lunedì 28 aprile 2014

Liars: "Mess" (Mute Records, 2014)















Arrivati al settimo album in studio dopo quasi quindici anni di attività, i Liars hanno forgiato uno stile distintivo e una personalità riconoscibile. Sempre imprevedibili, intellettuali schizofrenici e fuori dagli schemi, hanno manipolato generi e stili giocando a nascondino con gli ascoltatori. Se gli esordi sorpresero per gli assalti no-wave e una potenza espressiva impressionante, negli anni si sono progressivamente avvicinati a una struttura elettronica debitrice tanto al synth-punk dei Suicide, quanto ai ritmi dance della EBM anni 90 che tanto faceva faville nei club vagamente dark di quei tempi, oltre ovviamente alla techno e in parte l'house. Visti dal vivo sul finire del 2012, l'uso predominante di drum-machine e synth taglientissimi confermava la tendenza; i tre americani sapevano già dove volevano andare a parare. “Mess” è l'inesorabile, definitivo e completo approdo a questo stile, una personale ed ulteriore definizione di punk.

Il nuovo album dei Losangelini gioca ad essere un album dance senza esserlo mai definitivamente, mischia le carte buttando dentro versioni distorte del synth-pop, della techno e dell'elettronica in generale. Versioni dei Depeche Mode imbottiti di ansiolitici affiorano negli episodi più “pop” (il singolo di lancio “Mess On A Mission”, le bordate taglienti di “Vox Tuned D.E.D”), trasfigurazioni techno mischiano le carte virando verso lidi finora inesplorati dal gruppo (sia “Darkside” che “Mask Maker” ricordano le cose di The Architect), mentre i rimandi prettamente EBM danno un esempio di cosa significhi il termine dance per i Liars (i giri circolari del synth di “I'm No Gold”, le stasi e le implosioni di “Pro Anti Anti”). La vena fortemente sperimentale della musica partorita dai “bugiardi” rimane nelle scomposte note che reggono la difficoltosa “Can't Hear Well”, nelle deliranti e dolorose note della lunga “Perpetual Village”, oltre al finale “Left Speaker Blown”, nove minuti di catarsi malata, una purificante discesa agli inferi, il perfetto compimento che riesce contemporaneamente a spalancare le porte al nuovo rimanendo fedeli al passato.

Forse accolto in maniera incerta per i fan di vecchia data, “Mess” in un certo senso dà un calcio al passato senza rinnegarlo, impasta nuove tendenze e le centrifuga con il solito piglio iconoclasta. Dopo anni di sferragliate chitarristiche e drumming incessante, forse la via dell'elettronica potrà essere nuova linfa vitale per una band mai doma e sempre pronta a sorprendere.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Davide Matrisciano: "Il profumo dei fiori secchi" (Prehistorik Sounds, 2014)















Dopo il buon esordio targato 2012, Davide Matrisciano torna a distanza di due anni con un nuovo album. Come già annunciato sul finire del comunicato stampa di “Traffuci di pulsazioni (9 modi di intendere il frastuono)”, il cambio di rotta è veramente importante. Se il precedente album proponeva un'elettronica strumentale ispirata tanto all'ambient quanto al marchio Warp, “Il profumo dei fiori secchi” vira su un cantautorato raffinato che ricorda in modo abbastanza forte tanto Battiato quanto David Sylvian. Ed è proprio il maestro siciliano a marchiare a fuoco il progetto del quasi trentenne Matrisciano.

I testi, in continuo bilico fra colto e non-sense metaforico, ricordano i sofismi che hanno reso famoso Battiato e la sua musica. Questa somiglianza – in alcuni casi si sfiora il tributo – risulta troppo forte, inficiando le peculiarità di liriche che troppo spesso sfociano in un'eccessiva sofisticatezza. Per quanto riguarda la musica, siamo di fronte a tutto il talento già espresso in precedenza. Niente da dire sulle brillantezza del synth che qua e là dipinge melodie bellissime (“Corrente elettronica e papaveri”, “Al di là degli ombrelli”, “Esternazione delle ombre”), mentre quando vengono rispettati gli stilemi pop-rock le tracce sono un po' scialbe (“Armonia irreversibile”, “Legni bruciati”). Nel momento in cui vengono infrante le regole i risultati sono apprezzabili (l'andamento spezzato di “Guarda su”, la splendida “Ho camminato su un aquilone”), tuttavia l'impressione, con lo scorrere – a volte un po' farraginoso – dell'album, è che l'artista abbia fatto il classico passo più lungo della gamba. Per sostenere una tracklist da quindici canzoni con una durata media di quattro minuti e mezzo, c'è bisogno di un'ispirazione davvero baciata dalla grazia. Nonostante ci siano delle buone – a volte ottime – cose (vedi i rivoli elettronici di “Soli tra i fiori”), alcuni passaggi a vuoto vanificano uno sforzo compositivo ambizioso. Sicuramente con qualche traccia in meno e testi più intelleggibili, il disco ne avrebbe guadagnato di fruibilità, rendendo il tutto più coeso e compatto.

Rimane comunque apprezzabile la voglia di cambiare, la qualità dei riferimenti, e il talento melodico che rimane intatto anche nei momenti interlocutori. Il coraggio di fare qualcosa di nuovo deve essere sempre premiato, dunque per Matrisciano non si tratta di una bocciatura ma di un semplice incoraggiamento a fare qualcosa di più, superando i limiti imposti dall'inesperienza.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 7 aprile 2014

Gianfranco Grilli: "Eastern Chillout" (Halidon, 2014)















Gianfranco Grilli, ad un anno scarso di distanza da “Ancient Roads”, torna sul mercato con “Eastern Chillout”, un titolo che esemplifica il cambio di rotta messo in atto dal compositore marchigiano. Siamo infatti di fronte ad un album di pura chillout music. Se lo spirito da corriere cosmico rimane in qualche frangente, sopratutto nell'uso dei synth, la battuta bassa, imparentata con la tradizione della bass music e del downtempo, e l'uso delle percussioni ricorda più una stanza da cocktail che i viaggi lisergici della kosmische musik.

Nonostante gli stilemi di questa corrente musicale siano stati abusati fin a rendere il genere pura spazzatura da bar di serie b, Grilli riesce a creare una musica fluida, piacevole e ben congegnata. La varietà dei suoni, unita a un sapiente uso di campioni vocali, rende i nove strumentali del successore di “Ancient Roads” una ventata di aria fresca. Niente di avvenieristico o azzardato, sembra tutto scritto per rendere la musica accessibile ad un pubblico il più ampio possibile, il che non è per niente un difetto se il risultato fosse all'altezza.

Fra cantilene mediorientali e tropicalismi al sapore di curry, i brani scorrono veloci e l'impressione che si ha è che l'incursione in questo genere sia per Grilli un mero album di passaggio, quasi una divagazione divertita e isolata, infatti, la sua vera predisposizione è indirizzata verso le cadenze puramente ambient. Tuttavia, se si ha l'impressione di avere a che fare con un album da tappezzeria rossa e uno spritz, ascoltare “The Paths Of The Hindu Kush”, ben sorretta da delle belle percussioni, per ricredersi e dare una chance all'album.

Consigliato agli amanti del genere e di tutta la corrente downtempo vagamente ispirata al sole cocente del medioriente, astenersi tutti gli altri.