lunedì 29 ottobre 2007

Piana: "Eternal Castle" (Noble, 2007)



Naoko Sasaki, in arte Piana, rispetta la cadenza biennale con cui ha pubblicato i suoi primi due album e giunge al nuovo anno con “Eternal Castle”. La naturale scarnificazione della sua formula dai contorni elettronici, iniziata con il precedente “Ephemeral”, giunge a nuova tappa, con grande intensità, e incanto stellare. Gli elementi che in precedenza ci avevano commosso e carpito con unione simbiotica sono sempre gli stessi. Quei piccoli particolari che hanno reso Piana una delle migliori rappresentanti del pop elettronico di stampo crepuscolare proveniente dal Giappone, insieme a Gutevolk, Tujiko Noriko e l’esordiente Moskitoo.

In questa manciata di canzoni (proprio di manciata parliamo, visto che sono soltanto otto) troveremo sì grandi arrangiamenti acustici nei filamenti di una struttura elettronica sottile, ma anche slanci pop che riportano a frangenti più minimali di artiste come Chihiro Onitsuka, Maaya Sakamoto e Kaela Uemura. Questa scelta, giusto per dare una sentenza aprioristica, risulterà azzeccata se non decisiva. Soprattutto in questo ambito, la capacità di evolvere il modo con cui cesellare canzoni è a dir poco fondamentale, perché, come in ogni caso, la ripetizione stanca di certi stilemi, anche se piacevoli, può far storcere il naso ai più esigenti.

L’iniziale “With Sea” è l’introduzione perfetta, perché inserisce l’ascoltatore nell’usuale atmosfera ovattata e fatata. Note di piano lontane e distanti, si intrecciano con delicati giochini da laptop e silenziose voci che sanno di magia.

“Norway” ricorda alla lontana la prima traccia di “Ephemeral”, “Something Is Lost”. Nebbioline assordanti, chitarra suonata nel buio più tenebroso, vocalizzi docili e deliziosi di Naoko. Il ritmo, sostenuto da una timida drum-machine, si dipana con distensione; il violino (suonato ancora dall’amico Gen Saito), con note dal fare pungente, arricchisce con grande colore i secondi che scorrono veloci. Di grande spessore il finale, circa sessanta secondi di ambient granulare e sotterranea.

“Two Of Us” è un esempio della svolta di cui parlavamo all’inizio. I contorni elettronici e la voce sono gli unici elementi che rimangono intatti; lo svolgimento generale e soprattutto il ritmo apparentemente stabile e srotolato con ordine, riporta a certi episodi dell’accoppiata Maaya Sakamoto-Yoko Kanno. Le emozioni sgorgano prorompenti nella splendida “Snowflakes”, un vero e proprio fiume in piena, strabordante, senza freno. L’inizio illusorio, peraltro molto positivo, si strascica faticosamente, con affanno e attimi di sospensione; quando il ritmo scalpitante prende il largo, dopo attimi di attesa, è un fiore a sbocciare. Ogni singolo elemento prende corpo e si sposa perfettamente con il resto, e viene quasi da dire che forse siamo di fronte al più bel pezzo del repertorio dell’artista.

“Ancient Note” si avvale dell’aggiunta del piano, con ancora il violino a primeggiare fra gli strumenti; dosati uno ad uno con grande gusto melodico. Non delude, e introduce alla parte finale del disco, la successiva “Hydrangea”, vero e proprio episodio pop di grande pregio.

“Beyond The Season” ritorna indietro nel tempo proponendo un magico flashback all’interno del primo disco (“Snow Bird”), precisamente dalle parti di “Butterfly”. L’impianto elettronico questa volta non è solo contorno, visto che il frangente più bello è proprio quando la voce viene lasciata sola con i beats, frastagliando il silenzio con schegge digitali pungenti.

L’ottava traccia (“Prayer”), che saluta l’ascoltatore, è un arrivederci tanto dolce quanto coinvolgente; lo scontrarsi fra la voce bambinesca e le note di piano si dimostra una combinazione a dir poco struggente, peraltro aiutata da alcuni cori cristallini.

Giocando con i generi, con la propria stessa fantasia artistica, Piana si è ritagliata uno spazio personale all’interno di ogni cuore di chi vuole accoglierla. I suoi dischi, mai statici, ma dotati di grande flessibilità stilistica, sanno dar sfogo a certe emozioni e sensazioni mai sopite, con merito artistico e plauso contenutistico.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 18 ottobre 2007

Alejandro Agresti













argentino di nascita, il suo intento cinematografico è quello di fotografare il suo paese con grande semplicità e impatto emotivo.

nelle sue due pellicole che ho visto (valentin, tutto il bene del mondo), ho scorto una capacità di cesellare storie pressochè magica. racconti senza presunzione, piccoli, fatti di esperienze quotidiane e popolari. un regista con il grande senso della fotografia, un perfezionista dei dialoghi secchi e perfettamente congegniati, un autore dal grande gusto musicale nello scegliere le sue colonne sonore.

valentin, il primo che ho visto, è un gioiellino. narra la storia di un bimbo (valentin, appunto) che trascorre la sua vita da 'grande', cercando di superare gli avvenimenti con la forza della fantasia e del coraggio. come dicevo prima, un qualcosa di esile, senza sovrastrutture. gli errori delle persone presumibilmente più mature di lui vengono analizzate dal piccolo con arguzia fuori dal comune e ciò sorprende loro stessi. davvero un gran personaggio, e una grande interpretazione di questo giovane attore, Rodrigo Noya. tenerezza, crudeltà, grande pathos e colori sgargianti.

tutto il bene del mondo è precedente a valentin ma destino vuole che la visione di questo film sia successiva. sempre vicissitudini familiari percorrono la trama di quest'altro piccolo bozzolo narrativo. una famiglia distrutta, piccoli frammenti d'amore, una grande voglia di ricominciare tutto da capo. grande tatto, grazia, una sorta di capacità intrenseca all'interno di questo fotogrammi. in questa pellicola ho trovato un sapore leggermente più amaro, critico, addirittura cinico. si evidenzia un'analisi più sociale dell'argentina, in un paese di persone prevalentemente povere e piene di speranza.

ecco, credo che la speranza sia ciò che unisce questi due film. la speranza che unisce gli intenti di un gruppo di persone, che siano un interno paese o una sola famiglia.