lunedì 18 aprile 2011

The Adventure: "Lesser Known" (Carpark, 2011)




Autore nel 2008 di un simpatico disco di 8-bit music, l'americano Benny Boeldt pubblica il suo secondo album dopo un intenso periodo di live. In giro per l'America e il mondo, presentando il suo materiale e come componente fisso della band dell'amico Dan Deacon, il giovane musicista trova il tempo per ideare nuove vie stilistiche dopo il divertissement dell'esordio.

"Lesser Known" è un puro disco synth-pop. Abbandonate le strutture scheletriche, i synth e le drum-machine si uniscono in un florilegio di melodie generose, voci secche e ritmi danzerini. Nonostante la sincera passione infusa in un disco tutt'altro che sciatto, la qualità del risultato è decisamente incostante. Armonie spesso troppo opulente e di cattivo gusto (pathos quasi euro-pop per "Open Door" e "Another World") sono compensate da trovate di sicuro interesse come il beat metallico di "Feels Like Heaven", la coda elettrizzante in "Electric Eel" o le digressioni robotiche per "Relax The Mind". Il resto si assesta su una discreta rivisitazione dei migliori Ultravox, con canzoncine di sicuro impatto (autentico profumo eighties per "Smoke And Mirrors", "Rio" e "Meadows").

Carino, colorato e frizzante, "Lesser Known" pecca sul lato della personalità, dimostrando solo buone doti di rielaborazione e scarsa originalità. Tuttavia quasi tutte le canzoni funzionano egregiamente e dunque il disco è parzialmente promosso a patto che in futuro vengano inseriti elementi di novità.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 3 aprile 2011

Obsil: "Vicino" (Psychonavigation, 2011)




In un inarrestabile processo di sviluppo, il compositore senese Obsil prosegue la sua carriera dopo circa sei anni dall'esordio "Points". Confermate le impressioni positive con l'ottimo "Distances", Giulio Aldinucci arriva al terzo album con la consapevolezza di un veterano.

Attraverso l'utilizzo di toni più dimessi rispetto al passato, Obsil assesta la sua cifra stilistica su un'avanguardia educata, colorata, scintillante e mai eccessiva nei suoi ceselli di diafane melodie campestri. Quello che più risalta è l'animo del compositore, fortemente legato a una terra rigogliosa e spartana, che le melodie e i suoni incastonati lungo tutte le nove tracce rispecchiano da un punto di vista tanto sonoro quanto umano. La capacità di trasporre le atmosfere di una vita solcata da ritmi lenti e impassibili dona alla musica di Obsil una magia incantata, trasportando l'ascoltatore con semplice schiettezza.

Adagiato su un letto di calma serafica, “Vicino” non contiene un attimo in cui la tensione emotiva ceda il passo alla noia, fra tenui cromature invernali e un tocco di malinconia conclusiva.

Nenie brumose, pervase da una forza quasi primordiale, splendono in un inizio stellare (le ombre mistiche del trittico d'apertura), ricami finemente intarsiati si fondono con solennità ambient (il ritmo commovente di “Lenti Silenzi”, la conclusiva “Unseen”, il sapore artigianale di “Pendii (Siena, metà gennaio)”). La componente improvvisata non lascia mai del tutto la struttura delle composizioni, di volta in volta orrorifiche (“Nebbie d'ottobre”), delicate (“Drawing A Face”), caotiche e impacciate (sapori indie-tronici per “Snow Days At The End Of March”).

Obsil, autore di un'arte semplice e distinta, non sorprende con effetti speciali ma in "Vicino" assembla un ulteriore tassello colpendo con umiltà e senso del limite. Raggiunta una maturità sufficiente per tentare il salto di qualità con maggiore ambizione, l'artista toscano merita l'ennesimo plauso per la sua musica, gioiello di fattura nostrana mai valorizzato fino in fondo.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Sanso-Xtro: "Fountain Fountain Joyous Mountain" (2011, Digitalis)



Si erano di fatto perse le tracce di Melissa Agate, fin dai tempi in cui il debutto del suo progetto solista Sanso-Xtro aveva fatto la sua comparsa tra le prime uscite della Type Records.

Da allora sono passati ben sei anni, nel corso dei quali l'artista australiana è tornata nella sua terra di origine, senza tuttavia abbandonare il gusto per una composizione musicale incentrata su un melange tra suoni acustici e analogici, destinato a creare il substrato per tremule melodie e saltuarie incursioni vocali.

Così, sotto la sapiente supervisione di Lawrence English, prende finalmente forma "Fountain Fountain Joyous Mountain", testimonianza dell'attuale stato dell'arte della Agate che, nel corso dei trentacinque minuti di durata dell'album offre libero sfogo a un universo sonoro in perenne movimento ed espansione, nel quale convivono fragili iterazioni acustiche, giocosi polimorfismi al rallentatore e sonnolente cadenze jazzy. Nell'incontro tra synth, melodion, armonica, kalimba, chitarra e percussioni casalinghe, la Agate cesella un pullulare (micro)cosmico di frequenze ipnotiche, in grado di materializzare ora liquidi spettri, ora un desolato romanticismo, ora stratificazioni incardinate in via incrementale, a creare paesaggi alieni, compassati ma percorsi da una serie pressoché infinita di note, fremiti e detriti sonori il cui graduale sviluppo non sfocia tuttavia mai in trame dai contorni compiuti e definiti.

In un lavoro decisamente più improvvisato e meno strutturato rispetto al precedente "Sentimantalism", la Agate riversa la stessa sapienza a livello di composizione senza con ciò riuscire a infondere l'identica magia del suo esordio. Nonostante i paesaggi sonori posseggano un forte pathos, la coesione dei suoni si perde senza un'identità precisa. Fra accenni di folk improvvisato, glitch, jazz e musica elettro-acustica, riuscire a definire il preciso intento dell'artista australiana è un compito arduo. La durata decisamente contenuta dona all'album un tocco di dinamicità che colma in parte le lacune, rendendo l'esperienza d'ascolto se non altro fresca e non insostenibile.

Dopo un inizio efficace e molto positivo ("Fountain Fountain" e "The Origin Of Birds" sono due gemme scintillanti), l'andamento si fa spesso martoriato con risultati indefinibili (il jazz rarefatto di "Wood Owl Wings A Rush, Rush", la confusa "Light Come, Light Go, Ghost"), mentre "Hello Night Crow" e "Observes Shadows" si abbandonano a visioni cosmiche modeste, le cui velleità sperimentali sfociano piuttosto in una piattezza analogica che pecca di autorferenzialità.

Invischiata in un groviglio di melodie amputate sul nascere, la seconda prova di Melissa Agate inciampa in un eccesso di discontinuità, convincendo a tratti e non in maniera capillare. Per recuperare il cipiglio convincente di sei anni fa, Melissa Agate dovrà concentrare il suo innato talento tornando a focalizzare la propria attenzione esclusivamente sull'interazione fra strumenti acustici e manipolazioni elettroniche, evitando di esondare in territori a lei poco congeniali.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo