venerdì 19 dicembre 2008

Melodium: "Cerebro Spin" (Audio Dregs, 2008)



Giunto all’undicesimo disco ufficiale, Melodium ha chiuso un cerchio immaginario aperto quasi dieci anni fa con l’inizio della sua carriera. Lentamente transitato dall’indietronica attraverso il classico cantautorato folktronico, il suo stile ha assorbito con il tempo tendenze, flussi e strutture armoniche peculiari. Un repertorio di intensa intimità, il suo, fondato su melodie fragili e flemmatiche.

Con “Cerebro Spin”, Laurent Girard è riuscito a mettere insieme l’album perfetto della sua discografia. Il musicista esprime tutto il suo campionario con soffuso narcisismo mai fine a sé stesso, tirando fuori dal sacco introspezione personale (già evidenziata nel precedente “My Mind Is Falling To Pieces”) unita a sensazioni dal sapore bucolico. Lo stesso artista rivela che quest’ultima opera è una fra le più ambiziose mai realizzate, confermando la teoria per cui il recente periodo di attività compositiva sia una fase di definitiva transizione verso qualcosa di nuovo rispetto al passato.

La scrittura classica esercita un ascendente molto forte, raggiungendo livelli di eccellenza (un beat granitico sostiene “Choanal Imperforation” che sfocia negli intrecci di “Eustachian Tube”), l’uso del piano spesso prende il sopravvento tinteggiando quadretti elettro-acustici dalla perfezione certosina (“Not Yet 1”, “Kissing Disease”, “Panic Disorder”), l’essenzialità spesso gioca a nascondino con il ritmo (“Meniere’s Vertigo” risplende all’infinito).

La scelta di differenziare la proposta nell’arco di sole undici tracce favorisce la scorrevolezza, nonostante l’atmosfera sia quasi identica lungo tutti i cinquanta minuti. Scorie del passato fortemente elettronico risorgono con delicatezza (gli incastri fra archi e progressioni IDM di “Social Phobia”, i flussi organistici di “Not Yet 3”), vere e proprie canzoni folk prevedono un futuro non troppo lontano (“Vocal Cord Polypus”, “Not Yet 2”, “Scoliosis + Astigmatism”).

Protagonista di un percorso dagli sviluppi inaspettati, Melodium è ora atteso al varco della prossima prova: la nuova trasformazione della sua musica, che continuerà a guidare i nostri sogni verso l'ennesimo mondo incantato.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Edie Sedgwick: "Things Are Getting Sinister And Sinister"



Justin Moyer si è sempre dimostrato prolifico negli ultimi anni (El Guapo, Supersystem, Antelope), collaborando in svariate produzioni dalle fattezze molto diverse. Ad oggi viene ripresa in mano la sua incarnazione più stravagante, con la pubblicazione attraverso il sito della Dischord solo su download digitale o LP. Edie Sedgwick, diva di Andy Warhol morta di overdose nel 1971, come scritto nel messaggio di presentazione, è tornata per salvare il mondo cantando delle celebrità americane. Un concept veramente fuori dal comune, sostenuto da una filosofia convinta e non da qualcosa di costruito, come si può apprezzare dai testi presenti sul sito ufficiale.

Al di là dei manifesti, la musica è lo stesso miscuglio che aveva sorpreso quasi quattro anni fa con il precedente "Her Love Is Real... But She Is Not". Post-punk al vetriolo mischiato con linee di synth taglienti, condito con la voce irresistibile di Justin, un vero vortice di potenza, ritmo e pazzia.

Diminuita la quantità di melodie elettroniche, la struttura viene quasi sempre sostenuta da un utilizzo geniale del basso, suonato probabilmente dallo stesso Moyer. Proprio da questo elemento si può capire come questa musica sia figlia della grande stagione dei vari A Certain Ratio, Pop Group e Television. Nonostante questi pesanti rimandi, il piglio disinvolto e completamente slegato da un contesto serioso, permette di interpretare ogni singola canzone da un punto di vista goliardico, dimenticando eventuali lacune di originalità. Le liriche giocano con ironia, sbeffeggiando anche la politica americana dell’era Bush con un senso dell’umorismo puntiglioso.

Fra le curve della seducente “Angelina Jolie” (accompagnata da un video esilarante), balliamo con pulsanti vibrazioni ritmiche (“Mary Kate-Olsen”, “Sissy Spacek”) facendoci trasportare da un flusso di cori, marciume e parole pungenti (meravigliosa “March Of The Penguins”, incontenibile “Anthony Perkins”). La capacità di Justin Moyer nel mettere insieme una serie di efficaci singoli (l’ennesima crisi di nervi in “Bambi/G.W.Bush”, soffuse anime psych-pop per “Red Dawn”) con relativa facilità è sempre stato un suo grande vantaggio anche in passato, purtroppo in questo caso l’ultima traccia scivola su una ballata magniloquente un po’ fuori contesto (“Edie Sedgwick II”).

Rimangono altre scorie luciferine a risollevare la seconda parte del disco, cementando uno stile che si è concretizzato con anni di gavetta e sperimentazione (“O.D.B.” potrebbe essere una b-side dei primi Wire, “Rob Lowe” esplode con risonanza).

Edie Sedgwick è tornato a raccontarci con l’usuale dialettica sibillina le sue storie veritiere e colme di cruda attualità, lasciandoci l’amaro in bocca, ma anche un sorriso di sincera soddisfazione.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Carl Craig & Moritz Von Oswald: "Recomposed"



L’interazione fra concezioni musicali agli antipodi s’è sempre rilevata una tentazione irresistibile per i musicisti più ambiziosi. Nel caso specifico, cercare possibili collegamenti fra il genere classico (o jazz) e pulsazioni techno è stato un obbiettivo spesso ambito da diversi anni a questa parte. Partendo dalla fanfare jazz trasfigurate della Matthew Herbert Big Band, passando per il primo splendido disco di Murcof, ed arrivando al progetto dello stesso Carl Craig più attinente all’argomento: il disco “Programmed” dell’orchestra Innerzone. I ritmi, quando scomposti e sostenuti, quando caldi e ammalianti, hanno sempre provato a sollecitare (o assecondare) un’atmosfera tutt’altro che abituata a certi stravolgimenti melodici e strutturali. Il risultato, se non supportato da ispirazione e smisurato controllo dei mezzi, s'è dimostrato spesso fuori centro e anacronistico.

Carl Craig e Moritz Von Oswald sono due mostri sacri della techno e non sarà certo questa prova a provarlo ulteriormente. Le collaborazioni assidue (si scambiano spesso remix), unite alla stima reciproca, hanno condotto in porto un rifacimento a cui soltanto artisti di tale caratura potevano rispondere con tale precisione e solerzia. La storia di questa operazione è molto sbrigativa: l’etichetta Deutsche Grammophon ha proposto la cosa a Oswald il quale ha contattato l’amico afro-americano per coinvolgerlo, quest’ultimo ha accettato ed è partito il processo di rivisitazione. Il materiale scelto riguarda il “Bolero” e la “Rapsodie Espagnola” di Ravel, e la "Bilder einer Ausstellung" di Mussorgsky, due imponenti estrapolazioni classiche dal grande fascino antico.

L’esperienza maturata con anni di sperimentazioni aiuta la coppia a condurre le composizioni dalle parti di un minimalismo classico, scosso da flebili tumulti timbrici (la progressiva “Movement 1”, i magnifici intrecci di fiati digitali in “Movement 2”), elevando con tatto il numero di battiti al secondo nella parte centrale (il punto focale “Movement 3” sfocia nell’implosione di “Movement 4”). In trenta minuti di musica astrale e completamente slegata da un contesto prettamente elettronico, i suoni scorrono liberi senza limitazioni, la lucentezza degli ultimi minuti è un’immersione silenziosa, la gradualità con cui si srotola ogni singola variazione è così fine da risultare impalpabile, rilasciando una sensazione di immobilità catartica, immobilizzante, quasi magica.

“Interlude” fa da spartiacque fra la prima parte, più frammentaria e disunita, e la seconda, composta da sole due tracce entrambe sui quindici minuti. L’adattamento fra due andamenti in sostanza decisamente diversi, viene eseguito con un tocco delicato, con l’usuale perizia, trasportando l’ascoltare in un flusso armonico senza destare cambi troppo bruschi.

I due movimenti finali colgono il bersaglio più difficile: coniugare ricerca elettronica e fedeltà con l’originale. La durata diluita permette di sviluppare i concetti in maniera più adagiata, i brandelli di melodia che serpeggiano nei meandri della mezz’ora finale, paiono sinfonie arcaiche che risorgono stizzite, le percussioni esplodono e si adagiano su un registro d’esecuzione più posato. Più corposa e meno silente, quest’ultima frazione di “Recomposed” esplode di vitalità compositiva, dimostrando la validità del progetto e dell’idea originaria.

Il tentativo dell’etichetta tedesca di avvicinare due mondi inconciliabili è reso possibile dal lavoro di due cesellatori fini e intelligenti, capaci di agire con circospezione in un campo minato senza ferirsi, raggiungendo la meta con il plauso della folla.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 3 dicembre 2008

Lulu Rouge: "Bless You" (Music For Dreams, 2008)



La Danimarca, terra natia dei meritevoli Antenne, regala agli amanti di musica elettronica un altro gioiello da posizionare nel reparto della nostra collezione a nome “esordi da non dimenticare”. Thomas Bertelsen e Torsten Bo Jacobsen sono due dj con sede a Copenaghen molto attivi nei club di tutta Europa. Entrambi hanno collaborato con artisti di un certo rilievo commerciale (Trentemøller su tutti) e giungono quasi a sorpresa con un disco sorprendentemente innovativo.

“Bless You” convoglia dentro di sé diversi stili di comporre canzoni elettroniche, estrapolando i lati positivi di ogni influenza per ottenere un risultato indefinibile. Partendo da una base minimal-techno, vengono aggiunti synth spettrali che donano un’aura d’estrazione gotica, raggiungendo vette di oscuro pessimismo industrial. Il fattore decisivo giunge nell'attimo in cui i bassi ottenebranti spuntano fuori con violenza, arricchendo gli episodi cantati di un sapore dub irresistibile, come a voler trasformare il corpo portishediano in un cadavere malato. Il maggiore merito di queste dieci composizioni è l'eccellente equilibrio fra ritmo e atmosfera, emozioni e frangenti di stasi, sinfonia e terrore. La classica ciliegina sulla torta sta nelle parole decantate da Alice Carreri Pardeilhan, perfetta esordiente dai toni lirici adatti per la specifica inclinazione dell’opera.

Se i momenti strumentali mostrano un fascino artigianale (poco spazio alla melodia per “Lulu's Theme”, “Pitch Black” è pura apocalisse timbrica), la lucentezza scorre a fiotti quando la voce maschile prende il sopravvento (la patinata title-track splende nel suo narcisismo, “Thinking Of You” gioca con la tecnica della sottrazione). La bellezza intrinseca giunge tangibile solo e soltanto quando ci si avvicina agli episodi più propriamente legati alle scosse dub già citate, la trasfigurazione delle emozioni è talmente efferata da ferire sensazioni sepolte. Un mare di pece nerissima ricopre l’iniziale “Melankoli”, curata nei minimi dettagli con squarci di violino e un basso che pulsa senza sosta, il geniale rifacimento della filastrocca italiana “Ninna Nanna” è un capolavoro dalle proporzioni inimmaginabili. Quasi sei minuti sostenuti da un tetro battito appena screziato da qualche squarcio electro, la recitazione della Carreri sfiora l’interpretazione teatrale in un insieme dalle capacità ipnotiche.

La glacialità ancestrale con cui scorre “Runaway Boy” (la fisarmonica dona contrasto deliziosamente fastidioso) introduce i muscoli della parte finale del disco. “Sweeter Than Sweet” sfracella in un dirupo profondo con flussi ritmici decisi, “End Of The Century” ricorda senza calligrafia i Massive Attack di “Inertia Creeps” attraverso una suono scabroso, tagliente e pieno di spigoli.

Cronaca di un conflitto fra armonia e dissonanza, “Bless You” si erge come segno di innovazione, senza dichiarare proclami con presunzione o falsa modestia, mettendo sul piatto elementi la cui peculiarità sarà apprezzata con il tempo.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 1 dicembre 2008

Cranes: "Cranes" (Dadaphonic, 2008)



Provenienti dalla scuola dream-pop inglese e giunti sul mercato leggermente dopo la creatura divina di Robin Guthrie e Elizabeth Fraser, i Cranes hanno segnato la storia di un intero flusso musicale a suon di dischi ineccepibili, sempre più variegati con il passare degli anni, mai stazionari nei dintorni di una moda o trend. Il ritorno di una punta di diamante di un genere così famoso rappresenta dunque una sorta di evento, nonostante la band non abbia mai lasciato passare più di quattro anni da un album all’altro.

In casi di integralismo stilistico come “Cranes”, la difficoltà nel consigliare un‘opera sta tutta nel gusto personale di chi l'ascolta. Siamo infatti di fronte al più classico revival dream-pop, sporcato quanto basta da un’elettronica eterea e omaggiato dalla solita splendida voce dell’interprete femminile Alison Shaw. Ma il deficit di originalità non può certo sminuire il valore di undici canzoni suonate con perizia certosina, condite da sapienza melodica e arricchite da una passione interpretativa vivida e commovente.

Dunque, in poco più di mezz’ora veniamo cullati da docili marcette sognanti (incubi quiescenti nell’iniziale “Worlds”, risveglio rassicurante con “Worlds”), scossi da beat elettronici facilmente irriconoscibili (sfondo electro-pop per “Feathers”, bollicine traslucide in “Wires”) e infine distratti da una voce che si gonfia raggiungendo l’impalpabilità (“Panorama” pare un inno chiesastico, “Collecting Stones” scorre fra scale di piano e sibili sinistri).

L’uso dell’impianto chitarristico quasi folk giova alla varietà dei suoni, mescolando idee che si collocano fra la canzone bucolica di un cantastorie e la composizione di un artista dedito a un trip-hop oscuro. Ne sono esempio le gocce di melodia trasfigurata di “Wonderful Things” e la conclusione “High And Low”, mai così adatta per sancire il commiato.

Le canzoni rimanenti riciclano con fantasia i punti cardine già evidenziati, risultando a tratti un po’ balbettanti ma tutto sommato positive nella loro ingenuità.

“Cranes” si dimostra una raccolta di episodi dream-pop dal gusto naif, composto con poesia e ispirazione, graziato per le sue lacune in virtù della perfezione formale e contenutistica, definitivamente promosso per l’aura che lo circonda.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana