domenica 30 settembre 2012

LHF: "Keepers Of The Light" (Keysound Recordings, 2012)















Fin da quando il genere elettronico ha iniziato a spaccare in due il mercato discografico, le opere monolitiche si possono contare sulle dita di qualche mano. Viene in mente, uno su tutti, il capolavoro, vera e propria bibbia dell'arte del remixing, “The Tenth Anniversary Collection” dei Masters At Work, nome d'arte di due personaggi di capitale importanza come Louie Vega e Kenny “Dope” Gonzalez. Quest'esempio serve solo a rendere l'idea dell'imponenza cui siamo di fronte con “Keepers Of The Light”. Altro elemento per rendersene conto è la definizione del “genere”. Con la scorciatoia “elettronica” si è voluto evitare una lista di generi e sottogeneri infinita, fra cui si può includere dubstep, post garage, jungle, breakbeat, soul e influenze jazz. Ciò che il collettivo LHF ha voluto esprimere con i due cd, i cento quarantaminuti e le ventisei tracce è un qualcosa di forte, stentoreo, se si vuole esagerare, epocale.

LHF vuol dire Amen Ra, Double Helix, No Fixed Abode, Low Density Matter, Octaviour, Escobar Seasons, Solar Man e Lumin Project. Elementi di un super collettivo segreto che da tre anni inonda la nostra mente con ascolti alieni, mischiando sacro con profano e tradizione con innovazione. Fra i vari componenti solo alcuni appaiono nei crediti come produttori, infatti le tracce vengono spartite in maniera più o meno omogenea, con una preponderanza del lavoro di Double Helix e Amer Ra. Il materiale qui presente raduna canzoni già uscite sui tre singoli “Enter In Silence...”, “The Line Path” e “Cities Of Technology”, con l'aggiunta di altre quindici mai pubblicare ufficialmente.

Addentrarsi in “Keepers Of The Light” è un po' come sedersi e ripercorrere la propria vita passata su pagine di diario ingiallite. Per un appassionato di elettronica questo disco è una festa fatta di dolci sogni nostalgici, emozioni straripanti e incontenibile piacere. Ciò che si percepisce è la volontà di plasmare una materia viva e nuova, magari in alcuni frangenti sconnessa e verbosa, una musica nuova, magmatica e  avvolgente. Plastica e macchine, fondendosi in una sinfonia lunga due ore abbondanti, mischiano bassi tellurici, synth taglienti, visceralità urban e nebbie, in un flusso sonoro che è per sua natura cinematico. LHF racconta una storia lunga decenni attraverso un'operazione di sintesi che forse rimarrà nella memoria per la sua sfrontatezza e il rumore ingiustificato. Tuttavia l'album sale ascolto dopo ascolto, richiedendo pazienza e sudore, le stesse qualità che i musicisti hanno impiegato per offrirci tale bellezza.

Fra i tanti episodi piace ricordare le sconnessioni ritmiche con i segnali di una radio indiana in “Indian Street Slang” e “Sunset (Mumbai Slum Edition)”, le fluenti delicatezze jazzy style (l'immacolata dolcezza di “Blue Steel”, il rullante infuocato in “Questions”), magiche sferzate breakbeat (“Supreme Architecture”), oltre ai tagli techy di classe innata (gli stomp di “Akashic Visions”). Ma è davvero arduo arrivare all'essenza di un'operazione dettagliando traccia per traccia, a costo di risultare poveri di definizioni la cosa migliore è lasciare la parola alla musica. Con i frangenti finali l'album scioglie le tensioni in un brodo primordiale densissimo e acido, fra cui spiccano il procedere marcio e stentato di “Inferno”, le effusioni cinematic di “Voyages” - macchiata da brandelli classici campionati -, e il bollore inesploso della conclusiva “One Toke Wonder”, un frullato midtempo segnato da sporcizie varie.

È quasi impossibile determinare la portata dello sforzo creativo degli otti inglesi, i quali non si risparmiano e danno alle stampe un qualcosa che esce fuori dai binari da ogni punto di vita. Forse distinto da urgenza espressiva efficace quanto annichilente, “Keepers Of The Light” mette un punto ben marcato sulla linea retta cronologica della storia dell'elettronica.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 23 settembre 2012

Giulio Aldinucci: "Tarsia" (Nomadic Kids Republic, 2012)
















Messo temporaneamente in soffita il progetto Obsil, Giulio Aldinucci pone in copertina il suo nome di battesimo per una nuova uscita discografica. Sempre contraddistinta da una grazia inusitata, la musica del senese si colloca nei pressi di un'avanguardia sempre più peculiare e caratteristica. Devoto ai suoni dell'ambiente e della terra, l'artista concentra in questo album tutte le qualità dei suoi precedenti album a nome Obsil con un tocco di personalità in più. Dopo aver cambiato varie etichette, il nostro approda alla mini-label Nomadic Kids Republic, piccola realtà creata e gestita da Ian Hawgood.

Con l'uso sapiente e misurato di field-recording rurali ed essenziali, la natura primordiale della sua musica viene confermata dal titolo. Come spiegato dallo stesso autore in un'intervista radiofonica, il titolo “Tarsia” è ispirato alla tecnica dell'intarsiatura. Nello stesso modo con cui centinaia di anni fa pazienti artigiani del legno usavano tale metodo per realizzare opere stupefacenti, il musicista elettronico sovrappone, con la stessa capacità di giustapporre, fini strati di suono per comporre la sua musica. Ed è una naturale conseguenza il fatto che tale termine e ciò che evoca, sia il perfetto corollario per immergersi in un disco che trasuda autenticità e distensione. Suoni che vengono dall'aldilà donano pace interiore con metodi mai violenti, rivelando il lato gentile dell'avanguardia e dimostrando che la musica sperimentale può e deve essere godibile anche da orecchie non avvezze a tali melodie.

Tracce l'una fusa all'altra compongono un unico bozzetto naturalistico vivido, semplice, dalla forza interiore che sfiora il mistico. Con il picco di ispirazione nell'immacolato procedere di “Pianura (con gli occhi di F.”), il compositore toscano approfondisce la sua persona e mostra a noi ascoltatori un mondo tutto suo, a cui noi possiamo accedere bussando, senza far rumore.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana