mercoledì 8 ottobre 2008

AGF: "Dance Floor Drachen" (AGF Produktion, 2008)



A circa sei mesi dall’imponente “Words Are Missing”, giunge senza preavviso il quinto lavoro di Antye Greie-Fuchs, “Dance Floor Drachen”. Oltre alla pura musica presente in queste tracce, nella genesi dell'album si nasconde un concept dalle fattezze ambiziose. Innanzitutto non si tratta di una pubblicazione usuale, ma di un lavoro progettato, congegnato, scritto, composto per essere pubblicato solamente in formato digitale sul web. Come da testuali parole dell’artista, l’album non è stato realizzato e solo successivamente reso disponibile, anzi, l’idea di partenza è stata quella di adoperare i titoli delle tracce per lasciare un messaggio. Dunque, se li si legge dal primo all’ultimo, si ottiene: ”If you consider, than reconsider, ripping this track for free, you might slowly turn impotent, (because) this is reduced beauty from a Nazi Stalinist successor”. Pare perciò evidente che in origine sono nati i titoli e solo successivamente la musica.

Oltre a questa trovata molto spiritosa, l'opera sottende un intento decisamente più profondo: quello di dipingere uno sfondo vagamente introspettivo sul tema della fruibilità musicale nel 2008. Non si tratta solo di riflessioni sul cambiamento dei supporti con cui si usufruisce del prodotto musicale, ma il discorso si fa più ampio e va a minare il solido concetto di possesso generalizzato, come a volerlo trasformare in una nozione più astratta. Domande come: ”Possederemo la musica che compriamo o scarichiamo?”,  o ”Posseggo la mia musica?”, sono quesiti che l'artista pone a se stessa e agli appassionati che si avvicinano alla sua arte.

“Dance Floor Drachen” si occupa di sviscerare il lento cambiamento della percezione del possesso e lo fa non con proclami urlati ai quattro venti, bensì attraverso un’operazione studiata per essere silente e strutturata, lasciando alla controparte lo sfizio di percepire il messaggio nella sua interezza.

Quando una pubblicazione discografica ingloba spunti di riflessione, può talvolta riservare sorprese (negative) dal punto di vista strettamente musicale, ma per fortuna questo non avviene in questo caso, poiché la passione riversata da AGF nella sua musica trascende ogni possibile intento intellettualoide.

“Dance Floor Drachen” si discosta in parte dalle sembianze non certo accomodanti di “Words Are Missing”. Nonostante l’ormai usuale lavoro di sperimentazione sulle possibilità timbriche della voce, AGF questa volta scarta cavillosi sviluppi avant per dare spazio a ritmi e strutture più ariose. Il concepimento di questo disco passa per l’idea di voler registrare pattern vocali a cui sovrapporre semplici ed essenziali beat, privi di musica o strumenti aggiuntivi. Inoltre, molte delle tracce qui presenti sono state cesellate riesumando vecchi scampoli di composizioni condivise con altri artisti.

L’iniziale “If You” - la traccia è stata scritta nel 2001 per Vladislav Delay e mai pubblicata - anticipa già questa impostazione, visto che si basa su un pattern timbrico molto regolare e su battute secche. Nello sviluppo della traccia appaiono scuciture rumorose che squarciano una costanza fino a quel punto soltanto immaginata. Vera e propria apertura dell’album, la traccia recita la frase a cui si fa riferimento poc’anzi, rivelandosi un portale d’ingresso all’intera opera.

“Consider” nasce da una improvvisazione ottenuta con radiaL (live software prodotto da Cycling 74) ed è uno splendido quadretto spumeggiante, leggermente improvvisato e schizofrenico. “Than Reconsider” incastra un appeal molto minimale ma non tedioso, sul quale le pulsioni veleggiano con fumosa velocità. La voce rappresenta, come al solito, uno strumento accessorio che pare anch’esso programmato attraverso un software specifico, tanto che l'asetticità che potrebbe riscontrarsi in essa non ha certo una connotazione negativa, anzi la placidità con cui si distende nelle membra delle composizioni è contagiosa. Ispirata da alcuni sample tratti una scena aerea di un film di Hollywood (non è dato sapere quale), “Ripping This Track” è animata da un impeto disconnesso, capace di trasportare in un gorgoglio di scampoli digitali da epilessia sensitiva. “For Free” si basa su alcuni field recordings registrati nel marzo 2008 davanti alla nona strada di New York, testimoniando la placida progressione di una comune giornata urbana. “You Might” esplode e si racchiude in flussi pericolosamente vertiginosi e nasce come remix di una composizione originariamente scritta per un film di Sue.C.

“Slowly” è un rifacimento di “Tunesia”, traccia composta a quattro mani con Vladislav Delay, e pare la sonorizzazione per un teatrino digitale andato in cortocircuito, “Turn Impotent” è una commovente narrazione in presa diretta, in cui suoni e contorno fanno da scenario per una confessione a tratti urlata, in altri sommessa e docilmente sussurrata. “(because) This Is” agisce con folle ripetitività nei meandri più nascosti della percezione uditiva, la frase “This Is” viene incrociata fra decine di piani d’esecuzione accoppiando un beat deciso e muscoloso, fino al raggiungimento di un risultato di ipnosi futurista.

“Reduced Beauty” rimaneggia la traccia "You Stop" presente nel capolavoro “Westernization Completed” del 2003 e, nonostante i cambiamenti, la poliritmia che ingabbia gli sguscianti deflussi vocali di quel glorioso frangente, mostra ancora tutto il suo splendore. La conclusiva “From A Nazi Stalinist Successor” rappresenta infine la discesa negli inferi sotto forma di cronaca astratta.

Opera fortemente concettuale ma non per questo carente dal punto di vista musicale, “Dance Floor Drachen” conferma ancora una volta la statura artistica di AGF, sviluppando spunti ancora una volta inediti, distogliendo l’attenzione da trend stantii per suscitare invece riflessioni finora mai veramente approfondite a dovere.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana




venerdì 3 ottobre 2008

Boduf Songs: "How Shadows Chase The Balance" (Kranky, 2008)



Due anni dopo l'intensissimo "Lion Devours The Sun", riemerge dal suo antro creativo l'inglese Mat Sweet che, ormai giunto al terzo album sotto l'alias Boduf Songs, ha ormai consolidato il proprio profilo di cantautorato lo-fi, sofferto e isolazionista. Sweet sembra davvero un artista fuori dal tempo, immerso in una solitudine agognata quale indispensabile viatico alla scrittura, un artista quasi senza volto, come dimostra la sostanziale assenza di immagini che lo ritraggano e il fatto stesso di non utilizzare in alcun modo le possibilità di diffusione della sua musica offerte dalla rete (caso più unico che raro, non ha nemmeno un pagina Myspace).

Laddove il mercato musicale – persino quello indipendente – riesce con difficoltà a fare a meno dell'apparire e di piccoli e grandi hype, viene invece da immaginare Mat Sweet in una solitaria dimora immersa nella più profonda countryside inglese, dalla quale esterna con discrezione al mondo la sua ispirazione per il solo tramite dei suoi brani. L'isolamento creativo, in "How Shadows Chase The Balance", è anzi accentuato poiché per la sua realizzazione, come sempre casalinga, Mat Sweet ha prediletto le ore notturne, con il dichiarato intento di ridurre al minimo i rumori di fondo delle registrazioni e con quello, consequenziale, di farsi circondare da un contesto ancor più intimo e raccolto, il cui silenzio riempire soltanto con compassate spirali acustiche e con il suo cantato tenebroso.

Tali presupposti generano, non a caso, un album dalle strutture, se possibile, ancora più scarnificate del solito, che vede Mat Sweet rielaborare gli elementi essenziali della sua musica, giustapponendoli per enfatizzarne i tratti più aspri, ora portati in primo piano, ora compressi per lasciare spazio ad un'indole melodica quasi del tutto inedita. Accanto alle abituali litanie al rallentatore, che introducono in una tetra temperie onirica, "How Shadows Chase The Balance" denota una graduale evoluzione verso una serie di approdi possibili. Le scarne componenti folk della musica di Boduf Songs si colorano, da un lato, di più lievi accenti acustici, che fanno capolino in vere e proprie canzoni dalla chitarra pulita e dalle melodie meglio delineate ("I Can't See A Thing In Here", "A Spirit Harness", "Last Glimmer On A Hill At Dusk"), dall'altro perdono i propri caratteri originari, assumendo una dimensione ritualistica in composizioni incrementali, che sfociano in mantra spettrali ("Don't forget to fall apart/ don't forget to come undone"), mai così prossimi a depressive sfumature gotiche.

Fin dall'inizio, il sibilo che si distacca dallo statico silenzio di "Mission Creep" è pura inquietudine solitaria, messa a nudo da un arpeggio di chitarra quanto mai chiarificatore; la voce claudicante pare un lamento protratto con stanca solennità.

Il frequente inserimento del banjo fra le melmose note di chitarra stride con un risultato finale quasi acidulo, addolcendo un contesto in apparenza immobile di fronte a qualsiasi tentativo di levigazione, come dimostra l'imperscrutabile "Things Not To Be Done In The Sabbath".

Parvenze ritmiche prendono corpo con la batteria altalenante di "Quiet When Group", vera e propria discesa negli inferi dall'incedere a tratti indolente ma mai dispersivo, capace di condurre su lidi dove la pioggia non cessa mai e il cielo è perennemente oscuro.

Spirali luciferine avvolgono, poi, "Pitful Shadow Engulfed In Darkness", che si presenta come un mantra folk meditativo e dalla struttura ridotta all'osso, scarnificata fino al limite dell'impalpabile, che pare ispirato da un tormento indescrivibile, evocato da recondite anime piangenti.

In coerenza con certe dilatazioni ambient-folk già riscontrabili nel repertorio passato di Sweet, gli opulenti sette minuti di "Found On The Bodies Of Fallen Whales" sono incentrati su una nota sinistra, costretta a duplicarsi con lentezza, cesellando un immaginario spaziale capace di fare a meno delle parole. Il finale, sorretto ancora da un tintinnante banjo, conclude l'opera strizzando l'occhio a una felicità lontana, ma tanto tangibile da diradare con un soffio di coraggio una nebbia troppo fitta per non essere vera.

Anche a fronte della generale, accresciuta sensibilità melodica, permane tuttavia sempre la costante di uno spirito dolente, esacerbato da una componente lo-fi adesso più pulita che in passato, ma sempre tale da aggiungere efficacia tagliente alla cupezza repressa che promana da questi brani. Ad essere in parte mutato non è allora tanto la sensazione di sofferenza autentica e solo parzialmente esternata, quanto invece l'espressione, adesso più piana e melodica, resa in qualche misura meglio fruibile attraverso una temperata destrutturazione sonora e una maturata capacità di scrittura.

I foschi orizzonti di Mat Sweet restano sempre alieni da ogni rassicurazione e, a modo loro, emotivamente urticanti, tuttavia in "How Shadows Chase The Balance" il suo autoindotto isolamento creativo sembra aver trovato insospettabili veicoli comunicativi, sotto forma di una tormentata vena melodica, che testimonia la compiuta transizione cantautorale dell'enigmatico artista inglese.


(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo