domenica 20 febbraio 2011

Aoki Takamasa: "Fractalized" (Commons, 2010)



Autore negli anni di una techno storta e mutante, Aoki Takamasa torna dopo qualche anno di quiescenza con una prova ambiziosa e variegata. L'abilità del giapponese nell'approfondire il suono techno applicato a vari contesti è sempre stato un punto di forza, capacità che l'ha spesso catapultato alla ribalta come fine ricercatore e professore del ritmo. In questo caso il suo intento è un processo di rivisitazione che coinvolge pezzi propri e composizioni altrui. Aoki attinge a piene mani dal catalogo sterminato del trio Yellow Magic Orchestra, fra cui alcuni episodi singoli del front-man Ryuichi Sakamoto.

Merito di un'atmosfera ombrosa e asfissiante, “Fractalized” alterna magistralmente ritmi, melodie e distensioni con maestria inattaccabile, dimenticando quasi per un attimo di non essere propriamente un album ma bensì una raccolta di brani. Fra accenni techno, glitch, pop e IDM, il campionario di stili e suoni spazia e garantisce tenuta qualitativa e di tensione, congegnando la sequenza di brani senza cali o distrazioni. Sperimentazione fuori dai canoni della normalità, tipicamente certosina e puntigliosa come vuole la tradizione nipponica, ai limiti della perfezione e forse un po' asettica. Nota positiva nell'uso della voce, orpello di enorme funzionalità.

Mescolando ritmi robot-pop onirici e dissonanti (l'iniziale “Rescue”,  fra voci dream-pop e stomp ovattati, l'ugola angelica di Tujiko Noriko in “Love Bytes”) l'insieme sprigiona un fascino urbano, mentre nei frangenti più astratti, il tono è solenne e quasi distaccato (le disfunzioni circuitali di “Ascary Dry Condition”, la saturazione noise della title-track). Quando Takamasa mette le mani sulle melodie di Sakamoto e soci si denota una quiete accogliente che, seppur mescolata a una serie di contrappunti gelidi e meccanici, dona un piacevole senso di dolcezza (il carillion tuttosommato delicato di “Mars”). A metà fra spoken-word e techno-pop irrefrenabile, il disco scorre con frenesia (i pattern vocali di“War & Peace” vedono la collaborazione di Arto Linsday ai testi), morbosità (gli ectoplasmi pianistici in “Composition 0919”) e candore indifeso (ancora la Noriko nella crepuscolare “Music For Sweet Room On The Orbit Of The Earth”, le increspature ambient della finale “Re-Platform”).

Album trasversale e dalla versatilità sorprendente, “Fractalized” mette in risalto le qualità di Aoki in veste di compositore e remixer. L'attitudine all'adattamento giova a nove canzoni tese, nervose, vivissime. Senza cadere mai in una monotonia sonnolenta, l'artista riesce a catturare l'attenzione con cambi di registro, le parole dette e non dette, la professionalità che si fonde con la passione.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 13 febbraio 2011

Caroline: "Verdugo Hills" (Temporary Residence, 2011)



Caroline Lufkin, sorella della pop-star giapponese Olivia, nata a Okinawa ma formata  in America in un college di Boston, torna con un album nuovo di zecca dopo ben cinque anni dal suo esordio “Murmurs”. Splendido affresco glitch-pop dal candore fragilissimo, quella prima prova metteva in mostra doti di pregio assoluto. Misticanze zen, voce delicata, intrecci strumentali gentili e quel fascino un po' da fatina dei boschi. Il lasso di tempo trascorso da quel periodo include un'attività assidua con gli amici Mice Parade, con cui ha collaborato sia in sede di performance live, sia in studio nel loro ultimo album “What It Means To Be Left-Handed”.

Nonostante l'impegno profuso per seguire la band in tutto il mondo, la compositrice nipponica non ha trascurato le sue ambizioni soliste. In “Verdugo Hills” traspare una passione contagiosa per la sua musica, un attaccamento capace di trasferire al risultato un impeto emotivo realmente travolgente. Lo stile compositivo ricalca la scia di molte sue colleghe (Piana, Gutevolk, Moskitoo), coniugando una struttura melodica scheletrica (spesso sostenuta da alcune note di tastiera) con un contorno mai casuale di percussioni (xilofono per lo più), field recordings o synth di varia natura. La voce, spesso flebile sussurro impercettibile, è il perfetto anello di congiunzione e il completamento di quadretti che paragonare a dei bonsai è fin troppo banale. Belli e discreti gli inserti di drum machine, battiti mai invadenti e funzionali allo svolgimento dimesso.

La variazioni sul tema sono spesso impercettibili, relegate all'uso di una tromba (la vivida “Snow”) o della batteria suonata (gli sbuffi di ritmo in “Sleep”); d'altro canto in un album simile i punti forza non sono tanto la varietà o i cambi di registro, quanto la capacità di creare un'atmosfera tale da rapire l'ascoltatore per tutta la durata del disco. Musica sicuramente fuori moda, non di primo impatto e decisamente appartata, tuttavia una tale profusione di tatto è efficace e può andare a segno anche con chi non è abituato a certe soluzioni stilistiche.

Forse meno zuccheroso e più astratto del suo predecessore “Murmurs”, “Verdugo Hills” prosegue un progetto ben preciso di pop leggiadro, umbratile, perfino indifeso. Gli sviluppi graditi sarebbero la svolta più cantautorale o l'aggiunta di polpa strumentale, in ogni caso a oggi plaudiamo un album che ha seriamente le carte per catturare l'attenzione di ascoltatori fra i più disparati.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana