mercoledì 30 dicembre 2015

Playlist 2015

1. Susanne Sundfør – Ten Love Songs
2. Jamie XX - In Colour
3. Sleaford Mods - Key Markets
4. Ibeyi – Ibeyi
5. LHF - For The Thrown
6. Herbert – The Shakes
7. Kelela – Hallucinogen
8. Black Dog – Neither/Neither
9. Blur - The Magic Whip
10. Braids - Deep In The Iris

11. John Lemke - Nomad Frequencies
12. Mercury Rev - The Light In You
13. Low - Ones And Sixes
14. Darkstar – Foam Island
15. Benjamin Clementine - At Least For Now
16. The Analog Roland Orchestra – Dinsync
17. Romare – Projections
18. New Order - Music Complete
19. Lifted – 1
20. Logos & Mumdance – Proto
21. Emika – Drei
22. Gacha - Send Two Sunsets
23. Rone – Creatures
24. Portico – Living Fields
25. Shiohmo - Dark Red
26. Silicon – Personal Computer
27. Killawatt - Émigré
28. Lakker – Tundra
29. Leftfield – Alternative Light Source
30. Barbara Morgenstern – Doppelstern
31. Foals - What Went Down
32. Autour De Lucie – Ta Lumière Particulière
33. Beach House – Depression Cherry
34. Drew Lustman - The Crystal Cowboy
35. East India Youth - Culture Of Volume
36. Gwenno – Y Dydd Olaf
37. Handful of Snowdrops – III
38. Holly Herndon – Platform
39. Sizarr – Nurture
40. Wire – Wire
41. Eska – Eska
42. Soko - My Dreams Dictate My Reality
43. Concubine – Concubine
44. Sufjan Stevens - Carrie & Lowell
45. Synkro – changes
46. Vessels – Dilate
47. The Dining Rooms - Do Hipsters Love Sun (Ra)?
48. Chemical Brothers - Born In The Echoes
49. Blue Daisy – Darker Than Blue
50. Lilies On Mars – Ago

venerdì 4 dicembre 2015

Darkstar: "Foam Island" (Warp, 2015)
















A due anni di distanza dal magico e alieno “News From Nowhere”, i Darkstar rientrano in pista con un’assenza clamorosa: James Buttery è improvvisamente uscito dal gruppo. Il trio è diventato duo. Un’uscita di scena a suo modo pesante, visto che Buttery, oltre ad essere il vero frontman, incarnava l’anima artistica della band sotto diversi aspetti, stesura dei testi compresa. I due rimasti tengono a precisare come il progetto torni alle origini, infatti, a ben vedere i Darkstar sono sempre stati un duo, l'inserimento di Buttery è stato solo un aggiustamento di percorso.

Dunque, i nuovi Darkstar ripartono semplicemente da James Young e Aiden Whalley, entrambi rimasti a guardia di un progetto nato con l’intento di ricreare una formula elettro-pop tanto travolgente, quanto a suo modo polverosa, aspra, intrecciata fino al midollo tra bassi e drum machine alienanti, di gran fascino. “Foam Island”, terzo disco in cinque anni, nasce dunque zoppo, o perlomeno segnato da un rimpiazzo che sulla carta non c’è, e che trova le sue risorse nei dialoghi sparsi qua e là tra un pezzo e l’altro: conversazioni, brevi estratti di vita sociale dal gelido e malinconico North Yorkshire. Parole spesso intrise di quel moderno disagio economico proprio della classe operaia inglese e di una sempre più ferita media borghesia, afflitta da diversi anni da un incessante malessere post globale. Un senso di smarrimento comune che cede all’impotenza generale verso un modello di sviluppo intransigente e a tratti disumano.

Trapela in questi termini l’allarme sociale lanciato da Young e Whalley, a fungere da contraltare politico al resto della faccenda. La musica che ne consegue è, al contempo, un coagulo di morbidissime articolazioni elettriche, ritmiche misurate, mentre una tenue linfa melodica ne amplia lemme lemme la resa emotiva, come accade nella delicatissima e melanconica "Inherent In The Fibre".

Nonostante la mancanza di un'ugola pregiata come quella di Buttery, Whalley, in veste di cantante unico del duo, si comporta in maniera più che discreta fin dalle sincopi electro-pop della pregiata “Stoke The Fire”. A ben vedere “Foam Island”, se fosse giudicato solo per le canzoni vere e proprie, si dimostra un album di pop elettronico molto ispirato, partendo dai brani già citati, fin ad arrivare alle stramberie d'archi fuse a strutture pop (la bellissima “Go Natural”, i singulti storti di “Pin Secure”). La magia non si placa nemmeno quando il tenore ripiega su strutture più convenzionali (la pur positiva “Through The Motions”) o si accascia in rivoli rilassati e minimali (i glitch alla Telefon Tel Aviv delle title-track), dimostrando una versatilità non da poco.

Il problema di questo album sono purtroppo i vuoti. Senza escludere un sottotesto di impegno sociale, le ripetute pause costituite da estratti di interviste di strada, rendono l'album un qualcosa di incompleto e controverso. Nonostante le canzoni ci siano tutte (unico neo la fumosa “Days Burn Blue”) per riempire una tracklist di tutto rispetto, dal successore del mezzo capolavoro “News From Nowhere” ci si aspettava di più. Non ci resta altro che attendere i nuove percorsi, “Foam Island” è infatti una tappa di passaggio non del tutto compiuta.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

domenica 15 novembre 2015

LHF: "For The Thrown" (Keysound Recordings)















 Tornato a distanza di tre anni dal mastondontico esordio ”Keepers Of The Light”, il collettivo LHF prosegue il suo percorso nella sperimentazione elettronica a tutto tondo. In formato decisamente più contenuto – questa volta le tracce sono dieci – la formula del misterioso gruppo londinese continua in maniera perfettamente coerente. Coadiuvato dalla collaborazione con i Ragga Twins nell'EP ”From The Edge”, il mix di jungle, 2 step britannico e spruzzate dubstep, si colora di sfumature e sentori mitteleuropei, alimentando certe tentazioni esotiche già presenti nel primo disco.

”For The Thrown” veleggia in un stato di perfetta estasi oppiacea, trasportando l'ascoltatore in un limbo dove generi, etichette e definizioni non vengono più in aiuto. La musica di LHF ha a che fare con la metafisica e lo spirituale, così avviluppata in uno stato di perenne incanto, quasi fosse una versione 2.0 dei viaggi psichedelici del flower power anni 70. Ed è in tracce come ”Mud And Robot” che tutto ciò è facilmente riscontrabile. Infatti, oltre all'essere una traccia difficilmente catalogabile, è trascinante, ansiosa, elettrica e pensosa al tempo stesso. La straordinaria capacità di questi musicisti è proprio quella di creare flussi musicali atemporali senza eccedere in manierismi o ermeticità.

Cercando nei meandri del disco possiamo trovare synth luccicanti alla Tangerine Dream (”Gateway”), ammalianti sinfonie arabe (”Surrender”,”Horizon”), incanti a metà fra downtempo e dubstep (la pace serafica di ”Yielding”), spinte più decise verso la jungle (”Entrapment”), il 2 step (”Wet Harmonic”) e la techno (”Triumph”). Il tutto è però svincolato – come già detto in precedenza – da una mera valutazione legata al genere, l'album è efficace e scorrevole grazie a una magica amalgama che rende sensazioni e tendenze diverse divinamente coerenti.

Non un compendio trascurabile bensì capitolo importante dell'idea di musica di LHF, ”For The Thrown” assesta un nuovo tassello di un progetto dagli sviluppi possibilmente senza confini.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 4 ottobre 2015

Emika: "Drei" (Emika Records, 2015)















Rimasti al palo dopo la parziale delusione di ”DVA”, i fan di Emika hanno dovuto aspettare due anni e qualche trepidazione di troppo per rivederla all'opera. Lasciata l'ala potrettrice del colosso Ninja Tune, la tedesca d'adozione fonda la propria etichetta Emika Records e spiazza tutti prima con il progetto “Klavírní“, poi con il nuovo album “Drei”.

Ad inizio dell'anno in corso Emma Jolly pubblica un album di solo piano con dodici tracce provenienti da partiture suonate, composte e registrate dalla stessa artista ceca all'interno dei suoi album. La forte introspezione del disco, messo nero su bianco nella casa dei suoi genitori e con un registratore in presa diretta, dimostra quanto viscerale, potente ed essenziale sia la sua passione per la musica. Tracce di musica pianistica eteree, fatte di note impalpabili e perfettamente legate al tono brumoso della sua musica, gocciolanti lacrime, sudore e intensità. Non un compendio per completisti, né una divagazione fine a sé stessa, “Klavírní” è un tassello di importanza fondamentale per capire l'arte di Emika.

Venendo al vero suo terzo album, va detto a scanso di equivoci che la Jolly riacquista la potenza espressiva dell'esordio omonimo, rimanendo essenzialmente algida ma non ingessata come in “DVA”, album sostanzialmente sufficiente ma troppo studiato e superficiale. La spinta verso l'electroclash, la cupezza e l'innata tendenza al dramma, fanno delle nove tracce di “Drei” un efficacissimo album di canzoni techno-pop come ai tempi d'oro di artisti come Peaches e Chicks On Speed. Nonostante gli alti e bassi dell'ancora giovane carriera della Nostra, il tratto distintivo che le  ha sempre permesso di smarcarsi dall'etichetta di epigone dell'era electro-clash, è una fortissima personalità in termini di suoni e melodie, oltre alla capacità di cesellare ritmi fuori dal comune. Ascoltare un pezzo come “What's The Cure” vi farà capire come quello che state ascoltando non è qualcosa di assolutamente nuovo ma estremamente “forte” e palpitante.

Scossoni di bassi tellurici impreziosiscono pezzi ai margini del dubstep (la malsana “Without Expression”, i dolorosi synth di “Battles”), mentre il singolo “My Heart Bleeds Melody”, accompagnato da un video molto fisico, instilla angoscia fin dalle prime note con il suo incedere ossessivo. I fumi di un'atmosfera sul filo dell'erotismo sporco e proibito sfiorano pezzi come “Rache” e “Miracles”, lasciando per strada episodi leggermente più posati come “Serious Trouble” e "Destiny Killer", due pezzi catatonici, scossi e tormentati da con fantasmi di piano e qualche inedita nota di chitarra. L'amarognolo che si sente frullare in testa alla fine di questo disco non sono postumi di una sbornia passata, bensì il risultato del perfetto equilibrio raggiunto dell'arte un po' maledetta di Emma Jolly.

Nuovo tassello di un percorso ancora lungi dall'essere arrivato ai suoi picchi, “Drei” è qualcosa di speciale a cui dare la dovuta attenzione. Tutti gli amanti dell'elettronica cupa ameranno questo album, gli stessi a cui consigliamo di recuperare l'esordio del 2011 e attendere sviluppi nel prossimo futuro.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana 

Autour De Lucie: "Ta Lumière Particulière" (P Box, 2015)















Quando sul finire del 2007 Valérie Leulliot rilasciò “Caldeira”, il primo e fin a qui unico disco solista, una sorta di malinconia afflisse i fan degli Autour De Lucie. Quell'uscita condensava in una realtà tutta personale le peculiarità che la band francese aveva dispensato per dieci anni di carriera e cinque album. Per chi non li conoscesse, i cinque galletti sono riusciti fin da subito a fondere in modo magistrale le tradizioni della chanson francese con il folk, l'indie-pop e certe influenze elettroniche (soprattutto nel bellissimo “Faux Movement”), ponendosi come leader del pop indipendente prevalentemente in Francia, senza disdegnare incursioni in tutta Europa.

Il passare del tempo ha portato grandi cambiamenti, infatti da cinque elementi la band diventa un duo, con l'arrivo di Sébastien Lafargue, già collaboratore di vecchia data della band e di Valerie stessa. Le coordinate del suono e l'ispirazione invece non cambiano di una virgola, dimostrando come gli anni non hanno scalfito la capacità della Leulliot di scrivere canzoni.
Quel pop sornione, atmosferico, carezzevole ma efficace, incanta adesso come vent'anni fa ai tempi di “L'Échappée Belle”, la voce femminile sussurrata e leggermente ruvida, unita al tono mid-tempo, riporta a un modo di fare musica pop praticamente scomparso. Pezzi come “Détache” o “Où Ça Va” avrebbero fatto faville nelle rubriche alternative della MTV degli anni 90, con il loro tono fortemente melodico ma mai fuori dalla righe, perfettamente catchy con chitarre precise e taglienti e il drumming secco e preciso.

Traiettorie melodiche plananti e leggiadre, a sovvertire caos e inquietudine (“Ok Chaos”), e vibranti nenie (l’estatica “Brighton Beach”, i morbidi tappeti di “Îlienne”), si alternano in una gradevolissima spirale sonora. Nell’album prendono vita anche momenti vagamente più sbarazzini (“Le Goût des Chardons”,” Cheval étincelle”), a rimarcare, pur senza brillare del tutto, la composta disinvoltura elettronica che delineava intensamente i tratti del primo passato. “C'est Là Que Je Descends” chiude il sipario con il suo piano appena sfiorato e la compostezza vocale della Leulliot, la quale tesse trame puntualmente concilianti e mai invadenti.

La band transalpina non nasconde la propria età, specchiandosi nel raggiungimento completo di una maturità contemplata con inconfondibile charme. “Ta Lumière Particulière” mantiene, in definitiva, ben intatta la serafica maestria degli Autour De Lucie nel modellare con eleganza e parsimonia le proprie strutture armoniche. Una dolcezza che riempie e aggrada, sempre e comunque.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

lunedì 27 luglio 2015

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lunedì 20 luglio 2015

The Dø: "Shake Shook Shaken" (Cinq 7, 2015)














Il duo franco finnico formato da Dan Levy e Olivia Merilahti giunge al terzo album dopo il discreto riscontro ricavato da “Both Ways Open Jaws”, opera pop di pregio che nel 2011 bissò l'altrettanta lucentezza dell'esordio “A Mouthful”. L'incredibile facilità con cui i due musicisti sono riusciti in soli due album a concentrare tanto potenziale ha creato una giustificata curiosità nei confronti della nuova uscita discografica.

“Shake Shook Shaken” apporta profonde modifiche al suono del gruppo fin dall'iniziale “Keep Your Lips Sealed”. Via chitarre o qualsiasi altro strumento acustico, dentro synth, drum-machine e tastieroni profondi e carnosi. Siamo dunque passati dall'art-pop-prima-St. Vincent ad un synth-pop di forte ispirazione eighties, in cui linee robotiche prevalgono sull'impianto classico pop. Siamo dunque di fronte all'ennesima riesumazione di sonorità sentite mille volte? I Dø riescono a scansare l'ovvietà grazie a una grandissima fantasia compositiva, in cui l'uso più deciso di strumenti elettronici è solo un modo come un altro per esprimere la propria musica. Autori di ritornelli assassini mai banali, la band ha il dono di saper fondere accessibilità con ricerca sonora, dando sfaccettature inaspettate ai brani. Parte consistente dell'attrattiva del progetto è indubbiamente la figura di Olivia, la cui voce sorprende per versatilità, capace di passare senza intoppi fra brani  ombrosi o movimentati, mentre il suo aspetto introverso e sensuale al tempo stesso aggiunge un appeal innegabile. La resa live di questo album, dato quanto testimoniato dalle esibizioni in giro per il mondo, pare essere esaltante.

Ricordi dell'indie-pop innegabilmente cool (il bel intreccio vocale di “Trustful Hands”) a cui ci avevano abituato rimangono, tuttavia la nuova tendenza esplode sotto forma di deflagrazioni techno degne di nota (la fantastica “Miracles (Back In Time)”, lo strumentale “Omen”), singoli electro-pop solari (le radiofoniche “Despair, Hangover & Ecstasy”, “Anita No!”, “Going Through Walls”), inni da scolaresca alternative (il bel tiro delle tastiere di “Lick My Wounds”). Un mood malinconico attanaglia altri episodi, dando all'insieme una vaga patina tutt'altro che pop (“Sparks”, “A Mess Like This”, “Opposite Ways”). Questo mix di suoni, sensazioni e temperature rende l'album un bel concentrato di alchimie pop, in cui la fantasia compositiva è soltanto un coadiuvante verso la forma apparentemente perfetta di guazzabuglio canzonettaro.

Nonostante la mancanza di qualche accordo di chitarra si faccia sentire, oltre ad alcune lungaggini di troppo (“Nature Will Remain”), “Shake Shook Shaken” è veramente un bel sentire. Se avete gradito i precedenti due album del sodalizio o anche solo se apprezzate il pop a tutto tondo, non potrete rimanere delusi da un disco il cui maggiore merito rimane quello di non banalizzare riferimenti ormai consunti. Le strada intrapresa per fare grandi cose è quella giusta, dalla prossima prova ci attendiamo davvero grandi cose da Dan & Olivia.

(7,5)
recensione di Alessandro Biancalana 

 

domenica 5 luglio 2015

Drew Lustman: "The Crystal Cowboy" (Planet Mu, 2015)















Reduce da un album tutt'altro che soddisfacente, Drew Lustman mette momentaneamente da parte il suo moniker più famoso pubblicando un disco con il nome di battesimo. “In The Wild” aveva interrotto l'ascesa del compositore americano, il quale, con due album più che ottimi come “You Stand Uncertain” e “Hardcourage”, si era imposto fra gli autori di musica elettronica di punta della scena mondiale. Quell'incidente di percorso – prova confusionaria e fuori fuoco – ha forse imposto all'artista un rimescolamento delle carte, in parte attuato nel qui presente “The Crystal Cowboy”.

La spinta al rinnovo porta Lustman all'inserimento di una componente drum'n'bass facilmente riconoscibile nei pezzi di entrata “Watch A Man Die” e “Time Machine”. Il rullante jungle fa da elemento portante e pennella strutture ritmiche solide in quasi tutto l'album, coadiuvato da rivoli ambient e sberleffi IDM. Una vena da narratore dei sobborghi (la fumosità urban-sci-fi di “Angel Flash” e della title-track) ed un'ispirazione finalmente ritrovata (davvero notevole “Green Technique”) regala all'album una briosità compositiva solo teorizzata nel già citato “In The Wild”. Il marchio FaltyDL ritorna occasionalmente in vari episodi (la techno gentile di “Wolves” e “The Hatchet”), mentre strambi giochetti esotici (la cantata “Onyx”) e due bombe come “Sykle” e “Bluberry Fields” assestano il colpo finale. In questi due ultimi episodi il giocoliere elettronico americano adotta un approccio totalizzante alla sua arte, rimestando electro, tastiere ambient, umori horror e un gusto per il ritmo davvero notevoli.

Aiutato dall'intensa attività di Djing, il Nostro ritorna in carreggiata e piazza un album dai grandi numeri, colorato ed ispirato. Nell'ascoltare queste tracce è facile constatare le sconfinate potenzialità di questo produttore, il suo unico compito sarà quello di arginare l'estrosità senza sfociare nella normalizzazione, trovando un equilibrio che potrebbe portarlo davvero in alto nelle graduatorie dei più grandi.

lunedì 2 marzo 2015

Susanne Sundfør: "Ten Love Songs" (Warner Music Norway, 2015)















Fra gli album più attesi di questo inizio 2015, la nuova prova di Susanne Sundfør getta altri indizi sugli sviluppi della carriera di una delle più talentuose cantanti internazionali. Reduce da due album letteralmente perfetti come “The Brothel” e “The Silicone Veil”, la norvegese cerca delle conferme con “Ten Love Songs”. Andando a vedere le emozionanti esibizioni live eseguite in nord Europa, unitamente alla qualità della musica, risulta quasi inspiegabile dare una movitivazione alla scarsa popolarità acquisita fuori dal terra natia. Nel frangente che l'ha divisa dal precedente cd ad oggi, Susanne ha collaborato in diversi progetti di breve durata, partecipando alla bellissima colonna sonora di Oblivion con gli M83 cantando una canzone, prestando la voce per i Röyksopp nella pregevole “Running To The Sea”, scrivendo insieme a Kleerup il singolare funky-synth-popLet Me In”. Questo nuovo capitolo del suo percorso artistico – dato anche il forte appeal pop – pare possa essere il definitivo sbarco sul mercato discografico mondiale.

Se si ascoltano in ordine cronologico gli album della cantante nordica, sarà ovvio notare il progressivo allontamento dallo stilema della cantautrice folk. Se i primi due album (“Take One” e “Susanne Sundfør”) proponevano un cantaurato femminile piuttosto canonico, da “The Brothel” la musica ha svoltato dalle parti di una forma canzone trasfigurata, sopratutto grazie all'uso dell'elettronica. Ed è proprio grazie all'uso di strumenti come sintetizzatori e drum-machine che pezzi come “Lilith” o “White Foxes” esplodono in tutto il loro splendore, adornando strutture cristalline. Senza dimenticare le radici di scrittrice pop, è proprio su questo solco che Susanne ha voluto puntare, proponendo in “Ten Love Songs” una cascata di synth, sfiorando in certi frangenti perfino l'euro-pop di Lady Gaga (la sgraziata pomposità di “Kamizake”). L'obiettivo è dunque quello di ricavare forza e impatto dall'uso massiccio di strumenti non acustici, cercando di non snaturare la natura celestiale e leggiadra della sua musica, ricalcando in parte spunti già battuti da artisti come The Knife o Annie. Ovviamente in tutto ciò si stagliano le straordinarie capacità vocali di Susanne, la quale riesce a mescolare registri interprepativi come solo le grandissime sanno fare, adattandosi in modo perfetto alle vesti di chanteuse electro-pop solenne.

Prendendo i singoli episodi pare che la formula funzioni alla grande (“Fade Away” e “Delirious sono seriamente magnifiche), tuttavia a mancare è un quadro complessivo che leghi tutte le canzoni. Si passa dalle scheletriche “Darlings” e “Silencer” - sorrette da un piano o poco altro - alle aggressioni pop delle già citate “Kamizake” e “Fade Away”, giungendo ai dieci minuti orchestrali di “Memorial”. Questi saliscendi emotivi danno sì brio all'album ma non regalano la sensazione di compattezza che i due predecessori avevano, conducendo l'ascoltatore verso un ottovolante di suoni piacevole ma un po' disomogeneo. Proseguendo si trovano i pregevoli incastri electro-pop di “Insects” - una marcetta robotica trascinante -, passando per la dolcezza dell'organo di “Trust Me” e la solennità di “Slowly”. Non c'è niente di propriamente brutto o fuori posto in “Ten Love Songs”, anzi, l'album risplende di una lucentezza di un certo calibro, tuttavia l'impressione generale pecca di un certo sfilacciamento in alcuni passaggi, rendendo il tutto “solamente” molto bello e non un capolavoro.

Nonostante questi piccoli difetti, stiamo comunque parlando di una prova sopra alla media, in cui troverete grandissimi spunti di interesse sia che siate appassionati di musica elettronica sia che amiate il pop mainstream. In conclusione siamo in presenza di dieci canzoni universali, mai banali o dal cattivo gusto, dove sarà facile scorgere le potenzialità sconfinate del talento di Susanne Sundfør anche se la state ascoltando per la prima volta.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 8 febbraio 2015

Hundreds: "Aftermath" (Sinnbus, 2014)















In un mercato discografico bulimico e sempre più colmo di proposte fra le più disparate, capita sempre più spesso che artisti di un certo rilievo non abbiano il risalto che meriterebbero. Nel caso dei fratelli Milner in arte Hundreds questa teoria è vera fin dal magnifico esordio. “Hundreds” - pubblicato nel 2010 – racchiude tutta la sensibilità tedesca verso il pop elettronico, commutata in parte dalle vecchie esperienze indietroniche, unita ad un songwriting dal sapore classico e ombroso. La voce di Eva, magistralmente incastrata nei pattern electro, risalta per limpidità e rende magica ogni singola composizione. Fra le migliori canzoni vale la pena recuperare “Solace” e “Machine”.

Ora, a distanza di cinque anni, con diversi tour molto estesi alle spalle e un disco di remix (“Variations”, datato 2011), i teutonici tornano con “Aftermath”. Se la qualità media delle canzoni rimane pressoché invariata, la forma è leggermente mutata. Il minimal-electro-pop dell'esordio vira verso un electro-pop sopra le righe, con synth più taglienti e ritmi decisi, dove l'apporto dell'elettronica è diminuito e in generale cambiato in termini di spessore sonoro. Tuttavia, anche alla luce di questo cambiamento, è impossibile rimanere indifferenti davanti alle costruzioni pop sopra la media, le linee vocali pulite e cristalline, il lavoro di post-produzione sugli strumenti acustici, il gusto nell'assemblare i vari elementi. Se si vuole lavorare per sinonimia, gli Hundreds sono un incrocio fra i Notwist più seriosi – per i frangenti più propriamente elettronici – e il pop raffinato di band come Autour De Lucie.

Per ricercare il picco dell'album saltare direttamente a “Rabbits On The Roof”, un fantastico tripudio di ritmi e suoni condotti senza nessuna sbavatura verso una forma intoccabile di electro-pop. La progressione con cui il sampling delle percussioni e la voce si fondono in un'unica cosa, trasportando l'ascoltatore fino in fondo, sono un vero e proprio esempio di perfezione formale. Nel resto dell'album troviamo soffici sbuffi pop (la title-track, le umbratili “Foam Born” e “Stones”), singoli perfino aggressivi (la vivace “Our Past”, le emozioni di “Beehive” e “Please Rewind”) e canzoni leggermente più canoniche (“Circus”, “Interplanetary”). L'impressione che si ha ascoltando tutto l'album è che le canzoni più compassate diano il loro meglio con l'iniezione di suoni elettronici, mentre le piano-song con poc'altro attorno - “Ten Headed Beast” rimane un bel pezzo - manchino leggermente di spessore. Di contro, gli episodi più corposi sono una naturale evoluzione della forma canzone dei fratelli Milner (sopratutto “Our Past”).

Coinvolti in questi giorni in un tour – Germania e Svizzera i paesi toccati - in cui rileggono in chiave acustica tutte le canzoni di “Aftermath”, gli Hundreds devono al loro prossimo passo ricamare il loro perfetto disco pop non dimenticando le loro origini ed assorbendo le nuove tentazioni cantautoriali. Compito non certo semplice ma non irraggiungibile per un duo che ha già saputo dimostrare il proprio valore.

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recensione di Alessandro Biancalana