sabato 29 agosto 2009

Takeo Toyama: "Etudes" (Karaoke Kalk, 2009)



Discepolo di una stirpe folta e ben attrezzata, Takeo Toyama esordisce con un’opera che profuma di tradizione e incanto. Affascinato dal jazz pianistico e da ritmi minimalisti, il giapponese mette insieme un disco delicato, composto con acume e curato nei minimi particolari. Per certi versi simile al connazionale Lullatone, “Etudes” sprigiona una libertà stilistica contagiosa, capace di transitare con sensatezza da un genere all’altro senza perdere in coesione. Non c’è una definizione precisa da forgiare per questa musica, si tratta per sua natura di un’entità sonora sospesa in aria, candita da melodie che sono a metà fra pop ambientale elettronico e marcette classiche post-moderne.

La sensazione di ascoltare la colonna sonora di un teatrino sconclusionato è più che plausibile (i singulti delle varie “Troll”, “Leo”, “Tuner” e “Bobbin”), mentre si rimane perfino disorientati dalla bellezza dei quadretti magniloquenti (la solitudine del piano in “Stitch”, i field-recordings infantili di “Tremolo”, gli intrecci di violoncello in “Gauche” e “Drops” ). Mentre una gemma di j-pop flemmatico conclude il disco (i batti e ribatti fra cori e colpi di drum-machine in “Ugly Girl”), il resto del disco si divide fra ritmi incessanti (il caos di “Odd”), suoni pop solari e frizzanti (“Bobbin”), rimasugli di malinconia da espellere (una fisarmonica per “Hectopascal”).

“Etudes” si dimostra opera dalle tinte variegate, un sottile filo conduttore aiuta a collegare le dodici tracce e la loro versatilità. L’autore Takeo Toyama ha il garbo e l’esperienza di un compositore navigato, riesce ad affastellare umori antitetici e affascina con un tocco quasi naif. Un autentico fulmine a ciel sereno per chi ama i suoni provenienti dall’anima.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 28 agosto 2009

Flica: "Nocturnal" (Schole, 2008)



Le musiche dedicate alla notte hanno sempre una forte attrattiva. Già dal titolo, “Nocturnal”, evoca un viaggio attraverso confini di oscuri paesaggi con poca luce e molte tenebre. Il giapponese Euseng Seto (con alle spalle lo splendido “Windvane And Window”) riesce, attraverso la sua trasposizione musicale, a materializzare solo i sogni dolci, escludendo incubi o turbamenti notturni.

La mistura di musica classica da camera e delicatezze digitali è una formula abusata, a cui si concedono possibilità d’uscire dall’ovvietà solo nei casi più ispirati. Flica riesce nell’intento di esplorare un ambito nel quale è esperto esecutore da anni. “Nocturnal” è un album a cui non si possono muovere critiche. I flebili graticoli si poggiano su strutture classiche (perlopiù piano, ma anche chitarra e qualche percussione metallica), il decoro elettronico spazia con disinvoltura fra l’ambient, nei fragenti più distesi, e l’idm classica, quando il ritmo si fa più sostenuto.

Melodie fiabesche incantano per la grazia emanata (le delicate intarsiature di “All”, ricami quasi impalpabili per “Well”), negli intervalli più propriamente ambientali la batteria elettronica prende il sopravvento (il beat sognante di “Mid”, drum-machine puntuale per “Walk”). La completa riuscita delle composizioni è affidata all’ispirazione con cui le note del piano vengono impostate. La capacità dell’autore di creare le melodie portanti è davvero positiva.

Mentre arrangiamenti orchestrali di pregio incantano con grazia (l’incedere sommesso di “Light”, miniature gentili per “Find”), si viene avvolti dalla perfezione della seconda parte del disco (l’ipnotica “Fucir”, le policromie toniche di “Back”), conclusa con maestria da “Yi”. Al suo interno tutti gli elementi di “Nocturnal” collassano su sé stessi. Un flusso di cori in sottofondo, coadiuvato da uno strato di batteria, viene abilmente fuso con bollicine elettroniche e imperfezioni di contorno.

Flica, giunto a un punto cruciale della sua carriera, mette nero su bianco le sue doti con grande umiltà. Opera di forte empatia, “Nocturnal” rivela sensibilità e una visione incantata della realtà.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Kashiwa Daisuke: "5 dec." (Noble, 2009)



La scuola elettronica dei giovani giapponesi amanti della composizione annovera talenti dall’ispirazione illimitata. Proveniente da un ambiente culturale stimolante e vitale, questa schiera di giovani artisti conta la presenza di componenti dalla preparazione differente. Kashiwa Daisuke possiede un background infrasettoriale, capace di far convivere anima elettronica marcata e uno spirito d’inventiva fra i più vividi. Una frazione classica è il comune denominatore di questa formula frastagliata di digital-art, il tocco di una nota di piano o lo sbaffo di un violino fuori fase sono un decoro a tratti decisivo.

“5 dec.” è un frullatore in cortocircuito, misture di breakbeat impazzito prendono corpo per poi deformarsi in una strana formula di musica da camera destabilizzata e straniante. Intelaiature digitali cristalline gocciolano malinconia e desolazione (le screziature di “About Moonlight”, miscele di melodie pianistiche per “Silver Moon”), i frangenti più sostenuti non cadono nel tranello della monotonia ritmica ma variano schema compositivo più e più volte (l’animo incontenibile di “Aqua Regia”, un gelido flusso di toni per “Bogus Music”).

Le ombre di un impalpabile drone sono solcate da infrastrutture gentili e morbide (l’apparente inconsistenza di “Broken Device” e “Red Moon”), una cascata di note intrecciate con mano sapiente mostra un’artista con precisi obiettivi finali (salde strutture idm in “Silver Moon”, il geniale approccio hardcore all’arte del cut’n’paste di “Requiem”). Fra sprazzi taglienti di musica industriale acidula (l’assalto di toni screziati di “Taurus Prelude”, il finale cacofonico in “Beatiful Sunday”) si frappone un episodio dai profumi quasi pop (le sfumature techno-pop di “Black Lie, White Lie”).

Senza smarrire la direzione di un teatrino sull’orlo della disfatta, Kashiwa riesce nell’impresa di portare a termine un disco a tratti esaltante. “5 dec.” si mette in una posizione di rilievo grazie alla proposta varia, fruibile e congegnata con freschezza. A questo punto, il prossimo passo da percorrere è una decisiva riunione delle idee per comporre il decisivo assalto al panorama occidentale degli appassionati di musica elettronica.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 26 agosto 2009

Pumajaw: "Favourites" (Fire Records, 2009)



Il mistico incontro fra musiche spesso divise da tradizioni e radici differenti è oggetto di interesse a prescindere dal risultato finale. In qualsiasi contesto musicale (musica popolare, avanguardia, elettronica), le intenzioni dell’artista debbono essere soppesate in contrapposizione con la fattibilità del progetto iniziale. I Pumajaw, misconosciuta band proveniente dalla Scozia, si misurano con una sfida ambiziosa. I due componenti Pinkie Maclure e John Wills mettono alla prova la loro identità artistica, coinvolti in un’esperienza profondamente personale.

“Favourites” è un album dalle duplici interpretazioni. Ammantato da un cupo contenitore di folk oppresso e malinconico, le interiora sono composte da una mistura complessa di trip-hop, elettronica e dream-pop. Nonostante l’atmosfera perennemente plumbea ed emaciata, il continuo cambio di registro compositivo aiuta le quattordici tracce a scorrere stimolando l’interesse del fruitore.

Contorte colonne sonore si intrecciano in reticoli dub seducenti (il downtempo malato di “Sorcery”, la  ballata oppiacea “Sweet Kind Of Suffering”), il minimalismo scheletrico si inserisce a metà fra blues notturno e dream-pop (l’andamento caracollante di “The Weird Light”, profonda desolazione melodica per "Memorial Crossing"). Spore di matrice folk mettono in fila nenie ipnotiche (il ritornello ossessivo di “The Bending Wood”, il gelo fra le maglie di una chitarra ed una fisarmonica per “Buttons” e “I Take The Long Way Around”), gracili infrastrutture elettroniche si intromettono con garbo (la commovente malinconia di “Harbour Song”, beat muscolari in perfetta armonia con la voce sinuosa della Maclure per “Stranded”).

La recitazione passionale dai tratti funerei ricama episodi ai confini con la tradizione dark (il lento di incedere di “Frozen In Sleep”, isterie mistiche per “Outside It Blows” ), mentre la corposità della sezione ritmica mostra cura nei dettagli (colloquio forsennato fra batteria e tromba in “We Spin”, delicati ricami di xilofono e percussioni per “Downstream”).

Per accedere nel cuore pulsante di “Favourites” sono necessari passione e amore per la musica. Una musica che trascende dalle trincee del genere e sovrasta ogni pregiudizio di stile. L’opera dei Pumajaw è un puro omaggio all’arte senza limiti, contaminata, plasmata e concepita solo con l’ausilio di un’urgenza espressiva immacolata.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Ebony Bones: "Bones Of My Bones" (Sunday Best, 2009)



Il trend inaugurato da M.I.A. e proseguito con Santogold, giusto per citare i nomi più conosciuti, ha generato proseliti e appassionati un po’ ovunque. La londinese Ebony Bones riprende in mano la sconclusionata mistura di reggae, funk ed elettronica mischiando le carte per variare un canovaccio ormai consolidato. Capace di evoluzioni al limite del crossover, la ragazza merita attenzione per il coraggio con cui riversa le sue idee.

“Bone Of My Bones” è un album zeppo di trovate interessanti, trasuda trasporto per la musica e si rivela prodotto di forte impatto commerciale. Complice un periodo di affollamento nelle uscite discografiche, gli è stata dedicata poca attenzione. Nonostante l’approccio decisamente passionale alla composizione, il disco non perde in coesione, anzi, il suo stile improntato alla fusione di varie tendenze produce un risultato frizzante e appetibile. Il lavoro di fino sul ritmo produce pop-song incontenibili (la sfrenata “W.A.R.R.I.O.R”, le poliritmie di “We Know All About U”), mentre l’uso dell’elettronica è misurato e ben congegnato (i synth taglienti di “Story Of St. Ockwell”, vortici meccanici senza freni per “In G.O.D. We Trust”).

Oltre la parte strumentale, in certi casi sorprende anche la facilità con cui i ritornelli rimangono impressi; in questi casi l'artista dimostra capacità vocali notevoli (i repentini cambi di tonalità in “The Musik”, effluvio di emozioni per “Guess We’ll Always Have New York”).

L’approccio da party-music colpisce nel segno senza strafare (la fanfara sconclusionata di “When It Rains”, groove trascinante per “Were Ready When You Are”), mentre la mistura fra rock da strada e strutture dance non mostra cedimenti (tribalismi variegati in “Dont Fart On My Heart”, i perfetti incastri timbrici di “Im Yr Future X Wife”). Completa il disco un interessante intreccio fra hip-hop e techno-pop (“Smiles & Cyanide”).

Album adatto per le giornate assolate di un’estate rovente, “Bone Of My Bones” sviluppa nuove vie d’uscita per un filone che a tratti sembrava aver esaurito le proprie potenzialità.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Chairlift: "Does You Inspire You" (Kanine, 2009)



Masticare generi consolidati più di venti anni fa è una tentazione con cui molti gruppi si sono confrontati. In particolare, la rivisitazione di quel wave-pop screziato da intrusioni elettroniche è stata pratica spesso sperimentata. I Chairlift esplorano territori molto noti e proprio per questo mettono in gioco la loro carriera discografia già dall’esordio. Capaci di fondere insieme synth-pop, tradizione wave e sprizzi di indie-pop, il gruppo di Brooklyn raggiunge in certi frangenti un’originalità colorata.

“Does You Inspire You” è un disco scorrevole, composto con acume e controllo dei mezzi. L’intreccio delle due voci maschili e femminili, oltre a un uso spiccato di elettronica e chitarra effettata, sono elementi ulteriori che arricchiscono undici tracce mai uguali a sé stesse. La continua varietà umorale delle canzoni è la ciliegina sulla torta; veniamo condotti durante tutto il disco da una giostra forsennata, incapace di sostare anche solo per un attimo.

Spirali di pop al vetriolo trasudano tensione e fascino (l’incipit pulsante, quasi funk, di “Garbage”, la tormentata “Earwig Town”), fragili litanie recitate con flemma donano ai minuti un tocco etnico (“Planet Health”, che pare venir fuori da “Gentlemen Take Polaroids”, l’ambient-pop vibrante di “Somewhere Around Here”). La grazia di gemme pop immacolate raggiunge vette di pura eccellenza (la sorprendente bellezza di “Bruises”, i saliscendi irresistibili di “Make Your Mind Up”), nei frangenti in cui l’uso dell’elettronica diventa portante, la tenuta della struttura è invidiabile (Soft Cell ansiolitici in “Evident Utensil”, i gorghi sintetici di “Territory”).

Giocata la carta della ballata scheletrica con voce riverberata (“Don’t Give A Damn”), con la coda finale composta da uno strumentale poggiato su un ectoplasma di tromba (“Chameloen Closet”), giunge il commiato perfetto. “Ceiling Wax” si ricongiunge con tradizioni ormai perdute, collega idealmente l’afflato sottomesso delle recitazioni di Hope Sandoval con le tentazioni dei già lodati Antenne. L’unico suo difetto è la durata ridotta; se l’idea di base fosse più sviluppata, saremmo di fronte a una signora canzone.

I Chairlift hanno messo sul piatto un misto succolento: coraggio, ispirazione, sfrontatezza e talento. Il risultato che ne viene fuori è una pietanza dai sapori variegati, a suo modo golosa e seducente, la cui mutevole attrattiva richiamerà avventori fra i più disparati. In questo momento “Does You Inspire You” non attende altro che essere assaggiato, consumato e valutato.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana