martedì 14 dicembre 2010

Darkstar: "North" (Hyperdub, 2010)



Per cosa potrà essere ricordato il 2010 negli anni a venire? Il ritorno prepotente di certe sonorità pop, profondamente plasmate da effettistica elettronica, è un indizio decisivo. Due eventi come gli esordi di Twin Shadow e The Hundred In The Hands sono esempi lampanti. Pur con le caratteristiche che li contraddistinguono, i due dischi hanno riesumato gli albori del synth-pop senza sfigurare o peccare in calligrafia, ma veleggiando su livelli di eccellenza sotto tutti i punti di vista. L'opera prima dei Darkstar si inserisce in questo contesto con prepotenza e risalto quanto meno equiparabile. Nonostante il lancio del disco assicurasse rivoluzioni in ambito dubstep, oltre a fantomatiche promesse di innovazione, “North” non è altro se non un bell'album di canzoni electro-pop. Spesso generare un'attesa smodata per un album può risultare controproducente, tuttavia la band sembra non averne risentito.

Un trio la cui genesi è un incontro londinese fra James Young e Aideen Whaley, ai quali nel 2010 s'è aggiunto il cantante James Buttery. Malinconico, ombroso, deturpato. Il suono non acquista un tono peculiare, ma assume progressivamente sfumature delicate, tonalità mai sgargianti, piuttosto opache. Una descrizione così netta e precisa rispecchia in modo pertinente il contesto in cui sono nate queste canzoni: Londra, città luminosa e tetra, folgorante e opprimente al tempo stesso, colma di caos e distrazioni. Mistici intrecci fra electro-wave (chi si ricorda di “Heat”?), electro-pop, commoventi linee pianistiche e un timido rantolo vocale.

L'opulenza di certe linee di synth risplende in un gioco di luci scurissime (foschi riflessi per “In The Wings”, atmosfere funeree in “Two Chords”, l'intro “In The Wings”), mentre l'assenza della voce non toglie un grammo di fascino a una musica stentorea (la marcetta zoppicante “Aidy's Girl Is A Computer”, la saturazione di bassi in “Ostkruez”). Dove un'ipotesi di ritmo vivacizza una cadenza tiepida (i complessi intrecci timbrici di “Gold”, le fredde folate di drum machine nella title track), l'opposto consta di placidi minimalismi (la lenta progressione di “Deadness”). La conclusione, ancor più trascinata e senza sussulti ritmici, conduce verso una versione profondamente personale e passionale del pop elettronico.

“Dear Heartbeat” e “When It's Gone” sono la perfetta chiosa per un album tagliente, ardente, manifesto di un rimestio di idee tale da generare attesa e trepidazione. Pur non essendo esattamente ciò di cui si chiacchierava, "North" mette in mostra una malia irresistibile, vette di lirismo autunnale e una forza interiore da scovare. Un perfetto sigillo da riesumare in solitudine, fra nebbie e pensieri polverosi.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 9 dicembre 2010

Matthew Herbert: "Recomposed - Mahler Symphony X" (Deutsche Grammophon, 2010)



A distanza di due anni, la Deutsche Grammophon torna sul luogo del delitto. Dopo il Bolero di Ravel (e altre composizioni) affidato al duo Carl Craig & Moritz Von Oswald con risultati eclatanti, questa volta tocca a Matthew Herbert rimaneggiare le partiture del compositore ceco Gustav Mahler. Herbert, dopo l'accoppiata “One Club”-”One One”, conclude il 2010 con questa avventura, al solito, molto ambiziosa.

Ascoltando il lavoro del britannico la prima cosa che balza all'orecchio è il toccante rispetto con cui mette le mani in un ambito così lontano dalle sue abituali frequentazioni. Nonostante l'esperienza maturata con la Matthew Herbert Big Band in materia di contaminazione fra generi lontanissimi, questa volta le sue capacità di arrangiatore e sopratutto il suo gusto vengono messi a dura prova. Mentre nel caso di Ravel e Mussorgsky l'operato era profondo e strutturale, raggiungendo vette di techno angelica e diluita, qui lo strumento utilizzato è il cesello. Infatti, l'abilità di Herbert giace nei piccoli interstizi, nella lieve distorsione dei toni, nel saper donare quel tocco di modernità a melodie profondamente radicate in un'epoca lontana. Non c'è una rivisitazione totale o uno stravolgimento, il segreto in questo caso è nascosto, fascinosamente misterioso, quasi impercettibile. L'intuizione del musicista sta nel condividere il genio con l'ascoltatore, il quale deve cogliere i rimaneggiamenti moderni attraverso un ascolto minuzioso. Altro particolare di tipo prettamente informativo riguarda la suddivisione in tracce: nonostante la registrazione sia unica e indivisibile, per motivi di pubblicazione su cd è stato necessario spezzare l'opera in nove movimenti.

La quiete dei primi passaggi è un abisso di classicità ammorbata, nel quale ricomposizioni ectoplasmiche prendono corpo per poi scomparire in un tripudio di squarci possenti. Tuttavia, con il passare dei minuti, l'andamento si fa più screziato, le oasi di silenzio e i rimbombi sono frequenti, le esplosioni di volume sono accentuate con tocco da gentiluomo. Il settimo movimento tocca il culmine di questa ascesa con un tourbillon di suoni accecante. L'inizio quieto ed etereo scorre impercettibilmente attraverso un'improvvisa cascata di ritmi e pulsazioni techno da lasciar basiti tanto è efficace e d'impatto. Un flusso disturbante, come un nastro in reverse impazzito, viene ripetutamente percosso da una sessione ritmica senza tregua. Capolavoro di trasfigurazione? Certo è che pochi artisti possono permettersi una cosa simile. Il meritato riposo si concretizza con le serafiche congiunzioni delle ultime due partiture, ombrose e oscure sinfonie decadenti.

La serie "Recomposed" offre spunti di discussione e stimoli inediti grazie a una proposta che può dividere o far discutere. Gli incalcolabili meriti in termine di ricerca e divulgazione sono attribuibili all'iniziativa della Deutsche Grammophon, che commissiona personalmente all'artista l'operazione e non viceversa. C'è da augurarsi che questo esperimento venga eseguito più e più volte anche in futuro; tale tipo di azzardi un po' blasfemi sono il sale della sperimentazione, e senza sperimentazione la musica potrebbe ridursi a un cumulo di stanca routine.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 6 dicembre 2010

D_rradio & Lianne Hall : "Making Spaces" (Sentence, 2010)



Britannici, provenienti da fulgida carriera a cavallo fra ambient e IDM, i D_rradio tentano una via inedita nell'incontro con la vocalist Lianne Hall. Un incrocio insolito quello fra l'autrice di un folk-rock decisamente classico e una formazione dedita a una sperimentazione elettronica talvolta ostica. Tuttavia, spesso la combinazione più inusuale conduce verso direzioni piacevoli. “Making Spaces” è infatti un album pop delizioso, frizzante, spesso inappuntabile. La qualità delle canzoni è mediamente buona, a tratti perfino eccellente.

Le componenti decisive nella riuscita di questo disco sono essenzialmente due: lo stato di grazia della cantante e la varietà delle soluzioni compositive. Sia che siamo davanti a bozzetti folk-pop appena screziati da polvere elettronica luccicante (frattaglie metalliche in “Dressing Up”, docilità e candore lo-fi per “Full On”) sia che ci approcciamo agli episodi più corposi (i ritmi eterei di “Underwater”, il refrain convulso in “Stormy Weather” e “Berling Winter”), la consapevolezza è quella di avere fra le mani materiale di qualità lampante. L'ugola di Liane Hall non è semplice decoro ma una partecipazione sentita, piena di passione, vigorosa. Le sue estensioni, il colore dei suoi acuti, la capacità di adattarsi fra toni lievi e squillanti è sorprendente. Chi ha adorato le magie dei migliori Laika non può rimanere indifferente davanti a questa voce.

Quando il ritmo si fa da parte rimanendo dormiente fra le quinte, ne escono fuori timidi quadretti ambient-pop che sanno di miracolo (“The Moral At The End” sembra una b-side dei dimenticati Antenne, le magiche intrusioni di chitarra nella title-track), fra cui si intromettono mid-tempo folk ben congegniati (la finale “Spring”, il beat azzeccato di “Up”).

Incapaci di trovare un difetto a un disco pregevole, nebuloso, che ben si adatta alle stagioni invernali, decretiamo la completa riuscita di un sodalizio inaspettato ma seducente. Convinti che la collaborazione possa proseguire con risultati perfino migliori di questi, assegniamo a “Making Spaces” un giudizio ben al di là della normalità in ambito electro-pop. Da scoprire e consumare con avida scrupolosità.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana