martedì 31 gennaio 2012

Rotterdam: "Cambodia" (Everestrecords, 2011)


Duo proveniente da Vienna con un passato artistico poco chiaro, Susanne Amann (cello, flauto, electronics) e Michael Klauser (chitarra acustica, electronics) dichiarano d'aver speso ben dieci anni per mettere insieme le loro idee. Un periodo spropositato per i tempi della produzione musicale odierna, tuttavia all'ascolto del loro debutto non sarà difficile immaginare lo sforzo necessario per ottenere un risultato di tale ricercatezza.

Calderone di difficile catalogazione, "Cambodia" è un'ode al loop, alla ripetizione ritmica, alla monotonia. Termini che riassumono in maniera precisa l'essenza di questo disco, in perenne equilibrio fra sperimentazione ardita e incanto ritmico. Perfetta fusione fra indole avant, pulsazioni techno e retroterra classico, le sette tracce sono una peculiare fusione fra suite di musica improvvisata suonata con strumenti classici (cello e chitarra acustica) e spirito elettronico mutuato dalla techno più cruda e scheletrica. Mai la monotonia è stata più varia, infatti nonostante i pezzi siano spesso sorretti dalla ripetizione dello stesso pattern per diversi minuti, l'ascolto risulta mutevole, ipnotico, raggelante. Non c'è mai un aspetto scontato, un ritmo scialbo, un tono nel cassetto sbagliato.

La precisione certosina con cui si colloca a metà fra opera elettronica e lavoro di pura avanguardia è a dir poco miracolosa. In passato vari artisti si sono cimentati con questa operazione riuscendo solo in parte a realizzare qualcosa di efficace, risultando o troppo ermetici o all'opposto eccessivamente frettolosi. "Cambodia" riesce nell'intento di fondere due modi di intendere la musica, affiancando all'asetticità delle note crude e schiette di cello e chitarra acustica, le vigorose spinte timbriche della drum-machine, creando voragini di rumore ossessivo.

Squarci martellanti sfigurano tutte le certezze con efferatezza (il duello fra beat e cello di "Cool Bum Bum", le asperità scoscese in "Eckig"), fra qualche calda ballata esclusivamente digitale (le miracolose interazioni piano/elettronica della title track), nenie sconnesse (il bellissimo beat di cello ripetuto fino allo sfinimento in "Berlin") e qualche melodia riconoscibile (il dolce giro di chitarra martoriata della conclusiva "Zimzike"). Emblema di tutto il disco e punto focale di un'opera sorprendente, "Rotterdam" immerge in una coltre di rumore nero come la pece alcune note di cello, contornando il tutto con una pioggia di beat distratti e imprecisi, condensando in tre minuti e mezzo una forza espressiva con pochi precedenti.

Augurarsi che la coppia viennese impieghi meno di dieci anni per pubblicare un lavoro perlomeno allo stesso livello di "Cambodia" è un auspicio doveroso, lo sforzo profuso per produrre qualcosa di non ovvio è tale da mettere in luce i Rotterdam e generare attesa sui futuri sviluppi della loro arte.

(7,5) 

recensione di Alessandro Biancalana

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