giovedì 25 giugno 2009

Boxcutter: "Arecibo Message" (Planet Mu, 2009)



Fra i numerosi antesignani del dubstep, Boxcutter è stato quello meno invasivo e ricoperto di elogi. Costruita una solida base di rispettabilità con due album poco meno che ottimi ("Oneiric", "Glyphic"), il ragazzo irlandese rilascia la terza prova in quattro anni di carriera. Barry Lynn (questo il suo nome di battesimo), nonostante rimanga saldamente ancorato alla propria indole dubstep, ingloba corpose influenze prima d’ora soltanto sfiorate. I ritmi, spesso sconnessi e accelerati, danno sfogo a tendenze break-beat di grande levatura; le scheletriche trame melodiche, incorniciate in uno schema ben stabilito, strizzano l’occhio alla classica battuta precisa dell’IDM, senza contare i vaghi sentori della acid più classica presenti un po’ ovunque a macchie fra le tredici tracce.

“Arecibo Message” è un calderone variegato e mai dispersivo, una caduta repentina in un tunnel oscuro e marcio, la definitiva deflagrazione di un’elettronica post-moderna che ha perso il controllo di sé stessa a tal punto da sfigurarsi fino a diventare irriconoscibile. Un sapiente lavoro di riciclaggio condotto con maestria e furbizia, contaminato con trovate miracolose.

Narrazioni spaziali mostrano un uso discreto della voce (gli incastri scintillanti della title-track, il funk robotico di “A Familiar Sound”), flussi timbrici oscuri prendono il sopravvento (il break-beat plastico di “Sidetrack”, movenze sinuose per “Mya Rave”). Bassi gommosi ed elastici sono l’elemento d’unione della parte centrale del disco (“S P A C E B A S S”, “Arcadia 202”, “Old School Astronomy”), mentre vortici digitali impazziscono indomiti (“Free House Acid” è vero anthem apocalittico, “Sidereal Day” si mostra più solare ma non meno intricata).

I profumi house di “Lamb Post Funk” sono una colorata sintesi pop dell’arte di Boxcutter, ulteriore conferma del potenziale appena accennato in quattro anni scarsi di carriera. “Kab 28” è un tributo alla drum’n’bass classica, mentre “A Cosmic Parent” conclude il disco con un tocco di malinconia ossessiva.

Grande appassionato delle tendenze in ambito elettronico, Barry Lynn mette insieme una musica che rispecchia una visione distorta e malata del suo mondo, musicando una realtà vicina solo alla sua immaginazione.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 5 giugno 2009

Sin Fang Bous: "Clangour" (Morr Music, 2009)



Il delicato e prezioso “The Ghost That Carried Us Away” della band islandese Seabear aveva rapito gli amanti del folk-pop più curiosi ed esigenti. Il loro creatore, Sindri Már Sigfússon, riversa la grande quantità di materiale ideato in un’opera composta, suonata, prodotta e confezionata completamente da lui.

Ancora sotto l’ala protettrice della benemerita Morr Music, il disco ricopre una fascia di mercato molto ampia. Adatto ai nostalgici dell’indie-tronica classica, le composizioni qui presenti si conciliano con un tono di sperimentazione molto ardito che sarà apprezzato anche dai palati più rigorosi. Come dichiarato dallo stesso artista in una recente intervista, il fulcro di questo disco è la sua fantasia, più precisamente l’esposizione del lato più folle e creativo. Effettivamente ascoltando le undici tracce si ha una sensazione di introdursi un luogo incantato musicato da una colonna sonora frizzante, briosa e colorata. La vera natura dell’artista viene messa in gioco in una sfida ad armi pari con le proprie possibilità, sfruttando fino in fondo estro, coerenza e sregolatezza.

Il contenuto di “Clangour” si distingue dalla pletora di pubblicazioni per la sua sorprendente varietà; la facilità con cui rimane impresso fra ritornelli azzeccati e ritmi inusuali gioca un fattore determinante. C’è un continuo passaggio da toni riverenti e distesi (la nenia fiabesca di “Sunken Ship”, progressioni martellanti e ossessive per “Clangour And Flutes”), strappi melodici fulminanti (la folgorante “Advent In Ives Garden”, il caos ordinato di “The Jubille Choruses”). Il tono asciutto con cui la chiara matrice folk di questa musica viene contaminata con altre influenze è il maggior pregio, peraltro coadiuvato da una discreta scorrevolezza che non fa incagliare il prosieguo anche nei frangenti più ostici.

La sapiente gestione della ritmicità serrata corrisponde al passo decisivo verso un risultato decisamente interessante. Giocando alla gara delle citazioni potremo mettere insieme sprazzi degli Animal Collective più pop, il folk di matrice classica leggermente screziato (Jason Molina) e un'uso discreto della tecnologia, dall’elettronica presente un po’ ovunque fino alla precisa e puntuale produzione finale. Fra le trame di una ballata canonica udiamo clangori elettrici lancinanti (“Melt Down The Knives”), il pacato flusso di un banjo finisce per essere sopraffatto da una drum-machine insistente (“We Belong”), la freschezza di una graziosa canzone pop ci concilia la felicità (“Carry Me Up To Smell Pine”).

Il rullante di una batteria palpita fra le righe di una voce sussurrata e poi urlata (“A Fire To Sleep In"), cori e note di chitarra si mescolano alla rinfusa su un tappeto di battiti e sospiri (“Fafafa”), una coppia di canzoni unita da un legame fatto di passione e incanto sfuma in una conclusione placida e mistica (le due gemme di folk-pop contaminato “Poirot” e “Lies”).

Fra le più fantasiose e succose proposte del mercato indipendente europeo, “Clangour” si dimostra fulgido esempio dalle molteplici interpretazioni. La curiosità e le aspettative per il successore sono elevate, la possibilità che ne venga fuori un qualcosa di inedito sono molto alte.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana