domenica 13 gennaio 2013

Mock & Toof: "Temporary Happiness" (Tiny Sticks Inc, 2012)















 A due anni di distanza dal notevole "Tuning Echoes", ecco ricomparire il duo inglese Mock&Toof.  Dopo tutta una serie di apparizioni più o meno considerevoli presso i locali più ambiti di mezza Europa, Duncan Stump (Mock) e Nick Woolfson (Toof) hanno ben pensato di accomodarsi in cabina di regia e dar vita alla seconda opera della loro (fin qui) breve e luminosa carriera. Messa momentaneamente da parte la facile propensione al remix (non a caso, i due sono tra i remixers più richiesti da quel buontempone di James Murphy per la sua DFA, ma anche dalla tedesca Permanent Vacation), con il qui presente "Temporary Happiness" questi due gemelli del groove sembrano aver placato la propria sete electro-pop ad appannaggio di una mescola più quieta ma non per questo meno fascinosa e pulsante.

Se con l'esordio l'intento era far confluire elettronica da intrattenimento  e certo synth-pop inglese dei primi Ottanta dal ricamo tropicale, ora pare aver preso quota un'improvvisa smania lounge, tra battiti appena abbozzati, sezioni e ricami mai invadenti, oltremodo eleganti e sinuosi. La sola "Everything Is Know", con quel suo tastierone bislacco farebbe gola all'intera Gomma di Mathias Modica, aka Munk. Ma non solo. L'erotica divagazione vocale posta nei primi istanti di "My Head", sfumata gradualmente a metà del piatto seguendo un motivetto tanto banale quanto penetrante, lascia ben intendere le nuove attitudini del duo, prima che una sensualissima voce deep-soul prenda gradualmente il sopravvento, lasciando che il ritmo ne assecondi le grazie.

Il party-pop dell'esordio è ormai un lontano ricordo – dimentichiamoci la vena modaiola di "Farewell To Wendo"-, infatti già con "Confusion Time" il battito rallenta, mostrando il fianco a una generale rivisitazione dell'approccio alla composizione attuata dal duo. Nonostante qualche episodio stanco e un po' melenso (il lounge-pop senza spina dorsale di "Sleeper"), la band sa dare segnali di inventiva con fumosi noir-pop sciccosissimi (le convulsioni vocali di "Don't Work, Don't Care", il bel battito chillout di "Confusion Time"), dimostrando capacità sia come beat-maker – notevole il downtempo di "Happy Crash" - sia nelle vesti di creatori di melodie (gli incroci di synth estasiati in "Snowball"). “Temporary Happiness” ha bisogno di tempo per farsi apprezzare, non ha la presa rapida del suo predecessore e agli inizi potrebbe non piacere. Non avendo dalla sua un singolo killer o un piglio pop contagioso, ma bensì un tono pacato e dimesso, il disco non si ancora al passato ma bensì evolve, evitando una pericolosa stagnazione su percorsi abusati (vedere la carriera degli Hot Chip per esempio).

Stump e Nick hanno voglia di andare avanti, progredire e proporre sempre qualcosa di nuovo, magari in principio potrebbe essere difficile da accettare ma in questi casi è sempre la scelta giusta. Non c'è niente di più deludente nel vedere una band a cui vogliamo bene scadere nella monotonia e nel mestiere. Dunque, benvenuto “Temporary Happiness”!

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Kreidler: "Den" (Bureau B, 2012)
















Tornati in grande stile solo un anno fa dopo un periodo di lunga assenza, il collettivo tedesco si ripresenta nel 2012 con "Den". "Tank" ha rappresentato il vero canto del cigno per una band condannata da più di un decennio al quasi totale oblio. Album inappuntabile e frizzante, mischiava sapientemente, come da tradizione kreidleriana, kraut-rock, elettronica teutonica e spazialità post-rock, sintetizzando in maniera perfetta un'intera carriera di sperimentazioni.

“Den” ricalca quasi pedissequamente quello che avevamo detto per "Tank". Infatti siamo di fronte a sette composizioni formalmente inappuntabili, realizzate con un pizzico di maniera, le quali a questo giro pagano un po' di staticità ritmica e melodica. Nonostante gli amanti della musica dei Kreidler e in generale gli appassionati di musica strumentale apprezzeranno, "Den" mostra un po' la corda dopo i primi ascolti, dimostrando come le tracce siano come uscite da una coda della session di registrazione del quasi coetaneo "Tank". Non mancano certo flessuose melme electro-rock (le atmosfere nebbiose di "Moth Race", i fumi industrial in "Cascase"), né lande elettroniche di splendida fattura come i riflessi sonici della chiusura "Winter", nella quale vengono campionati degli spari di fucile; è nel complesso che l'album non trascina definitivamente, non riuscendo a mettere in fila tutto il necessario per anche solo eguagliare il centro del predecessore. Tutta questa qualità in un album "minore" dimostra come la band abbia capacità di esecuzione ed esperienza compositiva fuori dal comune, dando ulteriore linfa al mito di una carriera per troppo tempo dimenticata.

Non una definitiva bocciatura vista la perfezione esecutiva e i rimandi stilistici, tuttavia ci sentiamo di consigliare questo album ad adepti del genere, mentre rimandiamo tutti gli altri, soprattutto a chi non conosce i Kreidler, ad ascoltare il capolavoro "Tank".

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 6 gennaio 2013

Crystal Castles: "(III)" (Fiction Records, 2012)















Autori negli anni di un versione peculiare della stagione electro-clash, Alice Glass e Ethan Kath tornano con il loro disco numero tre, tre (questa volta fra parentesi) come il titolo dell’album: "(III)". Nonostante la formula dei Crystal Castles non sia mai stata rivoluzionaria, il carisma della cantante, unita al sapiente lavoro di regia del sodale maschio, ha contribuito a creare un alone di mitizzazione intorno alla coppia. Concerti colmi di fan nero vestiti, miriadi di gadget come le pop-star, attesa spasmodica per le nuove prove, tutto questo ed altro rende la pubblicazione di "(III)" un qualcosa di relativamente significativo.

Non ci discostiamo un granché dal passato, infatti siamo sempre di fronte a una forma stracciata, svestita e stuprata di electro-pop. Ritmi e melodie opprimenti, cantato squarciato in gola, ariosità ridotta allo zero, giochini elettronici e tanto disagio generazionale. La solita minestra per le solite orecchie verrebbe da dire. I due di Toronto però non sono degli stupidi, riescono a creare l’evento unendo misticismo di facciata e una musica che colpisce tale è forte il sentimento di disturbo umano del quale è intrisa. Non molte le canzoni forti a cui fare appiglio per un lancio su scala internazionale (forse la sola "Pale Flesh"), tuttavia la sensazione è che "(III)" vada preso nel suo complesso, considerando i quaranta minuti di musica come un unico canto di un cigno bianco malato, ferito e morente.

E' un insieme conturbante, in cui si evince un netto nichilismo melodico, con la Glass a sguazzare perennemente nell'ombra, tra alzate di tono e improvvise cadute nell’oblio. La sezione ritmica imposta da Ethan Kath abbraccia il synth pop deviato dei primi Ottanta con le tastiere a ricamare giretti ombrosi e mai domi. Pare di assistere a un'improbabile fusione tra il Wes Eisold di "Cremations" ("Insulin", "Telepath")  e un disco rotto fatto girare perlopiù al contrario. Allo stesso tempo, subentrano qua e là altri paralleli (im)possibili, come suggerito dal campionamento di "Wrath Of Gold", rubato magari agli Underworld, o l’intro sbilenca e fatata di "Transgender", con la fascinosa Alice ben ferma sullo sfondo prima che Ethan (ri)giri a modo le proprie manopole.

A differenza dei due predecessori, "(III)" è un disco genericamente pulsante. Lo conferma il groove emo e vibrante di "Violent Youth", così come i vari stop&go mutanti di "Mercenary" con tanto di tastierone lunare in coda a ipotizzare fantasmi e qualche demone disperso.
Trascorsi i sette anni di attività, i Crystal Castles mantengono ancora intatto il cristallo che costituisce il loro bel castello sonoro, ergendosi di fatto a paladini del nuovo electro-clash, tra agghiaccianti spruzzate sintetiche e una sempre più nutrita schiera di giovanissimi adulatori.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

mercoledì 2 gennaio 2013

Susanne Sundfor: "The Silicone Veil" (EMI, 2012)















Reduce da un 2011 di discreta notorietà, frutto di un vasto tour seguente allo splendido “Brothel”, Susanne Sundfor torna a un solo anno di distanza con “The Silicone Veil”. Forte di una straordinaria vocalità angelica, la norvegese propone qualcosa di leggermente differente rispetto all’esordio, mischiando le carte e mettendo a nudo le viscere di un talento infinito.

Se “Brothel” mostrava un’anima flebile con canzoni sussurrate in un mare di silenzio, “The Silicone Veil” rappresenta un urlo liberatore, un volo iniziatico, un’opera che svela appieno tutte le potenzialità del cammino precoce di Susanne. Quello che non è cambiato è l’elemento principale della musica proposta: la voce. Fra le ugole più cristalline e policromatiche del panorama indipendente, la ragazza  mette a frutto ciò che la natura le ha donato cucendosi addosso canzoni che valorizzano le sue corde vocali, emozionando fin dai primi vocalizzi di “Diamonds”. Non si ha a che fare con un’esposizione fine a sé stessa da parte dell’artista, né tantomeno con mielosi soliloqui vocali, bensì una dimostrazione di maturazione compositiva, la quale ha aiutato a progredire verso una compiutezza perfettamente calibrata con le capacità maturate fin dall’esordio.

Ispirata alle opere soliste di muse dark d’altri tempi (basti ricordare Diamanda Galas), la norvegese attinge da varie fonti di ispirazione per un risultato di difficile decifrazione. Nonostante la sua voce non sia esattamente di una dark-lady, le atmosfere sono tutt’altro che salvifiche o solari, anzi, sentendo canzoni come “Rome” , “White Foxes” o “When” il contrasto fra l’apparente malinconia delle melodie e l’esplosività colorata del cantato crea un forte disagio. L’ efficacia di tale scelta – miscelare due registri emotivi all’interno delle canzoni – permette all’artista di interscambiare le partiture classiche a lei care (la splendida “Stop (Don’t Push The Bottom), lo strumentale “Meditation In An Emergency”) e l’uso dell’elettronica (le quasi pop-song “Among Us” e “Rome”) in un connubio che in sole dieci tracce seduce senza vie di mezzo. Avendo così tante cartucce nel suo arsenale, la ragazza può permettersi il melodrammatico con un piano-voce flebile e tagliente (“Can You Feel The Thunder”), o il tono angelico con l’accompagnamento di sola arpa e poco più (le vette celestiali della title-track), per finire con il synth-pop disturbato di “Your Prelude”. Ascoltando le canzoni di questo disco pare di toccare le fiamme dell’inferno e contemporaneamente volare verso le sconfinate lande del paradiso; tale discrasia genera una potenza espressiva capace di sconvolgere gli equilibri emotivi di chiunque.

Dimostratasi artista di levatura superiore oltre ad essere stata baciata dal tocco beato di madre natura, la norvegese pare all’inizio di un cammino di cui “The Silicone Veil” è solo un breve passo. Capace di solcare e superare paragoni ingombranti e steccati predisposti dal luogo comune della “bella che canta bene”, Susanne Sundfor saprà spazzare via tali pregiudizi con la forza dei risultati e dalla bellezza della sua musica.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 1 gennaio 2013

B. Fleischmann: "I'm Not Ready For The Grave Yet" (Morr Music, 2012)















Fra i pochi reduci dell'era indietronica ancora discretamente attivo, Bernard Fleischmann è riuscito negli anni a mutuare quell'esplosione di ispirazione compositiva in una musica personale e perfino originale. Grazie ai precedenti "The Humbucking Coil" e "Angst Is Not A Weltanschauung!", splendidamente eseguiti dal vivo anche in Italia nel 2009, il tedesco è riuscito a mantenere un'inviadibile qualità media nelle sue produzioni. Dopo un periodo di pausa ripropone le sue intuizioni con il nuovo “I'm Not Ready For The Grave Yet”. Sarà difficile per ogni lettore – anche il più disattento – non leggere una nota di acre sarcasmo nel titolo. Il nostro beniamo sta urlando al mondo che c'è ancora, ed è pronto per farci sognare.

Dimostratosi musicista dalle grandi capacità compositive e un discreto cantante, ciò che rimane da fare al veterano della Morr Music per farsi notare è tirar fuori dal cilindro belle melodie e impacchettarle con l'acume ritmico con cui si è sempre distinto. Siamo di fronte a pezzi deliziosamente gentili, precisi, piacevoli, frizzanti e vari, semplicemente carini. Nonostante l'aggettivo sia solitamente affibbiato a un prodotto poco più che mediocre, la sensazione che si prova ascoltando le dieci tracce è vera e propria carineria. C'è tutto quello di cui potrebbe innamorarsi un medio appassionato di musica indipendente: elettronica di scuola teutonica (ancora Boards Of Canada e To Rococo Rot), chitarrismo indie-rock, ritmi IDM scodellati con il misurino, cantato sommesso, strumentali ispirati e movimentati. Certo, chi cerca avanguardia o soluzioni innovative qua troverà ben poco. Nonostante gli sforzi per rinfrescare una formula risaputa siano notevoli, chi ha un minimo di esperienza riguardo questi suoni saprà esattamente cosa aspettarsi, né più né meno. Essere fedeli a sé stessi può essere considerato un difetto di staticità o un pregio di onestà verso il proprio pubblico, dopotutto non è per niente facile reinventarsi da capo quando un trend musicale esaurisce. Tuttavia, va riconosciuto al teutonico che la canzoni ci sono, e quasi tutte di ottima fattura.

Che dire del fluviale andirivieni di elettronica pastorale di "Lemminge"? Era dai tempi dei primissimi Mum che non si sentiva un tale incanto dal sapore quasi amatoriale, delicato fino alla fragilità, un vero sogno ad occhi aperti. Ed anche il pregevole lavoro di cucitura dei suoni elettronici si eleva al di sopra di molte produzioni odierne ("Don't Follow" e "Tomorrow" per esempio), mentre l'uso degli strumenti acustici risulta sempre ben amalgamato sul corpo digitale con un utilizzo efficace di chitarre e percussioni. Splendida in tal senso "Who Emptied The River", come del resto la title-track. E come ignorare il nostalgico richiamo all'IDM di "Some/Others/My Husband" in cui il ritmo sale di tono, tanto che pare di tornare indietro di quasi quindici anni? Il tutto condito da una produzione talmente precisa che i suoni sembrano esplodere fuori dalle casse tanto sono vivi e tangibili. Per non farsi mancare niente Bernard piazza in coda due ballate electro-pop dal tono quasi natalizio e melanconico - mai edulcorato - come il blues elettronico di "At The Night The Fox Comes" e l'ironica "Your Bible Is Printed On Dollars".

Se “Welcome Tourist” fu un tormentone nel 2003 – anno d'oro dei vari Lali Puna, Styrofoam e soci –, citato da tanti eminenti critici dell'epoca, questo "I'm Not Ready For The Grave Yet" sarà per il 2012 appena concluso un disco appena menzionato in qualche lista nostalgica. Questo non gli impedisce di esplodere in tutta la sua bellezza, cogliendo di sorpresa anche chi, dopo quasi dieci anni, proprio non se lo aspettava.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana