lunedì 22 gennaio 2007

Sierpinski: "Evening Water Project" (Jonathon Whiskey, 2006)


















 Post-rock (più o meno emotivo), anno 2006.

Potrebbe sembrare un inutile esercizio retorico domandarsi oggi la valenza espressiva di un genere dal profondo impatto riflessivo e passionale ma ormai ampiamente sviscerato, almeno in quella che ne rappresenta la forma canonica, immancabilmente incentrata su costruzioni in crescendo di prevalenti chitarra, basso e batteria. Eppure, la questione non risulta per nulla oziosa se si è in presenza non dell’ennesima pallida riproposizione del suono di Mogwai o Explosions In The Sky, ma di un lavoro fresco ed efficace come il secondo album degli inglesi Sierpinski, band originaria di Leeds che con i più noti concittadini Hood condivide un approccio obliquo, estremamente aperto, che attraversa generi e definizioni, dando luogo a una forma musicale mutante, sospesa tra opache ambientazioni atmosferiche, frammentazioni post-rock e accenni di sperimentali innesti elettronici.

Sono questi i principali ingredienti di “Evening Water Project”, che nei suoi poco più di quaranta minuti di durata, ripartiti in nove brani, enuclea diverse possibilità evolutive di un suono dai costanti tratti notturni, che descrive malinconie metropolitane dai contorni sinistramente accoglienti, con l’espressiva interazione di pianoforte, chitarre acustiche ed elettriche, nonché campionamenti di fiati sparsi qua e là nel corso dell’album. Fin dall’iniziale “This Geography Of Ours” (brano curiosamente recante il medesimo titolo del precedente album della band), ad imporsi all’attenzione sono soprattutto i caldi battiti elettronici, che qui si avviluppano intorno a nervose oscillazioni chitarristiche e ovattate note di pianoforte, mentre altrove giungono a squarciare l’apparente immobilità del contesto sonoro o, più spesso, creano loop essenziali e sinuosi, di un fascino accattivante ma emotivamente impietoso.

L’utilizzo dell’elettronica, confinato a un ruolo marginale nell’impianto relativamente “classico” del brano iniziale riveste invece centralità assoluta nelle successive “Save Us” e “Midday Flowers”. La prima è caratterizzata dal felicissimo accostamento tra un’essenziale melodia pianistica e l’incedere ritmico sintetico che, a velocità alterne, disegna intricati arabeschi sonori prossimi all’IDM, dissolti soltanto da un finale limpidamente ambientale; l’incedere della seconda è invece compassato e avvolgente, con le sue iterazioni pianistiche, gentilmente sporcate da piccole dissonanze elettroniche che creano atmosfere paragonabili in parte a quelle delle recenti produzioni di Piano Magic.

“Abyss” prosegue poi nell'ibridazione di elementi tra loro estranei: contrabbasso dai sapori jazz, note pianistiche che ben figurerebbero in un affresco classico, intrecci chitarristici scintillanti. L’effetto complessivo è a dir poco spiazzante, vista la carne messa al fuoco. Però, c’è un però. Il pezzo si svolge con naturalità, purezza, le note scorrono, si incrociano e tornano al loro punto di partenza, aiutate dalle loro compagne dell’altro strumento. La pausa che riesce a intercalarsi verso la fine, contornata da improvvisi sprazzi di fiato, rende ancor più prezioso un collage dalle forme irriconoscibili.

Sulla falsariga della precedente si attesta “We Are A Storm”, in cui il lamento di qualche voce, in un sottofondo lontanissimo, sembra donare speranza alla musica, inevitabilmente destinata al naufragio, in un finale dissonante per la ricchezza del suono.

“Pebbles Across The Sea” è forse la punta dell’iceberg per quanto riguarda l’estrosità della proposta presente fra le trame di quest’opera. Ai fiati viene aggiunto un raggelante scoppiettio elettronico, frastornato e disincantato, a cui si sommano xilofoni vari ed eventuali, pause digitali, gentili accenni di capacità riassuntive. Se vi sembra che ci sia troppa confusione, provate ad ascoltare, il tutto fluirà dentro le vostre membra, senza lasciar traccia, se non quella simile all’incanto.

La formula viene ulteriormente sviluppata, puntando sempre sullo scontro fra atmosfere falsamente eteree, e un ritmo scomposto e disordinato. Perciò, le convulsioni al limite della minimal-techno di “All That Alters”, inserite in un contesto tutt’altro che usuale, trasformano l’ovvio in sorpresa. Prendere da una parte le chitarre e il piano, con l’aggiunta dell’immancabile contrabbasso, dall’altro gli effetti digitali. Pensare se separatamente potrebbero stare insieme. La risposta più ovvia è sì, ma senza un risultato proficuo o perlomeno stimolante. Così, invece, sembra di sentire qualcosa di veramente fuori dal comune.

Dopo il colorato e immediato affresco strumentale di “Don’t Say”, giunge il commiato, con “Lines To Load”, il cui preludio pare introdurre ad una composizione stazionaria, mentre il volgersi del minuto due instrada il pezzo in un flusso di ritmi e suoni posizionati ognuno al proprio posto, in modo da cesellare l’ennesima perla, il susseguirsi catartico, che spezza in due ogni dubbio e centra la pura certezza d’essere al cospetto di uno dei dischi più innovativi del 2006 appena passato. Sì, perché dire innovativo, al giorno d’oggi, in musica, è sempre lecito e permesso.

(7,5)
 
recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

mercoledì 10 gennaio 2007

Arab Strap, 24/11/2006 @ Estragon, Bologna

 















Il duo scozzese che ha forgiato a fuoco il panorama musicale odierno, dice addio, ci saluta. Aidan e Malcom, però, hanno deciso di farlo a modo loro, con un tour d’addio speciale, emozionante, inestimabile. Una serie di concerti per ringraziare il loro pubblico, le persone che li hanno supportati in questi anni di “lacrime”. Sì, come accenna il titolo della loro ultima uscita: “Ten Years Of Tears”. Dieci anni di malinconia sommessa, dieci anni di emozioni velate, dieci anni di canzoni che hanno segnato i nostri cuori.

L’atmosfera, all’interno del locale bolognese, è tiepida. Una nota malsana per una serata fantastica: ci si aspettava davvero un’accoglienza più nutrita, soprattutto in una città come Bologna, dove l’ambito cosiddetto “indie” è molto attivo e presente. Ed invece, il numero di persone presenti non è minimamente sufficiente ad onorare un evento così importante.

L’attesa è snervante, i minuti passano come ore, il arrivo sul palco tarda ad arrivare, il pubblico accalcato davanti al palco inizia a rumoreggiare nervoso.

Poi, improvvisamente, inizia a riempire il vuoto, che si era pericolosamente creato nell’aria, la splendida melodia di cornamusa, presente nella traccia “(Loch Loven Intro)” proveniente da “Monday At The Hug And Pint”.

La loro performance si svolge con grande disinvoltura, senza nessun tipo di intoppo, dimostrando una grande capacità di “tenere” il palco. L’unica impressione che stona, rimanendo comunque un’impressione, è la freddezza che aleggia fra Aidan e Malcomm. I due non si guardano mai l’uno negli occhi dell’altro, eseguendo, seppur perfettamente, il loro compito davanti agli spettatori. Forse c’era davvero qualche contrasto fra loro due? Il dubbio rimane.

Il roboante martellare che introduce “Fucking Little Bastards” si spande fra le orecchie degli spettatori e carpisce ogni minimo silenzio lasciato da parte precedentemente. L’esecuzione è, se vogliamo, addirittura più elettrica e aggressiva, rispetto a ciò che si può sentire su disco. Lancinanti fraseggi al limite del noise eseguiti da Middleton con la chitarra, accompagnano il cantato caracollato e scostante di Aidan, completamente immerso in un mondo fatto di gesti e schizofrenie, il batterista pare una macina incontenibile, il pubblico si anima in un ballo spastico e sfrenato. Forse il momento più esaltante di tutto il concerto, in cui la calma repressa negli episodi precedenti esplode con forza impressionante.

In origine, il pensiero all’esecuzione dal vivo di “Who Named The Days?” faceva storgere il naso, pensando alla mancanza dei violini, elemento caratterizzante della canzone presente su disco. Invece, si viene smentiti. Nonostante la defezione degli archi, il complesso strumentale, con l’aggiunta della personalità scenica e vocale di Aidan, ricolmono la sala del concerto di suoni flebili, docili, toccanti, terribilmente “pericolosi”. Pura emozione espressa con le note, una canzone che dura all’infinito nella testa di chi l’ascolta, parole d’amore velate e silenti, schegge di dolore sibilano nella mente.

Il "momento Philophobia" è sicuramente attesissimo, e il gruppo lo propone con uno dei pezzi più belli del disco e del loro repertorio tutto: partono le prime note sommesse di "New Birds", ed il suo racconto, accompagnato dalla voce di Aidan che pare quasi non voglia farsi sentire. l'atmosfera nel locale si chiude come in sè stessa, mentre la canzone scorre lenta e triste, amara, verso un crescendo finale da togliere il fiato; il suono si fa più cupo e violento, claustrofobico, per poi ritirarsi nuovamente ai piedi del palco, lasciando un vuoto doloroso. Così si consuma un altro dei momenti di maggior picco emotivo dello show che sta per volgere ormai verso il suo capitolo finale.

Fra le note stranamente “felici” di “There’s No Ending”, la sorpresa per l’esecuzione del primo singolo “The First Big Weekend”, targato 1996, per la prima volta la band si nasconde fra le quinte.

Quando ritornano sul palco, Aidan e Malcolm sono soli, spogli della presenza degli altri musicisti che fin'ora li avevano accompagnati. Rientrano solo loro due, come a voler dire "ci siamo, questo è veramente il nostro addio, ciao". La fine di questo lungo congedo non poteva essere migliore: i due scozzesi prendono posto l'uno davanti al microfono, l'altro seduto al suo fianco poco distante, una chitarra in mano; la piccola folla si cristallizza, quasi un unico fiato sospeso nell'attesa di ricevere un ultimo regalo dal duo, la testimonianza di 10 anni di storie d'amore, di sesso, storie di parole spese in un pub, confuse in una sbornia malinconica. ed è proprio con le parole di “Packs Of Three”, la traccia d'apertura di “Philophobia”, che si apre un ultimo racconto, con la voce bassa e sicura di Aidan ad insinuarsi lenta nella testa di ogni presente, a concretizzare figure e situazioni. E un calmo incedere narrante, una piccola magia divisa tra un'intimità personale e segreta e le sfumature di una memoria remota. Il momento finale è la commozione nello scoprire quanto possa essere bella “The Shy Retirer” in versione acustica, ed è già palbabile quel senso di solitudine che i due si lasceranno alle spalle. :”But how do you know you've ever really loved?”, canta Aidan, canta delle consapevoli paure, canta di quel romanticismo un po' sghembo e mai forzato che in questo momento il gruppo ci dona in una sorta di ballata sconsolata e scarna, un  ritorno verso casa lungo la solita strada deserta dopo una serata passata a ricordare. E così, senza accorgersene nemmeno, è tutto finito, è già ora di risvegliarsi. ringraziano, salutano, che più che un addio ha il tono di un arrivederci a un poi imprecisato. si cala il sipario sul lungo viaggio degli Arab Strap, lasciandoci col rammarico, l'amarezza per quello che sarebbe potuto essere ancora, ma anche con tanta gioia, quella gioia che nessuno lo dice, ma rimane dentro in un angolino a festa finita. Quella degli Arab Strap finisce proprio ora, dopo 10 anni di lacrime: non resta che infilarci il cappellino a punta e sederci in disparte, a guardare un po' persi quello che è rimasto.

recensione di Alessandro Biancalana e Alessandra Dalla Mora