domenica 28 settembre 2008

Trouble Over Tokyo : "Pyramides" (Schoenwetter Schallplatten, 2008)


Gli esordi discografici, supportati dall’ansia d’ascolto dovuto alla novità, sono sempre stati origine di grande sorpresa e soddisfazione. Il caso di Trouble Over Tokyo ricalca questa abitudine per la sua freschezza e inusualità. Il ragazzo, nato in un soporifero sobborgo nella zona sud-est di Londra,  da piccolissimo mostra spontanea ispirazione nei confronti della musica. A 9 anni la prima canzone, poi un’adolescenza indolente fra fallimenti ripetuti all’interno di band locali e qualche peccato di gioventù. Dopo questi anni di perdizione, ammaccati ulteriormente da delusioni cocenti, arriva la possibilità di esprimere le proprie sensazioni musicali in maniera concreta. Arrivato un debutto limitato a 1000 copie intitolato semplicemente “1000” (ad oggi irreperibile), nel 2007 giunge una seconda opera a larga scala che lo mette in risalto per il suo stile inconsueto.

“Pyramides” esalta caratteristiche ed esprime potenzialità inarrivabili. Se da una parte abbiamo una voce interessante, la musica non è da meno e distingue per la cura con cui è stata assemblata. Le corde vocali paiono un intrigante mix fra la schizofrenia luciferina di Micheal Jackson, la malinconia del più drammatico Thom Yorke e il pomposo Freddie Mercury. Se da una parte riferimenti del genere possono creare un qualcosa di veramente mostruoso (nel senso negativo del termine), dall’altra va evidenziato quanto il ragazzo si impegni per non risultare anacronistico e stucchevole. In questo l’aiuta il contorno musicale molto curato e mai sovrabbondante, capace di contenere certi assoli d’ugola un po’ autoreferenziali, trincerando il cattivo gusto un attimo prima che sgorghi inarrestabile in tutte le canzoni.

Dal punto di vista tecnico siamo di fronte a una miriade di influenze ben impastate in un qualcosa di quantomeno coraggioso se non a tratti originale. Forti rimandi al synth-pop chitarristico vengono ammorbati da campionamenti classici, beat acidi al limite dell’electro-clash mostrano il lato più ruvido dell’artista, ballate romantiche danno sfogo ad emozioni più distese. Come strumento principe, oltre alla chitarra, abbiamo il piano che riesce a donare dinamicità e a frenare eventuali strutture elettroniche troppo opulente. La tanta carne al fuoco in alcuni frangenti è fuori asse e un po’ azzardata, tuttavia ciò dimostra ulteriormente la voglia di scostarsi dall’ovvietà e provare qualcosa di diverso, sensazione questa che si evince da un ascolto anche solo superficiale dell’album.

Il mood è melodrammatico dai primi istanti dell’album, con l’elegia dell’incipit “Start Making Noise”, prima decantata su una chitarra arpeggiata, poi su un finale electro-pop irto di beats angolari. Pianoforte, tastiere atmosferiche e un battito sintetico fanno da base a “Save Us”, restando sempre nel background, lasciando alla voce da virtuoso del vocalist tutto lo spazio di cui ha bisogno per un refrain in un falsetto conturbante. Il capolavoro dell’album è “The Liar”, pop-song esemplare: sempre sospesa tra melodramma e fiaba, riesce a mantenersi a un passo dal kitsch senza mai scivolarvi, grazie a gorgheggi efebici e un tappeto di violini sempre opportuno e mai eccessivo; altro picco la ballata elettronica-acustica “4,228”, con ospite alla voce Milly Blue (già vocalist per i Basement Jaxx).

I momenti meno entusiasmanti sono quelli in cui viene meno il dinamismo dell’elettronica, a favore di un andamento più dimesso e intimista; è il caso della ballata “Eyes off Me”, con un soffice tappeto d’archi e un’interpretazione forse troppo altisonante. Il disco riprende però quota con “My Anxiety”, con la voce – più black che mai – che si destreggia sinuosa tra synth roventi e un pattern ritmico davvero epidermico; spettacolare anche lo sviluppo di “No-Handed (Part III)”, dalla quiete dell’inizio alla tempesta del finale, epico e in crescendo.

C’è spazio per altri due brani: “The Dark Below (Oh….. My God)” – un po’ blanda, invero – e la giocosa “Pyramids”, ideale conclusione di un disco dalle molteplici sfumature, che si propone come un caleidoscopio di umori e soluzioni tecniche.

Fresco e alle volte spiazzante, “Pyramides” è un ideale punto di incontro di tecnica vocale e fruibilità pop, di atmosfere cupe e suoni ariosi, di tensione e movimento: c’è ancora da lavorare e qualcosa da rifinire, ma possiamo dirci soddisfatti di un album promettente e assolutamente personale.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Alessandro Nalon

mercoledì 24 settembre 2008

Antenne


La musica nata da freddi fiordi settentrionali, sovente evoca atmosfere vagamente misteriose, sul crinale e divisa fra sensazioni glaciali ed emozioni appaganti. Gli Antenne, provenienti dalla meravigliosa Danimarca, ricalcano in maniera più o meno fedele il lemma sopra enunciato. I componenti di questo duo danese sono Kim G. Hansen e Marie-Louise Munch. Il primo, già 42enne, ha militato nel duo industrial Institute For The Criminally Insane riuscendo a pubblicare nel 1994 un album intitolato “Gekippt”, discreto compendio fra EBM scabrosa ed elettronica inferocita. Marie-Louise ha coltivato, sia prima che dopo la conoscenza con Kim, l’esperienza negli Amstrong. In questo caso ci si aggira nei dintorni di un risultato tutto sommato ragguardevole e deliziosamente di nicchia, molto simile agli Antenne, fra trip-hop e cesellature oscure. Gli album sono ben tre (“Sprinkler” (’99), “Hot Water Music” (’01), “Lack Of You” (‘05)) e c’è di che gioire per gli amanti degli intarsi acidi dei Primal Scream di Exterminator. L'incontro con Marie, avvenuto intorno al 1999, unito con la scoperta del computer come “strumento” di composizione, hanno stravolto il modo di concepire la musica per Kim. Una voce femminile così fatata non poteva che meritare un contorno musicale delicato, oscuro, crepuscolare, tutto ciò che non si presagiva dato il background dai lineamenti estremi maturati dalla controparte maschile del duo. Fedeli alla loro passione per un suono grumoso e spesso cadenzato da docili tocchi ritmici, la musica degli Antenne sfugge da ogni definizione mirata e circostanziata. Nel corso delle loro tre tappe coincidenti con le loro tre opere, la formula utilizzata è spesso variata grazie alla rara poliedricità compositiva di Kim, autore di musiche, arrangiamenti e mixing. Imperniati nei dintorni di un trip-hop dalle tinte fosche e straziate, il fattor comune da individuare è l’attitudine all’atmosfera oscura, mai troppo sostenuta, sempre intinta in un’oasi colma di ottenebrante terrore sopito, capace di evocare distese medioevali in cui nebbia, umidità e un timido vento la fanno da padrone. Dal punto di vista tecnico, oltre al già citato trip-hop, si ritrovano timidi rimandi all’era d’oro del dream-pop, retaggi d’una electro ormai sopita (i primi glitch applicati al pop apparirono intorno alla fine dei ’90) ed una leggera brezza new-wave proveniente dalle precedenti esperienze di Kim. L’altro elemento che marchia a fuoco la musica del duo danese è la voce di Marie, paragonabile ad un miracolo divino. Le melodie fin qui accompagnate dal canto, anche dal solo vocalizzo sussurrato a mo’ di anelito, trasformano banale silenzio in frangenti strazianti, sobbarcandosi l’impeto di una decorazione che si eleva ad elemento essenziale.

La loro carriera prende il via con #1 che, anticipando la notizia più succosa di tutta la monografia, risulterà l’opera più riuscita, come un vero e proprio capolavoro di rara intensità. Nove tracce colorate da un grigiore autunnale, disturbate solo minimamente da una componente elettronica offuscata, dove gli strumenti classici si intrecciano per creare un’atmosfera complessiva fuori dal comune. I primi suoni di “Here To Go”, la traccia iniziale, sono l’ingresso ad un mondo a se stante. Parte sommessa, con un rullante attorniato da stelle digitali, dove, dopo pochi secondi, appare, come il sole all’alba, la voce di Marie. Molto simile a una certa Beth Gibbons, forse ancora più caratteristica, le parole incantano, si perdono nel vuoto, mentre le particelle elettroniche sprizzano colori.  Suonano, le parole, insieme agli altri apparati sonori, in un canto dolce, triste e leggero, come sfoglie di legno sotto una luce grigiastra. Il tutto, svanisce, si disgrega, fino al finale, e nemmeno ci siamo accorti che sono già passati sette minuti. “Like Rain” azzarda l’episodio trip-hop in cui la componente ritmica prende il sopravvento, incastrando un groove minimale insieme al cantato quasi sussurrato. I lamenti del sintetizzatore, accoppiati al beat, si arricchiscono, in un secondo momento, con un drone pieno di angolature, una chitarra appena udibile, gracili clangori acustici. In sottofondo, quasi come se fosse un gemito nascosto, la voce viene costretta a ripetersi, in un ciclico loop ipnotizzante. Il passaggio si chiude con un rumore bianco minimale per fare da introduzione al pezzo successivo: “Let Me Ride It”. Episodio completamente strumentale, basato su uno sfrigolio digitale, un tappeto di tastiere ambientali, vari campionamenti sonori, e un tono pacato fino alla metà, quando, all'improvviso, compare un rimbombo percussionistico, poi amplificato progressivamente, accompagnato dal finale magico e fatato, incentrato su un timbro ovattato. Giunge infine “Whispering”, già epitaffio programmato e scintilla lucente. Sciocchi glitch sotto un contorno di sporcizia sonora, una chitarra suonata con il cuore in gola, ancora una volta, la voce di Marie in primissimo piano. Si parla di sussurri, speranze, paure: “There’s no worries, I am just waiting. There’s no hopes, I am just floating..”. Una tromba, nei frangenti in cui non c’è il cantato, borbotta scomposta, insieme alla chitarra che scappa via, veloce e imprendibile. Altro strumentale dal fascino notturno in “PPG Hold PRG.1”, basato su un ritmo a bassa battuta, gocce di suono centellinate con precisione, quasi a scovare un punto di collisione fra le musiche dark-ambient e il trip-hop strumentale.

Si insinua una melodia indecisa nella traccia successiva, “Moving Slow”, facente da anticamera alla solita favola trasognata espressa anche con parole come queste :”Moving slow, across the sky.. Big black pink sky.. Hold on.. to laughing.. Falling away.. in the deep red blue sky”. Sei minuti di completa immersione in un cosmo sospeso e immaginifico. L’asso nella manica, però, deve ancora venire. Come penultima traccia, c’è “Something Not To Do”. La sovrapposizione iniziale fra un sintetizzatore moog d’altri tempi ed un un loop digitale, è già un colpo al cuore. Quando, dopo pochi secondi, il canto inizia a fluire, il tempo si ferma:"Cool braines, is falling down.. Down and down, through the night..Blank night, last forever.. down and down in my eyes.. Something Not To Do but only knows, Something Not To Do but only knows”. La musica, a questo punto, è soltanto un contorno di ottima qualità, compagno di pari importanza per la voce, un abbellimento, come un vestito splendido fra le carni di una principessa incantata. La conclusiva “Memo”, ennesimo strumentale dal fare tenue, chiude il disco senza rancori, con alcuni frangenti molto evocativi, melodie circolari, bollicine elettroniche galleggianti. Subito dopo l’uscita del disco, viene pubblicato il maxi singolo di “Here To Go”, con remix molto interessanti da parte di Full Swing, Zammuto, Accelera Deck e Metamatics. Al suo interno si trova anche un inedito intitolato “Going Nowhere”, astratto ed opera di sottrazione minimalista.


A due anni di distanza dall'immensa opera prima, il duo danese sforna un disco che si pone sulla scia di #1, ampliando i territori esplorati e con una vena particolarissima. Nelle sue sette tracce, #2, ripercorre percorsi già battuti nell'esordio, colorando però il tragitto di tinte nuove. Se la neve, le gelate brezze di gennaio, i cristalli di ghiaccio che paiono pendere dagli aghi dei pini, erano musicalmente quanto di più vicino ci fosse nell'immersione di #1, ecco che con il disco targato 2002 si esplorano tinte autunnali, fatte di note soffuse, chiarori accennati, tratti caldi e un avanzare lento che copre il suono in tutto il suo svolgersi. Proponendo una amalgama tanto originale quanto emozionante, il duo sforna un disco coinvolgente che mischia attitudine trip-hop e le note del miglior slow-core. Non a caso la prima traccia è un remake di 'Black Eye Dog', inedito contenuto nella compilation 'Time To Reply', a nome Nick Drake. Fondendo glitch, respiro affannoso e note di pianoforte, l'impatto iniziale è assolutamente devastante: il canto sinuoso si innesta in un'atmosfera senza tempo, si scorgono visioni mistiche fuori dal mondo, una tastiera dipinge la circolarità del suono che avvolge e scompare. Nei quasi nove minuti di 'Not Sad' l'arpeggio di chitarra, accompagnato da un leggerissimo ed impercettibile rullante, si reitera in maniera quasi ossessiva accompagnato da accenni jazz, come nei migliori Bark Psychosis, in un moto perpetuo che si va via via dissolvendo in un mare magnum di densi sfilacciamenti elettrici che accompagnano la voce di Marie-Louise. 'Annex Aug', che pare un vero e proprio divertissement, è forse la nota stonata dell'album: una coltre elettronica, dai tratti vagamente industrial, che si perde in sé stessa.

A chi pensava che 'Annex Aug' potesse essere l'inizio della fine ecco che giunge alle orecchie 'Across The Way': un glitch granulare in sottofondo disturba in maniera lieve una melodia che si svolge tra una chitarra che insiste sempre sulle stesse note, soavi campionamenti d'archi e una voce da lacrime. E, all'ascolto di 'Dead Dreams', tutto si potrà dire tranne che siano sogni morti quelli teorizzati dal duo. Il moto uniforme, lucido eppure sporcato nella sua limpida essenza da tratti shoegaze, deflagra nella più dolce delle collisioni. La spettrale 'Cleary Wrong', sospesa tra riverberi elettronici e immersionii ambient, apre le porte alla conclusiva 'Sunwalk', sicuramente uno degli episodi più particolari e sperimentali del duo. Fondendo lievi tepori psichedelici e marcate linee di basso, con in sottofondo tenui accenni di tastiere old-school, gli Antenne costruiscono un brano dai contorni dilatati che non sfigurerebbe affatto nei primissimi Air. Innovando e rinnovando il duo danese, nel suo microcosmo sonoro, si destreggia con innata abilità sapendo emozionare e risultando a tratti realmente maestoso. Inferiore al precedente con un solo difetto: quello di arrivare dopo un capolavoro.

Dopo un biennio di discreta prolificità discografica (‘00/’02), la band osserva un periodo di riposo molto lungo, infatti, l’opera successiva sarà proprio “#3”, uscito a metà maggio del 2008. In questi sei anni di inattività della band madre, i due componenti rimangono comunque più o meno attivi con interventi o collaborazioni all'interno di opere altrui.

Nel 2002 la band collabora con un’artista danese (Lise Westzynthius) suonando un paio di strumenti (chitarra e synth) e curando il mixaggio e la produzione in un pezzo: “French Leave”. Sia la canzone in oggetto che l’album (“Heavy Dream”) esplorano territori leggermente più ruvidi con risultati alterni ma molto interessanti.

Fino al 2005 l’attività risulta sopita, finché spunta una stuzzicante partecipazione di Marie-Louise all’unica opera solista di Norken: “Our Memories Of Winter”. La voce donata ad un tappeto sonoro così estraneo alle esperienze precedenti dell’artista, sorprendono e valorizzano le qualità della ragazza come performer. I tratti al limite di certe electronic-song molto ben abituate ad atmosfere da club notturno, rivelano particolarità molto interessanti del timbro vocale, svelando una insospettabile voglia di percorrere altre strade.

Viene pubblicato all’inizio dell’anno un split su un 12” fra la sigla Antenne e la band Cryptic Scenery, in cui si presenta uno dei pezzi di #3 (“Long To Kiss”), a dimostrare come la maggior parte delle canzoni presenti nell’album siano state completate molto prima della data di pubblicazione.

Sempre nello stesso anno indichiamo la presenza di una versione acustica di “Black Eyed Dog” all’interno dell’album “The Bodyshop” dei Beequeen. La struttura spogliata dagli arrangiamenti elettronici donano all’interpretazione di Marie una magia incontrollabile.

Nel 2006 è da segnalare una stretta collaborazione con un altro ensemble danese dal nome Pellarin & Lenler. Nel loro “Going Through Phases” sia Maria che Kim scrivono insieme al duo “Taiko”, uno splendido affresco electro-pop da brividi. Nel complesso, tutto l’album si attesta su una qualità complessiva invidiabile, attraversando pulsioni dub, intromissioni dal calore ritmico soul e un pizzico di sfrontatezza in termini di commistione stilistica.

Nel 2007, viene ancora ripescata la cover di Nick Drake “Black Eyed Dog” all’interno dell’album “Lost Days, Open Skies And Streaming Trees” di Manual, in cui l’artista danese esegue un remix meditativo proponendo una versione placida e docilmente flemmatica.

Nel corso di questi 6 anni ed anche prima, risulta fondamentale indicare le inclusioni in numerose compilation di alcuni brani degli Antenne. Fra raccolte che racchiudono artisti danesi ed altre a tema stilistico, le più significative sono tre. Le prime due sono la colonna sonora di un film danese intitolato “Nordkraft” (2005) in cui è presente la magica “Whispering” e la raccolta “Full Swing Edit” (2001) assemblata da Stephan Mathieu, dove troviamo un inedito già citato nel singolo di “Here To Go”, “Going Nowhere”. L’ultima occasione da citare merita una menzione speciale perché proposta da un’etichetta molto interessante, la Suspicious Records. La compilation si chiama “Broken Nightlights” (2006) e racchiude una serie di artisti elettronici europei dalle capacità inestimabili ma poco conosciuti, fra cui citiamo Sunday Munich, Leaf, Saltillo e Clover. L’operazione di sdoganamento effettuata dalla compagine discografica (e dalla sua etichetta-madre, la Hive Records) è un vero e proprio miracolo musicale per chi ha voglia di scoprire nuove realtà altrimenti relegate nell’oscurità. L’inedito qui proposto si intitola “Redmoon” ed espone un lato incorporeo e molto fine, relegando la ugola di Marie a mero contorno per i suoni sibilanti e scomposti.

Superati i gravi problemi dovuti alla ricerca di una etichetta disposta a pubblicare “#3”, la band sul finire del 2007 riesce a trovare ricovero nella piccola ma interessante Helmet Room Recordings. Pochi adepti erano in trepidazione per l’uscita di quest’ultima fatica del duo, d’altronde, la scarsa visibilità data alle loro gesta non ha certo giovato nemmeno alla distribuzione delle opere, spesso deficitaria ed assassina. Ciò che stupisce maggiormente delle composizioni degli Antenne, nel corso dei tre album, è indubbiamente la capacità di reinventarsi sempre da capo. Discostandosi dalle ombre slow-core del secondo disco e riavvicinandosi al trip-hop propriamente detto, #3 colpisce, ebbene sì ancora una volta, dritto dritto al cuore. L'incedere dismesso, le foglie cadenti, l'incalzare di qualche morbido beat colorano a tinte fosche il terzo disco del duo. L'avvio è spiazzante: gli oltre sei minuti di 'Long To Kiss' si colorano di riflessi medievali, fondendo anima dark e venature (neo)classiche. E se all'ascolto della traccia d'apertura un sentimento di mestizia avvolge il cuore, il dolce tepore di 'Gloves On', accompagnata da un video strappalacrime, riporta al cuore il sangue raggelato. Nel dipingere distese vuote, spoglie d'alberi e d'anime, vive il lento scorrere delle note, accompagnate da uno splendido giro di chitarra.

I chiarori analogici che fanno da apripista e da contorno lungo tutto il suo incedere a 'Days Into Nights' paiono raggi stellati che illuminano a giorno una notte metropolitana, luci al neon in lontananza e il freddo che si insinua tra gli abiti. E se la successiva 'Trreaa#7' riporta alla memoria i frammenti meno cupi e desertici dei Pan Sonic, accenni dub come nei migliori Thievery Corporation si insinuano in 'Blue Light'. 'Ernst', nel suo avanzare tra campionamenti e pianoforte sporcato da una leggerissima coltre nebbiosa, potrebbe essere uscito benissimo dal repertorio dei Giardini di Mirò più sperimentali. Negli archi della penultima traccia, intitolata 'End', in un moto circolare, gli Antenne riprendono l'austerità classica del primo brano, svolgendola divinamente assieme ad una chitarra che regge la melodia  verso una deliziosa deriva folk. Ancora una volta, come in #2,  la traccia finale, 'All Of Us', ricalca le note di un'elettronica che gioca a contaminarsi con una vena psichedelica decisamente sixties, in pieno stile Air.
Il terzo capitolo del duo danese emoziona, stupisce, commuove. Fondendo elementi distanti con una innaata naturalezza, gli Antenne fotografano tepori metropolitani in odor di una soave tenebra. Ed è dolce perdersi nel loro mare. “#3” rimane coerente alle scelte stilistiche colte in passato, sintetizzando tutto ciò che c’è ancora da dire in 8 canzoni, capaci di scorrere via come pugni di sabbia polverosa o di sedimentare negli spazi più reconditi della memoria di ogni ascoltatore anche casuale. 

di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

Antenne: "#3" (Helmet Room Recordings, 2008)


La musica nata da freddi fiordi settentrionali, sovente evoca atmosfere vagamente misteriose, sul crinale e divisa fra sensazioni glaciali ed emozioni appaganti. Gli Antenne, provenienti dalla meravigliosa Danimarca, ricalcano in maniera più o meno fedele il lemma sopra enunciato.

Con alle spalle una carriera non molto proficua, composta da soli due album, la band cerca di tornare alla riscossa con un’opera completa dopo ben sei anni da “#2”. Fedeli alla loro passione per un suono grumoso e spesso cadenzato da docili tocchi ritmici, la musica degli Antenne sfugge da ogni definizione mirata e circostanziata. Nel corso delle loro tre tappe coincidenti con le loro tre opere, la formula utilizzata è spesso variata grazie alla rara poliedricità compositiva di Kim G. Hansen, autore di musiche, arrangiamenti e mixing. Imperniati nei dintorni di un trip-hop dalle tinte fosche e straziate, il fattor comune da individuare è l’attitudine all’atmosfera oscura, mai troppo sostenuta, sempre intinta in un’oasi colma di ottenebrante terrore sopito, capace di evocare distese medioevali in cui nebbia, umidità e un timido vento la fanno da padrone. Dal punto di vista tecnico, oltre al già citato trip-hop, si ritrovano gracili rimandi all’era d’oro del dream-pop, retaggi d’una electro ormai sopita (i primi glitch applicati al pop apparirono intorno alla fine dei ’90) ed una leggera brezza new-wave proveniente dalle precedenti esperienze di Kim. L’altro elemento che marchia a fuoco la musica del duo danese è la voce di Marie-Louise Munch, paragonabile ad un miracolo divino. Le melodie fin qui accompagnate dal canto, anche dal solo vocalizzo sussurrato a mo’ di anelito, trasformano banale silenzio in frangenti strazianti, sobbarcandosi l’impeto di una decorazione che si eleva ad elemento essenziale. 

Superati i gravi problemi dovuti alla ricerca di una etichetta disposta a pubblicare “#3”, la band sul finire del 2007 riesce a trovare ricovero nella piccola ma interessante Helmet Room Recordings. Pochi adepti erano in trepidazione per l’uscita di quest’ultima fatica del duo, d’altronde, la scarsa visibilità data alle loro gesta non ha certo giovato nemmeno alla distribuzione delle opere, spesso deficitaria ed insufficiente. Ciò che stupisce maggiormente delle composizioni degli Antenne, nel corso dei tre album, è indubbiamente la capacità di reinventarsi sempre da capo. Discostandosi dalle ombre slow-core del secondo disco e riavvicinandosi al trip-hop propriamente detto, "#3" colpisce, ebbene sì ancora una volta, dritto dritto al cuore. L'incedere dismesso, le foglie cadenti, l'incalzare di qualche morbido beat ,decorano di sfumature oscure il terzo disco del duo. L'avvio è spiazzante: gli oltre sei minuti di "Long To Kiss" si colorano di riflessi arcaici, fondendo anima dark e venature (neo)classiche. E se all'ascolto della traccia d'apertura un sentimento di mestizia avvolge il cuore, il dolce tepore di "Gloves On", accompagnata da un video strappalacrime, riporta al cuore il sangue raggelato. Nel dipingere distese vuote, spoglie d'alberi e d'anime, vive il lento scorrere delle note, accompagnate da uno splendido giro di chitarra.

I chiarori analogici che adornano tutto l'incedere di "Days Into Nights", paiono raggi stellati che illuminano a giorno una notte metropolitana, luci al neon in lontananza e il freddo che si insinua fra gli abiti. E se la successiva "Trreaa#7" riporta alla memoria i frammenti meno cupi e desertici dei Pan Sonic, accenni dub come nei migliori Thievery Corporation sono le intarsiature principali di "Blue Light". 'Ernst", nel suo avanzare tra campionamenti e pianoforte sporcato da una leggerissima coltre nebbiosa, potrebbe essere uscito benissimo dal repertorio dei Giardini di Mirò più sperimentali. Negli archi della penultima traccia, intitolata "End", in un moto circolare, gli Antenne riprendono l'austerità classica del primo brano, svolgendola divinamente assieme ad una chitarra che regge la melodia verso una deliziosa deriva folk. Ancora una volta, come in "#2",  la traccia finale, "All Of Us", ricalca le note di un'elettronica che gioca a contaminarsi con una vena psichedelica decisamente sixties, in pieno stile Air.

Il terzo capitolo del duo danese emoziona, stupisce, commuove. Fondendo elementi distanti con un'innata naturalezza, gli Antenne fotografano tepori metropolitani in odor di una soave tenebra. Ed è dolce perdersi nel loro mare. “#3” rimane coerente alle scelte stilistiche colte in passato, sintetizzando tutto ciò che c’è ancora da dire in 8 canzoni, capaci di scorrere via come pugni di sabbia polverosa o di sedimentare negli spazi più reconditi della memoria di ogni ascoltatore anche casuale.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

martedì 9 settembre 2008

Shed: "Shedding The Past" (Ostgut Tonträger, 2008)



Nel mondo della musica, quotati esperti sostengono che ogni piccola nicchia di suono abbia sempre un punto di (ri)generazione, e che quel punto sia proprio lo stesso da cui è germogliata. Nel caso del genere di cui tratteremo, si parla della Germania, patria e punto focale di lucenti sviluppi, massacranti delusioni, scintillanti sorprese della musica techno. Nonostante la scena abbia dato i suoi frutti, negli ultimi anni è la mediocrità a far da padrona in questo mare scuro come la pece. Mediocrità non dal punto di vista qualitativo, bensì riguardante il preoccupante livellamento delle scelte compositive da parte di artisti nuovi e vecchi, senza nessuna differenza d’età o prestigio. Questo fenomeno ha ben poco giovato al settore che, vedendosi sottrarre mercato da altre frange dell’elettronica (hardcore da una parte, house dall’altra), s’è ingegnato per riprendere in mano il controllo della situazione.

Un ragazzone come Shed, colmo di idee quanto di sferraglianti intuizioni, non può che dare una scarica di adrenalina a un corpo che necessitava di ventate rivitalizzanti. La portata di questa novità, rappresentata da lui e pochi altri, si concretizza tutta nello svincolamento da stilemi prestabiliti. Tagliate fuori schematizzazioni minimal, escluse rigidità ritmiche ormai superate, si dà libera uscita ad una fantasia in odor di genialità. Elementi techno vengono abbracciati da plastici retaggi electro che, corroborati da sostrati dub, miscelano un risultato finale dal sapore acuminato, sprezzante e acidulo.

Skull Disco ha tirato le fila di un dubstep ormai alla frutta proprio perché diventato clone di sé, inserendo nuovi elementi a un discorso quasi sopito. Shed risponde prendendo il furore percussivo di Shack e Appleblim, andando a sondare la vitale deepness lungo un viaggio diretto agli inferi del suono, un magma denso e caldo, lontano mille miglia dalla freddezza di una techno diventata sfoggio di austerità, travisando tutto quello che i Basic Channel avevano scritto in soli nove passi. I bassi ragga che esplodono senza timore, scortati da una guardia di pad e synth cosmici che richiamano Carl Craig, Mad Mike e Rolando: melodie tristi, ma melodie. Shed ha lasciato lontani i sequencer lanciati in autopilota e si è seduto a suonare per dare vita alla sua musica.

“Flat Axe” è l'unico episodio che sentirete dal vostro dj di fiducia, ma “That Beats Everything” con quella cassa dritta intinta nel riverbero, come solo una macina del Mulino Bianco saprebbe assorbire, è il rullo compressore che Joey Beltram ha voluto ungere del suo verbo. Non c'è scampo, sappiatelo, perché chi avrà il coraggio di farla girare sul deck dovrà tenere al guinzaglio un bulldog inferocito. Ma sono solo due episodi, perché il resto non è la stessa partita, non è nemmeno lo stesso campo da gioco.

“Ostrich-Mountain-Square” squarcia filamenti ambientali e li giustappone ad un magma rumoroso che si protrae con guisa efferata, i tre minuti scorrono fra sibili sinistri e pulsioni da oltretomba, facendo da anticamera alla paradisiaca “Boose-Sweep”. Quest’ultima traccia si compone e si scompone a livello molecolare con omogeneità spaventosa: se il pattern ritmico evolve trasmutando da lieve a sostenuto, mantenendo impatto e ricerca, il gorgoglio analogico che lo circonda tinteggia atmosfere aliene da viaggio interstellare. Fa addirittura meglio la seguente “Another Wedged Chicken”, ancor più audace e sinistra, sbattendo in primo piano un sostanzioso beat metallico, coadiuvato da un mormorio granuloso e incontrollato; arrivata al minuto numero uno, si instaura una ramificazione timbrica dal sapore marziano.

Le sorprese continuano a fluire in maniera spontanea: i sample di piano smembrati ed accoppiati a reticoli glitch di “Slow Motion Replay” mostrano versatilità e gusto, la leggera sterzata ambient-techno di “The Lower Upside Down” è puro respiro rilassante, la distensione spaziale lievemente sferzata è caratteristica principe di “Waved Mind\Archived Document”.

E se, come spesso succede, i capolavori terminano con una traccia memorabile, “Shedding The Past” ha le carte in regola per rispettare questa prassi. “IHTAW” è una marcia danzante farcita da voci che ondeggiano ubriache, stomp laceranti come lame affilate donano ritmo terreno, l’intelaiatura plasma se stessa come un organismo autonomo ed autonomamente consapevole. Applausi a scena aperta.

Un esempio per tutti, per dare definitivamente la misura di questo disco che salva infine la techno da se stessa (mandiamo un grosso bacio anche ai ragazzi della Border Community). Ci salva da Ellen Allien, dalla M_nus e dalla Cocoon: statue su cui ormai cacano i piccioni. “Estrangé”. Scaricatela, compratela, rubatela perchè è la techno ai tempi del dub, dell'analogico riscoperto con la Deepchord e di un Aphex Twin che riecheggia nei suoi fasti più lontani. Che bisogno c'è di non voler più trasmettere nessuna emozione? Nel voler monetizzare direttamente tutto in funzione di una pista da ballo? Che gusto c'è nell'ascoltarsi l'ennesimo remix uguale ai sei o sette precedenti di "Dubfire"? Ve lo diciamo noi da qui, pronti a farvi fare due grasse risate: zero. Ecco il gusto che c'è.

“Estrangé” invece è il rinnovato ardore di una musica rivoluzionaria, che riscopre il proprio gusto antico nel farsi contaminare da tutto ciò che vive attorno a lei: senza paura. Dal futuredub di Londra, dalla malinconia di James Holden e Fairmont da tutto ciò che Detroit ha rappresentato per generazioni di musicisti. Shed è uno che si dedica sviscerando l’anima, svolgendo le sue trovate con naturalezza e dedizione, anche quando tutto il resto vuole convincerci che girare la manopola su minimal sia la soluzione per comprarsi un Korg nuovo. Niente da fare per gli altri lì fuori, ”Shedding The Past” ha riscoperto l'utopia.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Guidetti

sabato 6 settembre 2008

The Atomica Project: "Greyscale" (Positron! Records, 2008)



Brutta storia quella del trip-hop. Nell’anno in cui chi l’aveva visto nascere è tornato a farsi vivo (Portishead, Tricky), sorge spontaneo dare risalto a chi quel genere ancora lo apprezza e tenta in tutti i modi di forgiarne amabili sembianze alternative. Negli anni (circa 15, preso come milestone-year l’anno di pubblicazione di "Dummy") un nugolo di temibili ed assatanati compositori s’è cimentato in elucubrazioni più o meno riuscite sul tema, creando un ambiente di veri appassionati, capaci di cesellare autentici piccoli capolavori. A scapito di questi ultimi, a beneficiarne in termini di visibilità, sospinti da una stampa sovente molto generalista, sono stati sempre e solo i tre dell’Ave Maria: Portishead-Tricky-Massive Attack. Niente di male in questo: obiezioni di ogni tipo sarebbero ingiustificate, vista la caratura degli artisti presi in esame. Rimane però spietato il modo con cui certi epigoni sono stati relegati in un oblio senza speranza.

Non essendo questa la sede per sviscerare anni e anni di esperienze gratificanti, cerchiamo di cogliere un piccolo sassolino da un oceano di ciottoli lucenti. Americani e pieni di belle speranze, gli Atomica, ora conosciuti come The Atomica Project, hanno iniziato da poco il loro percorso artistico. Di base a New York, danno sfogo alla loro irrefrenabile passione per i ritmi down-tempo con il loro esordio intitolato “Metropolitan”, licenziato nel 2005 dalla stessa Positron! Records di “Greyscale”. Splendido compendio umorale e colmo di soluzioni sorprendenti (tanto per citare la più bella: “Delorian”), il disco metteva in risalto già allora potenzialità di grande levatura: beat elettronici sempre centrati e ottenebranti, voce femminile proveniente dalle stelle (Lauren Cheatman), arrangiamenti orchestrali di pregio assoluto. Un crescendo di canzoni che tinteggiano una parvenza d’ignoto, costruite su ritmi che si sfaldano e si rigenerano nel volgere di un attimo, capaci di raffigurare la tremula luce della passione.

Ora, a tre anni dall'opera prima, il gruppo torna sulle scene dando alle stampe “Greyscale”. Tratteggiando notturni scenari metropolitani, i cui contorni paiono tanto indefiniti ed aerei quanto quadrati, le dodici tracce che compongono l’opera assumono forma e sostanza piuttosto differenti da quelle dell’esordio. Volgendo l’attenzione verso suoni decisamente meno solari ed elidendo parzialmente i campionamenti orchestrali, “Greyscale” esplora territori nuovi, musicalmente più cupi, ma rasserenati dalla sinuosa voce di Lauren. “When I Was Just A Young Girl”, traccia d’apertura che funge da vero e proprio trait d’union con “Metropolitan”, ondeggia tra violini che paiono lamine affilate e tipico gusto trip-hop. Ciò che colpisce maggiormente nelle sinfonie del trio è la capacità di creare atmosfere ovattate e cinematiche, dilaganti a macchia d’olio, fino a coprire ogni angolo del suono. Manifesto programmatico delle qualità del complesso è certamente “Forecast”, brano che procede ripiegandosi continuamente su se stesso, una continua risacca di un mare nero petrolio. I bozzetti che si insinuano sotto la cute sono limpidi nella loro essenza, sporcati solo da una sottilissima coltre nebbiosa, che trasmette all’ascoltatore un lieve senso di disagio e inquietudine. Esemplare la stupenda “Gravity”, il cui beat tenace si alterna a momenti di stasi emotiva che non risultano affatto tediosi né semplici riempitivi, ma fungono senza forzatura da attimi di riflessione. A dimostrare come la band sappia anche regalare frangenti di apertura orchestrali, palpiti che paiono ridestare l’ascolto da uno stato di asfissia, si staglia “Afraid”, vero e proprio ossigeno rigenerante.

Il lato più austero del trio inizia invece ad emergere nella seconda parte dell'album: se “I Woke Up In This World” procede in maniera fredda e ossessiva, ricordando i Portishead meno malinconici, il canto analogico, leggermente spogliato della sua purezza, di “All The Lonliness In The World” rappresenta uno degli episodi interlocutori e leggermente azzardati, accanto al piatto incedere senza sussulti di “Evaporate”. Vista la vicinanza dei due passaggi a vuoto, parrebbe di attraversare una fase calante del disco, invece tra essi appare “Into The Arms Of Strangers”, brano adagiato su un incipit a bassa fedeltà (lo sfrigolio in sottofondo riproduce il rumore del vinile), la cui struttura si sviluppa con naturalezza sorprendente. I bassi attraversano tumulti altisonanti, le tastiere sono fragorose e dilatate, la voce ha saliscendi vorticosi, fino a raggiungere picchi di spaventosa intensità emotiva. La frase del ritornello suggella i suoni con parole di rassegnazione:”I try so hard to be someone, as I try hard to explain, if we can do someone together, then we’ll try do it again”.

Il tocco psichedelico della bellissima “The War Is Over”, traccia il cui andamento ondeggiante, in bilico costante tra gusto classico e azzardi elettronici, riporta alla memoria i migliori episodi trip-hop, dimostrando come l’album sappia variare con grande omogeneità complessiva. La title-track dispensa oltre tre minuti completamente strumentali di pura profondità prospettica, un tunnel lungo e buio oltre il quale non c’è luce ad attendere l’ascoltatore. Luce che viene parzialmente ritrovata nel mix conclusivo di “Gravity”, sottraendo respiro onirico ed estremizzando il lato movimentato del tappeto ritmico, con un risultato a metà fra house vocale e techno-pop.

L’essenza del trio di Chicago non muta, a mutare semmai è la forma. Gli Atomica Project, aggiornando il marchio trip-hop in maniera a tratti audace e personalissima, confezionano un viaggio tra mondi oscuri e spazi angusti, al limite fra gusto classicheggiante e trovate degne dell’olimpo bristoliano. No signori, il trip-hop non è morto.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini