufficientemente estesa di toni, semitoni e quarti di toni. Questa varietà di toni non toglierà a ogni singolo rumore le caratteristiche del suo timbro, ma ne amplierà solo la tessitura o estensione.

5. - Le diffiicoltà pratiche per la costruzione di questi strumenti non sono gravi. Trovato il principio meccanico che dà un rumore, si potrà mutarne il tono regolandosi sulle leggi generali dell'acustica. Si procederà per esempio con la diminuzione o l'aumento della velocità, se lo strumento avrà un movimento rotativo, e con una varietà di grandezza o di tensione delle parti sonore, se lo strumento non avrà movimento rotativo.

6. - Non sarà mediante una successione di rumori imitativi della vita, bensì mediante una fantastica associazione di questi timbri vari e di questi ritmi vari, che la nuova orchestra otterrà le più complesse e nuove emozioni sonore. Perciò ogni strumento dovrà offrire la possibilità di mutare o no, e dovrà avere una più o meno grande estensione.

7. - La varietà dei rumori è infinita. Se oggi, mentre noi possediamo forse mille macchine diverse, possiamo distinguere mille rumori diversi, domani, col moltiplicarsi di nuove macchine, potremo distinguere dieci, venti o trentamila rumori diversi, non da imitare semplicemente, ma da combinare secondo la nostra fantasia.

8. - Invitiamo dunque i giovani musicisti geniali e audaci ad osservare con attenzione continua tutti i rumori, per comprendere i vari ritmi che li compongono, il loro tono principale e quelli secondari. Paragonando poi i timbri vari dei rumori ai timbri dei suoni, si convinceranno di quanto i primi siano più numerosi dei secondi. Questo ci darà non solo la comprensione ma anche il gusto e la passione dei rumori. La nostra sensibilità moltiplicata, dopo essersi conquistati degli occhi futuristi avrà finalmente delle orecchie futuriste. Così i motori e le macchine delle nostre città industriali potranno un giorno essere sapientemente intonati, in modo da fare di ogni officina una inebbriante orchestra di rumori. Caro Pratella, io sottopongo al tuo genio futurista queste mie constatazioni, invitandoti alla discussione. Non sono musicista: non ho dunque predilezioni acustiche, né opere da difendere. Sono un pittore futurista che proietta fuori di sé in un'arte molto amata la sua volontà di rinnovare tutto. Perciò più temerario di quanto potrebbe esserlo un musicista di professione, non preoccupandomi delle mia apparente incompetenza, e convinto che l'audacia abbia tutti i diritti e tutte le possibilità, ho potuto intuire il grande rinnovamento della musica mediante l'Arte dei Rumori.
Ossessioni della settimana



Aoki Takamasa + Tujiko Noriko: "28" (8)

Questo è il mio commento:



Anneli Drecker: "Tundra" (7)
Anneli Drecker: "Frolic" (7)

praticamente ogni giorno, in sequenza, nelle mie orecchie, hanno girato questi due album della cantante tra le più raffinate da tanti anni a questa parte.
leggermente synth-pop, melodie scabrose e frizzanti, piccoli suoni glaciali e taglienti, una voce che lascia la terra per volare in paradiso.
sì, i bel canto sono un esperienza estranea a questi due dischi, ma qua dentro troverete ciò che vi renderà sorridenti. ne sono sicuro.



AGF.3 + Sue.c: "Mini movies" (7,5)
Zavoloka & Agf: "Nature Never Produces The Same Beat Twice" (7,5)

AGF continua a stupidrmi, non ha un ben che minimo limite d'ispirazione e sforna altri due album fantastici.
quello con zavoloka è una colata lavica fatta di cristalli ghiacciati, la prova con sue.c (creatrice del dvd allegato al disco), è un flusso continuo d'immagini, suoni e turbine di rumore piacevole.
doppia recensione in arrivo.

Artiste Jappo della settimana



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Anna Tsuchiya: "Change Your Life" (7)
Anna Tsuchiya: "Taste My Beat" (7)
Aya Ueto: "Egao No Mamade" (6,5)
Aya Ueto: "Afueruyouna Ai, Daite" (7)
Aya Ueto: "Yume No Chikara" (7+)

La prima, di chiare origini occidentali, ci propone due singoli uno più forti dell'altro. La canzone Change Your Life è rock tirato e stringato, una ballata sanguinosa e ombrosa. le note di piano sono dolore. Every Moment è un pop a basso profilo, un falò al tramonto e un gruppo di amici a suonare. canzone luccicante.
Aya Ueto sale di posizioni nella mie classifiche di preferenze jappo in maniera prepotente..
Ai No Tameni è un motivetto scemo e scomposto, Kaze è una canzoncina per una notte riscaldata dalla musica, nel centro di Kyoto, Get Fight è una pazzia realizzabile. Mantra dark-metal sporcato di pop.
Cool

Sorpresa della settimana



The Rip Off Artist: "In Through The Out Door"

glitchy-pop, melodie stilizzate, loop giocattolosi, vocine dei videogiochi, e qualsiasi altra cosa che vi viene in mente.
fantasia e scriteriato frullato di suoni, ritmi, stomp, in pieno stile Tigerbeat6.
disco divertentissimo e innovativo, fra i più vari usciti in questi anni.
etichetta da riscoprire, nel cui catalogo, risiedono capolavori di elettronica inusuale.
un disco che è un divertimento alieno, una passeggiata in un prato in cui spuntano mostriciattoli ovunque, l'erba sorride e emana suoni strani.

(7,5)