martedì 31 gennaio 2012

Emika: s/t (Ninja Tune, 2011)



Attiva da qualche anno nel giro che conta, Ema Jolly in arte Emika sfonda la porta del primo album dopo una lunga gavetta. Inglese di origini ceche, ha risieduto prima a Bristol, poi a Londra e infine a Berlino, completando il suo profilo attraverso la frequentazione di alcuni locali in veste di collaboratrice. Appassionata di techno, ingegnere del suono e ben calata nella doppia veste di produttrice e cantante, si presenta all'esordio con un'esplosione di passione per la musica pop a 360°. Già dal 2009 il suo Ep "Price Tag", contenente la chicca "Lights Go Down", aveva solleticato la curiosità dei più golosi amanti dell'elettronica pop. Insieme alla sensibilità canora e compositiva, l'artista dava già sfoggio di un controllo dei mezzi da vera navigata.

Melodie dense, ottundenti, calate in un'atmosfera catatonica da videogioco cyber-punk, mai banali o scontatamente aggressive. Dove il ritmo in 4/4 guida i giochi, le policromie dei beat giocano a nascondino facendo da contraltare alle varie discrasie circuitali. Sulle tracce dello splendido "Happy In Grey" di Damero, la Jolly, dall'aspetto androgino e seducente, evita attentamente di porsi come nuova bad girl dell'elettronica e preferisce lavorare sulla sua creazione. Tanto influenzata dal tech-pop androide di scuola berliniana, quanto plasmata dalle scosse telluriche del dubstep e degli umori Uk in campo dance, Emika ingloba perfettamente le pulsazioni lente del trip-hop, rendendo non casuale la sua passata residenza a Bristol. Supportata da una voce tagliente e da vera musa, Emika riesce a mantenere costante l'atmosfera per tutto il disco. Evitando di distendere forzatamente gli umori con folate più soleggianti, l'album si erge a monolite notturno, dal forte appeal urbano e piovigginoso, con punte dark degne di una vera goth-diva.

I singoli tech-pop raffinati e dal fascino irresistibile costituiscono il corpo dell'album (la sconvolgente malia di "Double Edge" e "Pretend", l'asfissia nella satura "3 Hours"), mentre trovano spazio strumentali pregevoli (il dubstep marziano in "Be My Guest"), i richiami bristoliani già citati (la nebbia fittissima di "Professional Loving") e momenti più arditi e rarefatti (la poesia tech-spoken-word in "Count Backwards" e "The Long Goodbye"). Non c'è spazio per un respiro salutare, perché l'estroversa "Fm Attention" è forse il pezzo più scuro del lotto, "Drop The Other" scende e risale dall'abisso con troppa velocità per riprendere fiato, e la conclusiva "Come Catch Me" ("Credit Theme" è solo un bel giochino con il piano) affonda il definitivo fendente prima di dissolversi con battiti affilati e pericolosi.

Se in ambito elettronico/dance il 2011 è stato senza dubbio l'annata di Deniz Kurtel e del suo "Music Watching Over Me", Emika ha saputo convogliare a sé la giusta ispirazione per tenere testa a cotanta bontà. Penalizzato dalla pubblicazione avvenuta sul finire dell'anno, il disco è compiutamente estroso e brumoso, colmo di disagio generazionale ed erotico quanto basta. Da gustare in una notte smaliziata con la luna a far da compagnia.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Moral: "And Life Is..." (Arp Grammofon, 1984)



Riconsegnare la debita lucentezza a oggetti sperduti nella memoria è il sogno di ogni cercatore. Che il cercatore abbia le sembianze di un coraggioso archeologo o quelle di un ardito studioso di lingue estinte, l'obiettivo è sempre quello di riesumare qualcosa di dimenticato o parzialmente nascosto. Nel nostro caso, siamo di fronte a un misconosciuta essenza rimasta nelle tenebre per quasi trent'anni. Una band, delle canzoni, tre persone, il cui unico difetto è stato quello di non venire mai definitivamente al mondo.

La storia dei Moral viene dal lontano 1981. Hanne Winterberg, Marco Andreis e Ingolf Brown provengono da Århus, Danimarca. Le due cassette con cui la band esordirà saranno l'incipit perfetto per mettere insieme un disco che rimarrà, già prima di essere pubblicato, nel limbo delle opere di culto. "Dance Of The Dolls" e "Whispering Sons" sono prove tecniche che dimostrano quanto i tre nordici fossero in fermento espressivo e artistico. Nella prima, alternando dubbie estrosità lontane dal loro stile (la confusione di "Involuntary Position") ed esperimenti graziosi (scintille di synth in "A Break In The Frost", l'umile siparietto anglo-spagnolo "Encyst Yourself"), il fulcro è la title track, oltre all'elegia sognante di "I My Enemy". In una versione bucolica rispetto alla rimasterizzazione su cd, la traccia è un incanto la cui sorte sarà quantomeno ingenerosa. Sulla struttura di un carillon fatto di stelle e policromie abbaglianti, il canto di Hanne Winterberg danza con una grazia che sa di miracolo. Semplici vocalizzi, qualche frase sussurrata e sei minuti scarsi che potrebbero essere dieci, cento o mille.

"Whispering Sons", appena un anno dopo, porta a nove le tracce e alza l'asticella, avvicinando sempre di più la band all'album. Tralasciando un paio di piccoli episodi di dubbia provenienza (il caos inspiegabile di "Soundscape", il borbottio in "Consumerism"), le tracce dondolano fra ballate crepuscolari e glaciali (gli arpeggi cosmici di "Frosty Nights", il ritmo serrato in "The Average Life") e capolavori che non avrebbero sfigurato nel catalogo dell'allora gloriosa 4AD.
I contrappunti di chitarra incalzati dalla drum-machine della title track, oppure l'ariosità del synth di "A Frame Of Mind", oltre al misticismo ipnotico di "Arabian Nights", sono un qualcosa di intenso e misterioso, gemme di uno scrigno mai completamente dissotterrato.

Passano due anni ('84) e arriva il momento dell'esordio su Arp Grammofon. Ammantato da un'aura di magica malinconia nordica, "And Life Is..." fonde con miracolosa efficacia synth-pop, elegie dream e oscuro pathos debitore in primis ai coetanei - ma ben più fortunati - Siouxsie & The Banshees.
L'incanto fiabesco della band dona a tutte le tracce una potenza espressiva notevole, raggiungendo vette a cui pochissimi appassionati avrebbero fatto a meno se l'album avesse raggiunto una pleatea internazionale. Tuttavia vari fattori, fra cui la ristrettezza dei canali di distribuzione di quegli anni, hanno limitato la diffusione di una musica la cui assoluta validità è stata riscoperta da alcuni sparuti critici, a cui va riconosciuto il merito di aver riacceso un fuoco morente.
Di lì a poco la band, nonostante i concerti di spalla con nomi come Nico e Monochrome Set, dopo un'attività di soli quattro anni, si dissolve nel 1985.

Una perdita notevole, se rapportata al papabile "successo" a cui il trio avrebbe potuto tranquillamente aspirare negli anni seguenti. In tal senso, la sola "Airscape" anticipa gli Stereolab più cupi, elettrici e spigolosi. Così come l'incedere giullare e fantasmagorico di "Still Remaining" abbraccia psichedelia manzarekiana e obliquità sintetica della prima ora. Mentre il Brian Eno di "Another Green World" è opportunamente modellato nell'inquietudine atonale di "On Serial Rendau", omaggio incondizionato al groove malato di "In Dark Trees".
In controluce, i delicati arpeggi palesati nella dolcissima "Trees In November" conferiscono ritrovata grazia, elevando a pieno titolo la canzone come potenziale singolo del lotto. Da non dimenticare i sospiri sferzanti intrisi di malessere in "Lady Happiness", adornata da accordi di chitarra alla Wire prima maniera, con un synth che ricama melodie avvolgenti e sinuose.
Ad arricchire un bagaglio sonoro già di per sé estremamente denso di sfuggenti ripartizioni "pop", sono il tambureggiare in penombra di "Juice" e l'ascesa elettrica di "The Wedding", con la Winterberg morbidamente racchiusa nell'angolo, tra imprecazioni interiori e implosioni emotive da inafferrabile chanteuse.
Nel 2007 la Karma Music rilascia una ristampa dal titolo "And Life Is... More", aggiungendo alle nove tracce originarie altre sette estratte dalle due cassette già citate.

Abile nell'alternare luci e ombre, melodie e disarmonie, stabilità e imprevedibilità, il trio Moral sfugge da qualsiasi possibile demarcazione, brillando di luce propria nella sterminata galassia delle comete più splendenti che la musica "pop" possa aver mai gelosamente custodito negli ultimi trent'anni.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Christina Vantzou: "N°1" (Kranky, 2011)



Ricordare i tempi in cui la musica uscita nei negozi era perfettamente adatta alle stagioni in corso è un piacere inestimabile. Timido livore autunnale, splendore variegato per la primavera, allegria spensierata per l'estate e un glaciale silenzio invernale. Christina Vantzou coglie il momento giusto per uscire con il suo debutto nel pieno trascorrere dell'autunno. Metà dei Deat Texan insieme ad Adam Wiltzie, l'artista ha lasciato giacere questa meraviglia per ben tre anni, impegnata a rifinire i dettagli e giustapporre ogni minuscolo granello tonale.

"N° 1" è una delicata, eterea, palpeggiante, suite di circa 40 minuti divisa in dieci movimenti. Raro esempio di coesione fra le varie parti, il lavoro della Vantzou si basa sull'utilizzo di sintetizzatori e campionamenti di musica operistica per la base di sottofondo, mentre la struttura portante annovera una grande varietà di strumenti a fiato e a corda suonati dalla Magik Orchestra di Minna Choi.
Calata in una riconoscibile atmosfera a metà strada fra chamber-music e lo stile di artisti come Dead Can Dance, la musica scorre intensa e palpabile, quasi fosse un'essenza misticheggiante con vita propria. La forza di questo disco risiede nella scissione di un unico inscindibile blocco in parti che colloquiano fra loro perfettamente; il contrasto fra l'efficacia di questa parcellizzazione e il desiderio di ascoltare un'unica traccia da quarantacinque minuti, è l'obiettivo che ogni autore di musica strumentale si prefigge all'attore di comporre, creando di fatto un adorabile contrasto nell'animo dell'ascoltatore.

Se tracce come "Super Intelude Pt. 1&2" - splendidamente flemmatiche e roboanti - danno alla vita e al tempo un senso compiuto, altri episodi ("Joggers") si srotolano affastellando rumori e dolcezze con un'alternanza acidula. Fra tonalità chiaroscurali e attitudine cinematografica, frammenti di cielo piovono con enfasi (i fiati di "Homemade Mountains", i duelli fra archi nella tenebrosa "Prelude For Juan") e celestiali colonne sonore esplodono con vigore prorompente (tutta la carica emotiva di "Adversary" e "Small Choir"). Per durata e modalità di svolgimento "And Instantly Take Effect", così placida e crepuscolare, si erge a traccia-chiave dell'album facendo da corollario all'impetuosità che la circonda.

In simbiosi con un autunno avido di sole, Christina Vantzou piazza l'opera che potrebbe metterla in luce non solo come musicista classica ma pure in veste di autrice di colonne sonore, visto l'innato fascino visuale della sua opera. Senza far rumore, alla maniera di chi guarda al futuro con la propria testa, la compositrice di "N° 1" ha fra le mani un talento di cui sarà difficile fare a meno.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

My Foolish Heart: "Ocean, Ocean" (Happy / Mopy Records, 2011)


Italiani, da Cortanze in Piemonte, i My Foolish Heart si presentano sulla loro pagina Facebook con la frase: "Music for very old people". Ascoltando il loro esordio sulla lunga distanza, la sensazione è francamente questa. Musica dai sapori dimenticati, delicata, ben rifinita e colorata. Non canzoni dall'aspetto antico, adatte per nostalgici irrecuperabili, bensì una raccolta di melodie che rimandano al passato in maniera intelligente, rivisitando la chiave di lettura delle fonti di ispirazione con sapiente ispirazione.

Una delle prime cose che salta all'attenzione è la produzione del suono pulita e ben calibrata: nonostante siano degli esordienti, i My Foolish Heart e la loro squadra di lavoro dimostrano di saper controllare ogni singolo particolare con perizia. Il secondo aspetto è la poliedricità strumentale della musica, che deve la propria esplosività a Stefano Ordazzo, metà maschile del duo, che suona una quantità incalcolabile di strumenti senza perdere di vista la coesione del tutto. Dall'altra parte troviamo la voce di Caterina Sandri: profonda, adatta ai toni sia concitati che delicati, dotata di espressività e molto duttile. Se in "Sootiness, Sonsy Girl" le qualità da cantante pop non le mancano, il meglio arriva nei piccoli episodi ("Let's Jame The Brakes", "Notical Mile"), dove l'ugola cristallina si esprime con variazioni cromatiche notevoli.

"Ocean Ocean" è un disco dalla difficile catalogazione. Nonostante la struttura sia quella folk classica, le contaminazioni arrivano sia a livello percussivo che di scrittura. Infatti, se l'arpeggio di chitarra prende il sopravvento abbiamo davanti timide perle acustiche di sicuro impatto (l'apporto scintillante del piano in "After Eight" e "A Lawn Sprinkler"), circondate da un singolo folk-rock efficace ("Sootiness, Sonsy Girl") e perfino da rimandi al Brasile tropicalista (l'adorabile "Let's Jame The Brakes"). Le forti tinte strumentali del duo vengono fuori nelle lunghe suite ("No Thingness", la title track), le quali danno sfogo a un lato più improvvisato e squisitamente prog, donando un'ariosità globale che rende il disco sfaccettato e molto gustoso.

Non c'è dunque limite alle potenzialità di queste dieci canzoni e dei loro autori, qualcosa bolle in pentola e "Ocean Ocean" è soltanto l'antipasto di una portata che potrebbe diventare perfino succulenta. Strumenti, ispirazione e capacità ci sono, aspettiamo con ansia i prossimi sviluppi per capire se ci abbiamo visto giusto.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Kreidler: "Tank" (Bureau, 2011)

 

Cantori di un modo di fare musica ormai dimenticato, in oblio rispetto alle varie mode tanto in voga nel mercato indipendente, i Kreidler tornano sulla lunga distanza dopo qualche anno di assenza. Proveniente da un nutrito nucleo di artisti tedeschi della stessa generazione, la band di Berlino ha in comune diversi componenti con un'altra formazione di fondamentale importanza: i To Rococo Rot. Fin dal primo disco "Weekend", l'originalità della proposta fu subito lampante. Si sprecarono definizioni come "post-rock senza chitarre" o "kraut-rock aggiornato ai tempi moderni". La verità sta nel mezzo, perché se da un lato è vero che l'arte dei Kreidler amalgama con saggia maestria gli stilemi del post-rock e del kraut, dall'altro è importante sottolineare quanto lo spirito delle composizioni sia indistinguibile e unico. Sostenuto da partiture di archi, linee di basso, o pulsazioni elettroniche, ogni pezzo gode di una vitalità rara, mosso da un animo solitario, condotto da logiche astrali e magiche.

"Tank" è composto da sei tracce e ricalca solo in parte il passato, sviluppando l'anima kraut che ha sempre risieduto nella musica della band tedesca. Fra le tante variazioni sul tema, l'album che più si avvicina al presente è "Appearance And The Park", in netto contrasto con le angeliche divagazioni barocche di "Eve Future Recall". Dove solide basi ritmiche costituiscono l'ossatura, gli arabeschi elettronici riescono e dipingere melodie incantevoli e ammalianti, coniugando la glacialità matematica di basso e batteria con l'ariosità del synth. Fra queste note è facile riconoscere i fondatori del kraut-rock, il famoso motorik che ha reso celebri band come Can e Neu!, stando un poco più attenti troverete nell'incedere delle partiture elettroniche il sapore di una malsana miscela fra la fredda e scientifica perfezione dei ritmi dei Kraftwerk e le pulsazioni di certa elettronica europea d'inizio decennio (Boards Of Canada e similari).
L'imponenza di certi nomi ha un valore duplice, infatti, se da una parte l'ambizione nel raggiungere tali obiettivi è quantomeno lodevole, dall'altra la tentazione di strafare può portare a risultati confusi e poco centrati. Tuttavia i Kreidler si sono sempre distinti per la misura e la precisione con cui hanno assimilato tali ingombranti riferimenti, dimostrando ad ogni loro uscita una consapevolezza tale da raggiungere il perfetto equilibrio fra innovazione e ossequioso rispetto. La semplicità di pochi elementi ben giustapposti è la cifra stilistica con cui, attraverso metodi e strumenti diversi, i quattro tedeschi sono riusciti a comporre un qualcosa di inimitabile.

Staffilate metronomiche di synth compongono la colonna sonora per un film horror epico ("New Earth", trascinante e mistica, "Jaguar", sorretta da qualche linea elettronica), mentre gli episodi dalle cadenze più robotiche si adattano meglio a qualche b-movie fantascientifico con essenze meccaniche per protagonisti (i ritornelli di plastica in "Evil Love", le pulsazioni strazianti di "Gas Giants"). Dove il duo basso-batteria prende il sopravvento la perfetta sintonia fra ritmo e soave dolcezza delle melodie non perde di tonicità, come nelle impressionanti accelerazioni di "Kremlin Rules" o fra le strutture spastiche in "Saal".

Adatti a un'epoca diversa dall'attuale, immersi in un mondo tutt'altro che convenzionale, i Kreidler, con la coesione che li ha sempre contraddistinti, disegnano un ulteriore passo in avanti sul loro percorso artistico, aggiungendo elementi a una formula già di per sé immacolata, dimostrando che una musica semplice e vivida può sorprendere più di complessi calderoni inestricabili.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

Rotterdam: "Cambodia" (Everestrecords, 2011)


Duo proveniente da Vienna con un passato artistico poco chiaro, Susanne Amann (cello, flauto, electronics) e Michael Klauser (chitarra acustica, electronics) dichiarano d'aver speso ben dieci anni per mettere insieme le loro idee. Un periodo spropositato per i tempi della produzione musicale odierna, tuttavia all'ascolto del loro debutto non sarà difficile immaginare lo sforzo necessario per ottenere un risultato di tale ricercatezza.

Calderone di difficile catalogazione, "Cambodia" è un'ode al loop, alla ripetizione ritmica, alla monotonia. Termini che riassumono in maniera precisa l'essenza di questo disco, in perenne equilibrio fra sperimentazione ardita e incanto ritmico. Perfetta fusione fra indole avant, pulsazioni techno e retroterra classico, le sette tracce sono una peculiare fusione fra suite di musica improvvisata suonata con strumenti classici (cello e chitarra acustica) e spirito elettronico mutuato dalla techno più cruda e scheletrica. Mai la monotonia è stata più varia, infatti nonostante i pezzi siano spesso sorretti dalla ripetizione dello stesso pattern per diversi minuti, l'ascolto risulta mutevole, ipnotico, raggelante. Non c'è mai un aspetto scontato, un ritmo scialbo, un tono nel cassetto sbagliato.

La precisione certosina con cui si colloca a metà fra opera elettronica e lavoro di pura avanguardia è a dir poco miracolosa. In passato vari artisti si sono cimentati con questa operazione riuscendo solo in parte a realizzare qualcosa di efficace, risultando o troppo ermetici o all'opposto eccessivamente frettolosi. "Cambodia" riesce nell'intento di fondere due modi di intendere la musica, affiancando all'asetticità delle note crude e schiette di cello e chitarra acustica, le vigorose spinte timbriche della drum-machine, creando voragini di rumore ossessivo.

Squarci martellanti sfigurano tutte le certezze con efferatezza (il duello fra beat e cello di "Cool Bum Bum", le asperità scoscese in "Eckig"), fra qualche calda ballata esclusivamente digitale (le miracolose interazioni piano/elettronica della title track), nenie sconnesse (il bellissimo beat di cello ripetuto fino allo sfinimento in "Berlin") e qualche melodia riconoscibile (il dolce giro di chitarra martoriata della conclusiva "Zimzike"). Emblema di tutto il disco e punto focale di un'opera sorprendente, "Rotterdam" immerge in una coltre di rumore nero come la pece alcune note di cello, contornando il tutto con una pioggia di beat distratti e imprecisi, condensando in tre minuti e mezzo una forza espressiva con pochi precedenti.

Augurarsi che la coppia viennese impieghi meno di dieci anni per pubblicare un lavoro perlomeno allo stesso livello di "Cambodia" è un auspicio doveroso, lo sforzo profuso per produrre qualcosa di non ovvio è tale da mettere in luce i Rotterdam e generare attesa sui futuri sviluppi della loro arte.

(7,5) 

recensione di Alessandro Biancalana