domenica 28 novembre 2010

Killing Joke: "Absolute Dissent" (The Spinefarm Records, 2010)



I quattro cavalieri dell’apocalisse sono tornati. A ventotto anni dall’ultimo cataclisma rock in line-up completa, orfani del rimpianto Paul Raven - deceduto nel 2007 ed egregiamente sostituito dal bassista/produttore originale Martin "Youth" Glover - Coleman e soci scelgono, tanto per cambiare, il dissenso come fonte primaria delle loro ispirazioni. È un dissenso ovviamente assoluto, che non offre sconti, palesato alla stregua dei tempi perduti pur non disdegnando in alcuni momenti un approccio meno catartico.

Dal punto di vista strettamente produttivo, quello dei Killing Joke è davvero un ritorno in grande stile. Perché “Absolute Dissent” mostra tutto ciò che la band inglese ha raccolto in questi anni nei vari festival continentali, o meglio un coagulo di sconquassi hard-rock, derive delle scorie punk, metal e heavye heavy e finanche pulsazioni disco à-la Martin Gore (“European Super State”).

La miscela stilistica è senza dubbio nel complesso gradevole, considerata soprattutto la saggia alternanza stilistica dei pezzi. Ciononostante, i quattro sembrano crogiolarsi un po’ troppo nella propria insurrezione, pur non mancando quell’apprezzabile volontà di non sfigurare al lento ma inesorabile trascorrere del tempo. Eppure, lo scherzo sembra aver perso parte della sua letalità. Non a caso, il risultato è decisamente più convincente nei pochi momenti in cui la truppa pare allontanarsi dal primitivismo vandalico insito nel proprio dna musicale. Così, gli assalti frontali quali la stessa title track, la cruda “The Great Cull”, l‘irrequieta “Fresh Fever Frome The Skies” e la devastante “This World Hell” rispolverano quel catastrofismo alienato mai spentosi nell’animo di Coleman, senza tuttavia pungere più di tanto. L’assenza di partiture industrial realmente incisive, di inserti elettrici mistificatori e bassi dub in pompa magna (eccezion fatta per “Ghost Of Ladbroke Grove”) evidenzia da un lato un’ardita ma innocua compostezza thrash, dall’altro lato una ridotta istintività punk, frutto di una maggiore consapevolezza dei propri mezzi.

Il disco si nutre delle scorie punk, metal e heavy già accennate con efficace virulenza, mostrando tuttavia una preoccupante monotonia compositiva. L'impatto iniziale del disco, tutt'altro che anonimo, tende via via a scemare; la sensazione è quella di sentire la ripetizione di un canovaccio logoro e sfinito. Non c'è mistificazione, non c'è il tormento dark, non ci sono impennate o frangenti che di discostano; il pugno di ferro utilizzato alla fine si frantuma in mille piccoli pezzi. Star ad analizzare traccia per traccia, cercando di scovare anche un solo un motivo d'interesse è decisamente troppo anche per i Killing Joke. Stima, rispetto e mitizzazione non riescono a sobbarcarsi il peso necessario per oscurare le lacune di “Absolute Dissent”.

Le conclusioni potrebbero comprendere una banale bacchettata sulle mani nei riguardi di un ritorno stanco e superato, tuttavia riconosciamo al gruppo quantomeno una dignità di fondo ben evidente. Il disco non supera mai la sufficenza d'ufficio, ma non sprofonda in abissi di dubbio gusto, mantenendo quanto meno uno stile nel proporre una musica non eccelsa. Consigliato solo a fan e nostalgici della chitarra pesante.

(6)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Shed: "The Traveller" (Ostgut Ton, 2010)



Ci eravamo lasciati con Shed in un 2008 dominato dall'evento dubstep, stanchi e spossati da un trend che andava già autodistruggendosi, a causa del progressivo smarrimento di un obiettivo (forse) mai più ritrovato.

Renè Pawlowitz, in arte Shed, non si limita a cavalcare la scia ma la stravolge, mescolando gli elementi, spazzando via qualunquismi e luoghi comuni del genere, capace com'è di gestire una miriade di influenze senza risultare presuntuoso. Mentre in altri ambiti si provano continui numeri a effetto per ravvivare un interesse scemato, qui la soluzione di continuità con il passato è spontanea e necessaria. “The Traveller” è la naturale evoluzione dell'esordio, poiché le due opere vivono di un'osmosi reciproca che giova a entrambe grazie a un perfetto completamento delle rispettive peculiarità.

Il suono magmatico e opulento della musica di Shed è toccato dalla grazia di una passione che esula dai confini della normale amministrazione. Un suono techno così variegato, atavico, perfino viscerale, è generato per forza di cose da una mente profondamente calata nelle atmosfere che riesce a creare. Tanti sono gli elementi che contribuiscono ad avvicinare Shed a maestri come Carl Craig o Drexciya: il colore di suoni sempre più frizzanti e mai statici, la varietà dei ritmi, il campionario di melodie. Che a prevalere sia il lato più disteso e avviluppato o quello sfrenato e primordiale, la sensazione è quella di ascoltare qualcosa di realmente speciale.

Fra danze urbane nelle quali il battito perde la via del controllo (la morbosa “Keep Time”, i fraseggi da club di “My R-Class”, la struttura ritmica geniale di “Atmo - Action”), si inseriscono gemme a metà fra techno e ambient (la nebbia che avvolge “The Bot”, la leggiadria dei synth di “44a (Hard Wax Forever)”, la brumosa title track). L'intuizione cruciale per comprendere appieno un'opera come questa non consiste nel decifrare quale tendenza sia più accentuata, bensì nella capacità di cogliere particolari spesso decisivi. L'accoppiata “Mayday”-”No Way!” ne è un esempio: i due pezzi sono saturi di interstizi minuscoli, ricolmi di suoni impercettibili, battiti e timbri minuziosamente tagliuzzati e giustapposti con una precisione da vero perfezionista. Questa caratteristica, tratto distintivo di tutto “The Traveller”, richiede un ascolto attento e meticoloso. Trovato lo spazio per un'inconsueta saturazione dei synth (le accecanti fluorescenze di “Hdrtm”, le scale melodiche fascinose nella conclusiva “Leave Things”), l'album pone l'ultimo tassello con “Hello Bleep!”, un miracoloso alternarsi fra tastieroni ingombranti e un bagaglio ritmico impossibile da districare.

Confermando il parere ampiamente formulato per “Shedding The Past”, il microcosmo sonoro che Shed sta creando negli anni assomiglia a un progetto a lungo termine, che potrà condurre verso nuove, inimmaginabili sorprese. Vista la sostanziale perfezione di "The Traveller", i margini per un ulteriore miglioramento sembrano addirittura angusti, tuttavia continuando a scavare più a fondo nell'anima geniale di questo ragazzo si è certi di poter scoprire sempre qualcosa di davvero emozionante.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 21 novembre 2010

Olga Kouklaki: "Getalife" (The Perfect Kiss, 2008)



Era il 2006 e in una torrida estate usciva l'esordio omonimo dei Poni Hoax. Il disco conteneva il singolo bomba "Budapest", poi remixato più volte nel corso degli anni. In quella canzone la voce, vorticosa e piena di fascino, era di Olga Kouklaki.
All'incirica due anni dopo la bella fanciulla:



Torna in pista con un album nuovo di zecca, esordio e fantastico compendio di synth-pop imbastardito e teso. Senza concessioni ad una sola melodia banale, l'opera veleggia con classe in mezzo a un tripudio di beat elettronici magici. C'è il robot-pop di Kraftwerk, ci sono chitarrismi wave, c'è il trip-hop acido dei Massive Attack più arditi, si sente l'eco di una sensibilità da pista di cui l'artista va sicuramente fiera.

Fra singoli assassini ed afferatezze elettroniche (la splendida title-track, il techno-pop di "How Do You Feel"), trovano spazio strumentali adatti per una colonna sonora cyber-punk (l'eterea "Melted Torch", i rantoli vocali di "Calling You"), strutture complicatissime (riconoscere un pattern in "Be4 The Night Ends" è davvero arduo per chiunque) ed episodi di vero horror-pop ("Call Me Liar" è un abisso profondissimo). Il margine per ulteriori esperimenti non è esaurito, anzi, il riciclo dell'ispirazione porta nuova linfa; ascoltare altri esempi di perfezione techno-pop in "Right Shot" ma sopratutto "Her Own Right".

Non un momento di pausa (in mezzo c'è la silente "Ballade" e le saturazioni atmosferiche di "Afissos") fin quando ci accorgiamo della fine con la placida ballata "Pick Up Your Pieces".

Mi viene davvero difficile parlare di capolavoro, tuttavia le cose fuori posto in "Getalife" sono quasi impercettibili, mentre i lati positivi mettono, uno dopo l'altro, insieme i pezzi per un qualcosa di seriamente indimenticabile.

Da recuperare anche l'esordio dei Poni Hoax, che oltre al singolo già citato contiene dei pezzi irresistibili. Oltre a questo, sullo stesso filone mi viene da assimilare in modo quasi naturale l'esordio di Costanza, "Sonic Diary". Scoperta e lanciata da Tricky.

Mock & Toof: "Tuning Echoes" (Tiny Sticks Records, 2010)



Duncan Stump (Mock) e Nick Woolfson (Toof) sono due producer inglesi nel pieno della propria creatività elettronica. Già transitati per la Dfa di James Murphy mediante una serie di remix più o meno occasionali, questi due abili manipolatori del groove hanno ben pensato di esordire per un’etichetta propria, sguazzando liberi da qualsiasi potenziale classificazione o influenza esterna. Il loro parto, “Tuning Echoes”, è eversivo, solare, generoso, capace di meritare un posto in prima fila tra le uscite electro-pop più significative dell’anno.

I riferimenti, talmente chiari, quanto insignificanti ai nostri timpani, mostrano fin da subito una smodata passione per sua maestà Byrne e tutto il synth-pop inglese dei primi Ottanta dal ricamo tropicale facile, a partire dal Matt Johnson più etnico. “Tunig Echoes” è un disco in cui ogni singola traccia ha una sua seducente mutazione, ora giocattolo (“Mr Frown”) - alla stregua di un Super Mario che punta dritto al record di turno - ora purissima fluorescenza balearica punk-funk propria dei Talking Heads più assennati. Ma non solo. Nelle testoline mature di questi signori predomina un’aura magica irta di ricami e battiti organizzati con estro, a cui seguono improbabili pulsazioni plasticose inscenanti improvvisi thriller cibernetici (“Lovehearts”). Tuttavia, si evince un utilizzo analogico dei vari arnesi da intrattenimento sublimati in un iceberg di tastieroni circolari ad alta temperatura (“P2160”), quasi un omaggio all’eleganza e alla classe intrinseca del modello di riferimento.

La perfezione delle melodie pop a volte è sinceramente abbagliante (la malia di “Farewell To Wendo”, gli intricati controtempi di “Move Along” ), fra richiami disco e tropicalisti (le sciabolate scheletriche in “Shoeshine Boogie”, il beat di chitarra anni 70 di “The Key”) ed episodi più classici ma non per questo meno efficaci (la dolcissima “From Kashima”, synth-pop arioso per “Underwater”, rifrazioni robot-pop in “Norman's Eyes”). In questo ricco calderone scoppiettante trovano posto anche due strumentali dal fascino irresistibile (la lenta e serafica “Take Me Home” si contrappone ai frizzanti ritmi di “Day Ken Died”), a testimonianza di quanta energia e sforzo compositivo siano stati profusi per rendere il meno possibile ovvio e risaputo lo scorrere del disco.

Fresco, senza momenti morti, vivido, “Tuning Echoes” non perde mai un'occasione per piazzare la scelta giusta. Siamo di fronte a un'opera eterogenea, capace di esprimere l'animo dei propri autori, il quale si rivela in tutto il suo splendore fin dall'iniziale “Farewell To Wendo”, singolo il cui posto sarebbe in cima a tutte le classifiche. Non stiamo parlando di un capolavoro per una questione di millesimi.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

lunedì 15 novembre 2010

Gel-Sol: "K8ema" (Psychonavigation, 2010)



Solo superficialmente assimilabile allo stuolo di artisti archiviabili sotto l'etichetta IDM, Andre Reichel annovera una carriera di un certo rilievo. Componente dimissionario degli interessanti 302 Acid (chi si ricorda il loro splendido “Even Calls”?), negli anni ha continuato a pubblicare nuovi lavori con i due moniker a lui associati: Gel-Sol e Kid For Tomorrow. Se con il secondo ha esordito quest'anno con il brillante “Nequa” (prima un solo Ep nel 2007), il primo pseudonimo è attivo dal 2004. Fin da “Gel-Sol 1104” il suo stile è stato contraddistinto da un approccio interdisciplinare, sempre pronto a influenzare il suo background principale con intromissioni di ogni genere. Un mistico frullato di dark-ambient, IDM, isolazionismo, improvvisazione e un tocco di sana schizofrenia camaleontica.

“K8ema” è una landa ambient sorda, profondamente dispersa, desolata. Il ritmo si riduce a timidi battiti e non c'è mai un appiglio sicuro e rassicurante a cui fare affidamento. Si potrebbero tirare in ballo nomi altisonanti o generi di riferimento (kraut-rock, Aphex Twin, Orbital e uno spruzzo di Tangerine Dream), ma l'identità di questa musica fluisce naturalmente in blocco, senza permettere all'ascoltatore una definizione certa.

Tastierismi elegiaci incensano lo scorrere dell'album (la title track, la silente “The Mechanical Garden”), attorniati spesso da melodie oscure e sorde (i mistici rimbombi di “Spirit Guide”, riflessi psichedelici in “Glade”). L'uso di voci campionate aiuta a colorare le tracce, spesso donando una marcia in più decisiva, come nel caso di “Gel S'hole”, dove una nenia malsana viene magistralmente conclusa da un canto infantile collettivo di grande efficacia. E dopo un continuo stravolgimento di suoni, arriva la calma placida della finale “Last”, un classico crescendo cosmico un po' stagnante, ma tuttosommato apprezzabile.

C'è di che parlare nei confronti della carriera fin qui segnata da Andre Reichel. Questa sua ultima tappa è una dimostrazione di coerenza artistica e ispirazione mai doma. Un'opera se si vuole pure classica e un po' accademica, sicuramente settoriale, ma di un certo interesse e intensità compositiva. Una vera soddisfazione per chi ama emozioni sotto pelle e un velo di impercettibile sobrietà.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Titiyo: "Hidden" (Desport Records, 2010)



Nata a Stoccolma nel 1967, Titiyo imperversa sul mercato discografico svedese da circa venti anni. Raggiunto il successo precoce a inizio carriera con il singolo “Talking To The Man In The Moon” nel 1989 (piazzatosi al numero sei nella classifica di vendite), l'artista da quei giorni ha pubblicato ben cinque album, distribuiti con capillarità nel corso del tempo. La sua voce calda e versatile le ha permesso di esplorare territori fra i più svariati come l'r'n'b, l'europop, il trip-hop e il soul. Il suo ultimo “Hidden” è proprio un misto di tutto ciò, capace di mescolare profondità soul e incastri elettronici che non hanno identità ben definita, così calibrati e misurati fra synth-pop, downtempo e tenerezze distese in odor di ambient-pop.

Le prime tracce delle nove presenti risultano positive e approfondite (il bel ritmo agrodolce di “Awakening”, il soul sporcato in “Standby Beauty”, la placida “If Only Your Bed Could Cry”), mentre sul finire la qualità è decisamente altalenante, fra scelte azzeccate (il delicato bozzetto folk-pop “Longing For Lullabies”, i tribalismi acustici di “Drunken Gnome”) qualche idea confusa (“Stumble To Fall” è senza nerbo, “N.Y.” parte bene ma non prende mai il volo). La conclusiva “X” è uno splendido esempio di dream-pop soffuso e delicato, una semplice dimostrazione delle capacità di un'artista versatile e ispirata. Il disco soffre di una certa schizofrenia compositiva perfettamente compensata da alcuni numeri di alta scuola.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana