domenica 21 febbraio 2010

Little Dragon: "Machine Dreams" (Peacefrog Records, 2009)



Collettivo formatosi da un incontro casuale come tanti, i quattro ragazzi provenienti da Göteborg mettono in piedi un ulteriore pietra miliare nella loro carriera. Un gruppo di studenti, mille peripezie tipiche dei giovani universitari, una passione insana per la musica. C'è una cantante giapponese (Yukimi Nagano), quattro strumentisti nordici, un nome (Little Dragon), una band che lascia segni nuovi e rigeneranti. L'esordio omonimo del 2007 sorprese nel sottobosco per la freschezza di una proposta che pareva in principio presuntuosa e azzardata. Coniugare la voce profonda e corposa dell'ugola femminile con una mistura di electro-pop effettato, singulti funk e linee soul. La sua forza era la vivacità stilistica la quale veniva supportata da una scrittura di fondo di rara precisione e incisività.

“Machine Dreams” incide un solco con il precedente senza ripudiare le linee tracciate con tanta passione. La spinta elettronica prende il sopravvento nei confronti dei ritmi tradizionali, il taglio funk rimane ma è robotizzato e martoriato, i filamenti soul si tramutano in una musica dell'anima che pare aver perso la sua genuinità a favore di un un'essenza aliena. Canzoni soffuse ma palpitanti, ritmi sostenuti ma mai incessanti, melodie schizofreniche ma mai sfuggenti.

Folate di down-tempo irriconoscibile distribuiscono stimoli inediti (il melodramma electro-pop di “A New”, la spazialità ambient di “Feather”), movenze più decise giacciono nella struttura ritmica di canzoni movimentate (gommosità appiccicose per “Looking Glass”, il piglio quasi efferato del ritornello di “My Step”). Alternando umori e sensazioni contrapposte si realizza un delizioso contrasto che mette in risalto talento espressivo ancora lungi dall'essere esaurito. La battuta bassa prende il sopravvento ed è quasi l'ora di pronunciare la parola magica trip-hop (bagliori acquatici in “Thunder Love”, la conclusione scandita con rintocchi flemmatici di “Fortune”). La parte centrale sviluppa un certo appeal radiofonico e mette in fila singoli inappuntabili (i controtempi senza freno di “Runabout”, la delizia di funky-pop nebuloso in “Swimming”, un ritornello da ricordare per “Blinking Pigs” ), mentre le restanti tracce si dividono fra variazioni romantiche dal sapore fortemente drammatico (il pathos delle tastiere di “Come Home” ) ed altre indicazioni interessanti (il sexy mid-tempo in “Never Never”).

Senza tralasciare ricerca e approfondimento stilistico, i Little Dragons pubblicano un piccolo gioiellino pop senza mai annoiare o ripetere cliché abusati, lanciando al di là del selciato una proposta nuova, invitando a scoprire un mondo fatto di canzoni brillanti quanto i colori della copertina di “Machine Dreams”.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 8 febbraio 2010

Sally Shapiro: "My Guilty Pleasure" (Permanent Vacation, 2009)



Svezia, terra di caldo torpore ambientale, soffici distese di neve e freddo pungente. L’avventura di Sally Shapiro prende il via da Göteborg, città natale di lei e del suo collaboratore e compositore Johan Agebjörn. A tre anni di distanza dal discreto successo del singolo “I’ll Be By Your Side” e del conseguente album “Disco Romance”, l’attesa per un seguito tanto succoso era salita a dismisura. L’uscita di “My Guilty Pleasure” è rimasta in sordina perché prodotto di nicchia e desueto dal punto di vista stilistico. Chi vuole ancora ascoltare arabeschi italo-disco, plastica synth-etica d’epoca e ardenti profumi house-pop? Nonostante tutto ciò, siamo di fronte a un solido progetto musicale palpitante, la cui passione trasuda da ogni frangente, a prescindere da gusti, giudizi o considerazioni extra-musicali.

L’atmosfera quasi angelica dell’opera riflette il carattere dell’artista, estremamente timido e riservato. A tal proposito vale la pena citare l’aneddoto riguardo la ritrosia dell'artista nel rilasciare interviste e presentarsi davanti al pubblico. La sua musica è un bocciolo colorato sfavillante, mai completamente dischiuso, tremante di folgore incontenibile. Melodie dolciastre e martellanti, ritmi al limite del techno-pop, dolcezza e profusione di grazia. Il contrasto fra l’aspetto ritmico e passionale e la misura elegiaca di “My Guilty Pleasure” genera una sensazione di piacevole straniamento, al punto da non riuscire a definire una decisa presa di posizione nei confronti di canzoni che paiono sfuggire e riconciliarsi senza freno.

Una commistione d’intenti dancefloor vellutata e mai invasiva. E’ tutta una danza mielosa di colorazioni sbarazzine al synth (“Looking At The Stars”), fantasiose sinapsi con il beat a salire su giostrine metropolitane (“My Fantasy“), impalpabili fraseggi sintetici rigorosamente anni Ottanta (“Moonlight Dance”). Le tiepide effusioni vocali della Saphiro indurrebbero in apparenza a un ascolto quantomeno fugace, ma è proprio nella morbida simbiosi voce-ritmo che il disco espande la sua candida seduzione. “Save Your Love” potrebbe sostare nei juke box di Tokyo, così come in quelli della vecchia riviera. Fra balzi gommosi con tastiere caracollanti ad accompagnare (“Love In July”) e divagazioni deep-house (“Let It Snow”) la giostra continua a girare splendendo rigogliosa.

L‘inebriante giretto armonico di “Dying In Africa” aggiunge altro zucchero nella tazza, prima che la conclusiva “Miracle” non induca la nostra fantasia e il nostro ricordo a una Diana Est in escursione nordica. Applåder!

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana