venerdì 28 novembre 2008

Jet Tricks: "Remote Control" (Légerè Rec., 2008)



Il down-tempo verrà ricordato dai più come un’accozzaglia di melodie melense e fuori tempo massimo, nato come momento di svago da parte di musicisti svogliati. Se da un lato tale sensazione può rivelarsi veritiera nei confronti di certe produzioni, dall’altro si può affermare che nel sottobosco sono nate, nascono e continueranno a nascere opere di valore puro e intenso. La fase calante che questo genere ha accusato intorno all’inizio del nuovo millennio (con le dovute eccezioni del caso), non permette di approcciarsi in maniera adeguata nei confronti di uno stile straordinariamente vivo. Nonostante tali suoni non siano molto di moda, proprio nel 2008 si sono presentate sul mercato opere interessanti, tracciando un percorso immaginario con i volenterosi The Atomica Project, facendo tappa dagli smaliziati Khoiba e concludendo proprio con i Jet Tricks. Nonostante le strade percorse si differenzino in maniera sostanziale, i rispettivi risultati dimostrano come la struttura di base possegga un’elasticità al tempo stesso sorprendente e fuorviante.

Nati dall’unione artistica fra un contrabbassista cresciuto a pane e funk, ed un dj dalla solida esperienza nei club, la gemma che fa risplendere tale infrastruttura è la performer nera AdeFunke Ogundare. Ad un ascolto superficiale ciò che risalta in maniera netta è proprio la voce molto calda ed intensa della cantante, capace di esprimere gentilezza nell’interpretare brani dalla cadenza variegata. La stile strumentale, nonostante sovente ricalchi convenzionali strutture down-beat, giace con originalità nei dintorni di un acid-jazz contaminato da morbi soul dalle sembianze aliene. Le già citate capacità complementari della coppia maschile, permettono alla fantasia di sgorgare in direzioni anticonvenzionali, storpiando fraseggi melodici risaputi con risultati a tratti miracolosi.

L’anima nera di questa musica esce fuori attraverso l’ugola femminile, fra arpeggi lisergici di chitarra, scatti ritmici di natura broken-beat e un gusto per l’atmosfera flemmatica ma non indolente.

Splendidi singoli in chiaroscuro dipingono paesaggi al tramonto (malinconia noir in “Bagel Baking”, fumose policromie da spy-story con “Love Hangover”), cataclismi destrutturati ci regalano episodi dal sicuro valore aggiunto (la profetica “Free”, in due versioni ugualmente geniali), la dolcezza non banale delle canzoni più delicate racchiudono una miriade di spunti inediti (un soul meccanico in “Lose You”, emozionanti recitazioni con “Breathe Now”).

Trasportati dai cambi di marcia dell’inesauribile “Dont Touch Me”, ed accompagnati con grazia eterea dalla versione lounge dell’intro “Remote Control“, giungiamo al termine di un’opera atipica, con tutte le carte in regola per essere annoverata fra le migliori prove utili per la rifondazione di un intero movimento musicale.

(7,5)

recensione di alessandro biancalana

Fireflies : "Goodnight Stars, Goodnight Moon (Lavender, 2007)



Animato da un’ispirazione trasognata, il britannico Lisle Mitnik mette insieme un disco tutto sommato innocuo, ma estremamente piacevole. Dopo anni passati passeggiando per le tundre dell’Inghilterra più nebbiosa, il ragazzo si trasferisce in California per studiare composizione e iniziare a realizzare il suo sogno: scrivere canzoni in grado di esprimere tutta la sua passione per l’indie-pop primordiale. Capace di ammorbare timide poesie lo-fi con il folk-pop brumoso dei primi 90 (il riferimento ovvio sono i gloriosi Mazzy Star), il ragazzo infila una dopo l’altra dieci canzoni da cui sarà difficile allontanarsi. Hanno tutto ciò che può ispirare simpatia: voce registrata con timidezza, deliziosamente povera, chitarre altisonanti (la Sarah Records ringrazia per il tributo implicito), strumenti suonati con delicatezza quasi sommessa.

Bollare quest’opera come un tributo di meritevole generosità sarebbe quantomeno ingiusto, anche alla luce dell’impegno che l’artista elargisce per comporre qualcosa di personale e sentito, senza scadere nel rifacimento spicciolo. Una perenne atmosfera boreale circonda ogni singolo episodio, riportando alla memoria paesaggi nevosi, delineando traiettorie emozionali di forte impatto. L’uso di xilofoni e altri ammennicoli acustici impreziosisce un contorno già di per sé ricco, donando frizzante varietà, con punte di eccellenza (l’iniziale “I Was A Brontosaurus”, la natalizia “X-mas Song”) e alcuni scampoli struggenti (la minimale “We Heard The Fireworks”).

Dunque “Goodnight Stars, Goodnight Moon” si ritrova in grembo una manciata di canzoni gentili, ben composte, la cui unica pecca si può ritrovare nella scarsa originalità. Una lacuna ampiamente colmata dalla sconfinata cura che trasuda da ogni nota, un’attenzione ai particolari che, come in questo caso, può sopperire ad alcune mancanze solo in apparenza decisive.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 17 novembre 2008

Psapp: "The Camel's Back" (Domino Recordings, 2008)




Dopo due anni di pausa creativa, il duo antesignano del toy-pop torna con una collezione di canzoni colme di novità. “The Camel’s Back” si costruisce come naturale evoluzione del precedente "The Only Thing I Ever Wanted" e sviluppa percorsi stilistici ancora una volta inediti. La capacità rigenerativa di Carim e Galia sorprende fino a un certo punto, già in passato avevano dimostrato potenzialità evolutive fuori dal comune. Ridotto drasticamente l’uso della toy-orchestra che in passato li ha resi celebri, la band introduce un vago sapore mediterraneo, che contribuisce alla riuscita dell'operazione, tra sapori tropicalisti, arrangiamenti perfetti, voce e strumenti centellinati al grammo, e una sottile elettronica decorativa. Una fanfara tinteggiata con colori a pastello che si rifà il trucco, ma non cambia programma.

Scomposti filamenti di canzone si perdono in mille rivoli, la musica ci guida nei dintorni di melodie ridotte all’osso, arricchite con fantasia e gusto, variando struttura compositiva nel corso delle dodici tracce. Appaiono spumeggianti intrecci fra campionamenti e chitarre imbizzarrite (“I Want That”, “The Monster Song”), lanciando un messaggio di innovazione chiaro e limpido. Canzoni d’altri tempi sfumano leggere e ombreggiate (la frizzante “Part Like Waves” e i pulpiti gentili della title track), le policromie fioccano copiose e aggiungono tasselli ineguagliabili (la gustosa “Fickle Ghost” e le bizzarrie di “Somewhere There Is A Record Of Our Actions” ).

Attraverso due strumentali al limite fra sperimentazione pop e sfumature danzanti (“Marshat” pare una marcetta, “Homicide” è sghemba e disorienta), ci tuffiamo con rigogliosa felicità nei meandri dello spettacolo fin qui giunto solo all’introduzione. Coretti da baracca balcanica si imbellettano con impercettibili linee elettroniche (“Fix It”), “Mister Ant” sboccia fra ritmi doppi e ritornelli micidiali, le emozioni sgorgano inarrestabili con un piano languido e accigliato (“Screws”).

Annunciando una conclusione a sorpresa, il regalo finale che la band ci concede si concretizza con la perfetta “Parker”, un vero capolavoro di arte pop applicata al ritmo, sfrontata quanto basta, capace di comporre un’ideale sonorizzazione per una festa campestre dominata da balli sconclusionati, trombe scintillanti, luci fioche e una luna calante.

Calorosamente consigliato ad ogni amante della giocosità fusa con la tradizione della canzone popolare.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 10 novembre 2008

Les Fragments De La Nuit: "Musique Du Crepuscule" (Equilibrium, 2008)



Proveniente da esperienze di natura cinematografica, l’ensemble francese esordisce con il sorprendente “Musique Du Crepuscule” tratteggiando percorsi stilistici di grande interesse. Nata e concepita come opera magniloquente e profondamente sentita, la nutrita manciata di piéce orchestrali qui raccolte riesce a sedurre con grande fascino attraverso un mistura apparentemente monotona, ma capace di farsi scoprire dopo ascolti approfonditi. Il tempo speso per sviscerare l’anima di tanta profondità viene ripagato con l’abbagliante bellezza dell’atmosfera complessiva, evocata attraverso quadretti dipinti dagli innumerevoli strumenti impiegati. Violini stridono graffiati da un dolore indicibile, voci malinconiche fuggono impaurite come flussi di luce abbagliante, un violoncello balza assieme al piano, accorpati come un’ombra sfuggente nei pressi di una via buia.

Caratteristica preponderante di questa musica è la capacità di non stagnare in luoghi risaputi, sguscia e sfugge da ogni definizione, si ammorba autonomamente e fuoriesce limpida e pura come un liquido divino. Colonne sonore per film d’animazione noir squarciano emozioni celate (“Entre Ciel Et Fer”, “Assault”), aneliti solenni si gonfiano come fanfare opulente (“Devenons Demain I & II”), il minimalismo di note solitarie sboccia in un’angoscia straziante (“Solitude”, “. Solarisation”).

La patina vagamente ancestrale che circonda la parte finale del disco (i canti di “La Chambre Des Fées” e “Le Château Enchanté”, i frammenti notturni di “Soleils Noirs Pour Lune Blanche”) regala attimi di pura magia, rievocando alla mente frangenti musicali presenti in certi videogiochi gotici risalenti ad una decina d’anni fa (Heretic, Diablo).

La glaciale precisione e fluidità con cui il tutto scorre verso il commiato “Alpha Du Centaure” (leggermente troppo indolente) gioca a favore della scorrevolezza globale, qualità rara per questo tipo di prodotto musicale ed ulteriore stimolo per accogliere fra i vostri favori un gioiello raffinato ma non stucchevole.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 5 novembre 2008

The Adventure: s/t (Carpark Records, 2008)



La musica dei primi videogiochi a colori d’inizio anni 90 ha segnato il modo di concepire melodie elettroniche a livello artigianale. Dal Nintendo 8 bit passando per il Sega Mega Drive, le soundtrack di alcuni fra i più famosi momenti di intrattenimento dell’epoca, sono nate come colpi di genio dalle mani di ragazzi con quattro soldi in mano e tanta fantasia in testa. Descrivere la 8 bit music come evento musicale sarebbe compito gravoso all’interno di una sola recensione, tuttavia, risulta doveroso accennare al grande innovatore Rob Hubbard che a inizio anni 80 diede vita a un mondo immenso, una comunità di appassionati, vera e propria scena del mercato elettronico con gli anni a venire. Partendo per i giocosi Dat Politics, Covox e goto80, arriviamo al 2008 con The Adventure.

Nato in North Carolina, ventiquattrenne, Benny Boeldt compone animato dalla primordiale passione per le colonne sonore dei videogiochi della consolle Sega Genesis. Come dichiarato dall’artista stesso sul sito della Carpark, il suo disco non è solo retro-videogame-music, ma un mix fra il suono kitsch di “Popcorn” a nome Hot Butter, la saturazione pomposa dei teatrini electro-pop di Sparks e Yellow Magic Orchestra e un amore sconfinato per le melodie eccessivamente curate.

Incentrata sull’uso volutamente esagerato di synth gommosi e a bassa fedeltà, l’opera omonima del ragazzo americano splende di lucentezza innocente. Non solo capace di esprimere sincera commozione per le giornate passate davanti allo schermo, Benny dimostra sapiente controllo dei mezzi nel dosare al punto giusto ogni singolo elemento. Incastri ritmici non banali si susseguono in un tripudio di linee melodiche elementari, tastiere lanciate in evoluzioni mirabili donano splendore a un prodotto che nasce ingenuo, ma finisce per essere un divertente esempio di elettronica disimpegnata. Un talento il cui obiettivo sarà quello di incamerare intromissioni collaterali che possono rendere i prossimi lavori qualcosa di inimitabile. Da non perdere per chi ha ancora in soffitta la scatola di Zelda.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Bodi Bill :"Next Time" (Sinnbus, 2008)



I Bodi Bill sono un duo tedesco che con questo “Next Time” arriva al secondo disco, preceduto soltanto un anno fa da “No More Wars”. Poiché purtroppo non è possibile conoscere ulteriori elementi circa il loro passato, è opportuno prendere subito in considerazione il contenuto del loro lavoro. Nonostante il materiale a disposizione non sia molto, la coppia di musicisti è già riuscita a forgiare una soluzione musicale ben definita. Dediti a una forma inusuale di pop elettronico con voce vagamente soul (soluzione che ha reso celebre un certo Jamie Lidell), i due agiscono con grande elasticità stilistica, proponendo un prodotto quanto più vario e frizzante.

Il binomio introduttivo “One Or Two”-”Needles” esprime un potenziale di grande spessore: ritmi sincopati, pattern elettronici convulsi, voce calda e carismatica, cesellatura fantasiosa e un gusto retrò a condire il tutto. Le tracce cantate si districano con scioltezza fra i meandri dei pericolosi luoghi comuni del genere, intervallate da sinuosi strumentali dal respiro ambientale, a cavallo fra techno e ambient (“Sorry To Disturb You But I'm Lost”, “Small Sorrows, Great Songs”). Se l’amore per il soul nero viene omaggiato con fare divertito, senza la pestilenziale seriosità di certi interpreti bianchi, la smisurata attenzione con cui l’assemblaggio finale viene concepito merita un convinto encomio.
A mo’ di postilla finale, viene spontaneo elogiare lo sforzo complessivo nel fondere tante influenze con un risultato centrato e ben realizzato, tale da elevare “Next Time” a sorpresa pop dell’anno, capace di attirare un bacino d’ascoltatori molto ampio ed eterogeneo.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana