lunedì 29 marzo 2010

Notwist, 26/03/2010 @ Estragon, Bologna



In una tiepida serata d'inizio primavera, i Notwist celebrano il loro ritorno sulle scene con un tour europeo che ha toccato e toccherà tutta l'Europa centrale. L'uscita di “The Devil, You + Me” aveva scosso dal torpore i fan del gruppo che attendevano il seguito di “Neon Golden” da ben sei anni; l'annuncio di ben quattro date italiane ha contribuito ulteriormente ad accendere gli animi e incuriosito chi ha sempre desiderato ascoltare dal vivo gli splendidi ricami pop della band teutonica.

Mescolando passato e futuro, il gruppo propone un concerto solido, vario, emozionante. Non c'è concessione alla melodia facile, né un'esecuzione calligrafica delle canzoni, bensì una reinterpretazione personale e spiazzante. Code strumentali robuste, divagazioni al limite della cacofonia e spiazzanti momenti di intrecci chitarristici, rivelano le origini punk di un gruppo che è partito con due album hardcore figli dei fondamentali Hüsker Dü. Questa scelta di spersonalizzare l'appeal intimistico e racchiuso della canzoni originali per proporre un approccio aggressivo e sfrontato, non snatura l'assenza della loro musica, bensì fa decollare il concerto in un tripudio di emozioni. La forza espressiva assale con tale forza da permettere all'ascoltatore di entrare in completa empatia con ogni frangente.

La formazione è composta da sei musicisti fra cui ovviamente il corpo centrale della formazione: il cantante e chitarrista  Markus Acher, l'addetto agli aggeggi elettronici Martin Gretschmann e il bassista Micha Acher. A loro si aggiungono un batterista, un tastierista e un addetto allo xilofono. L'affiatamento reciproco si nota da subito ed è fantastico percepire la sintonia e l'intesa che c'è fra i componenti, tutto è così ben studiato da risultare simbiotica la perfezione con cui i vari compiti vengono svolti. L'aneddoto più divertente in termini puramente tecnici è la modalità di esecuzione di Martin Gretschmann, il quale genera flussi elettronici attraverso l'uso di due Wii Mote, i controller della console Nintendo Wii. Probabilmente questo artifizio è possibile grazie alla realizzazione di un oscillatore sensibile ai movimenti spaziali dei due satelliti, con i quali si riesce ad estrapolare suoni dalle tonalità varianti.

C'è spazio per l'emozionante incipit dell'ultimo album, eseguita con lodevole personalità (“Good Lies”), si canta con il cuore in gola uno dei pezzi più conosciuti, forse il punto più alto della loro carriera (“Pick Up The Phone”), per giungere alla splendida “Chemicals” (estratta da “Shrink”), un capolavoro di astrattismo elettronico e sensibilità pop. Effluvio di sensazioni scroscianti fra classici ormai diventati inni di un'era di disillusione (la toccante nenia “Gloomy Planets”, la psichedelia storta di “Neon Golden”), scosse telluriche condite da schizofrenia al limite di un dance-rock onirico (la tambureggiante “This Room”, l'ossessiva “On Planet Off”, singulti techno-pop in “Where In This World”), tenere carezze folk irrobustite da inserti ritmici (le gocce di melodia intimistica di “Sleep”, il gioiello pop “Boneless”). Sono solo dettagli se al cospetto di “Consequence” la commozione e ovvia e giustificata, l'ultima traccia di “Neon Golden” è anche fra le ultime  eseguite, chiosa ideale fra solfeggi di chitarra e singulti elettronici semplicemente immacolati.

La sensazione complessiva durante e dopo il concerto è quella di essere al cospetto di signori musicisti e non componenti di un'ondata modaiola di musica in voga per una sola stagione. La solida qualità del ritorno discografico, unita a un live che rasenta la perfezione sotto tutti i punti di vista, è prova della reale entità non solo del gruppo, ma di tutta l'ondata intorno al fenomeno dell'indie-tronica (compresa tutta l'elettronica non di genere uscita in quegli anni) che intasò il mercato discografico indipendente intorno al 2002.

martedì 9 marzo 2010

Voks: "Astra & Knyst" (2009, Dekorder)



L’album d’esordio del compositore danese Mikkel Moir è una piccola giostrina di suoni e minuscoli circuiti elettronici. Nato e cresciuto a Copenaghen, l'artista propone una manciata di composizioni decisamente inusuali e difficilmente definibili. La base della sua musica è una profonda immersione nel folk e dunque nel folklore di musiche che profumano di est, ma sanno essere cosmopolite ed eterogenee. La fusione di queste radici con un uso discreto dell'elettronica porta a fare paragoni con artisti come Zavoloka, alla luce del risultato trasversale. L'attitudine al ritmo forsennato ma delicato, quasi infantile, contribuisce a mischiare ulteriormente le carte, con un risultato a metà fra sperimentazione decostruzionista e pennellate pop.

Siamo dinanzi a un affresco vivace la cui estetica punta dritto a infantilismi folcloristici d’ogni sorta. Assistiamo a una brillante commedia il cui copione è costantemente triturato da burle acustiche, lanciate sul palcoscenico senza badare al suggeritore di turno, o a una tarantella moderna la cui ritmica assume andature birichine, collodiane. Imbattersi in dischi come “Astra & Knyst” equivale a farsi sedurre senza volere. Difatti, il paradosso immediato è che più ci si avvicina e più ci si rende conto di aver completamente fallito, immersi inconsciamente in un immaginario strumentale fuori dal coro, fuori dal tempo.

Ciò che traspare, fin dai primi rintocchi analogici, è un'attitudine virtuosa a intrecciare tele elettroniche di fattura volutamente grezza. Matrioske che danzano felici in qualche piazzale moscovita (“Kinak“, “Kreds“) o mere girandole di introiezioni elettriche di stampo circense (“Tonkmaskine”). Non vi sono pause. La corda gira, gira e conduce i sensi lontano da ogni forma di percezione visiva concreta, intuibile. L’ incanto è dover seguire questa scia di rumorini impazziti e lasciarsi cullare da tutta una serie incontrollata di tastierine psicotiche, che improvvisano ora inediti valzer (“Kakla“), ora coreografie naif apparentemente prive di uno schema precostituito (“Klap Dingdot”).

Banjo mandati in orbita con percussioni metalliche di contorno (“Astra”), organi elettronici che rimbalzano come palline nel flipper (“Krat”), nenie folk-troniche che richiamano i maestri del genere (“Pistol”), fra cui il giapponese Lullatone: non c'è limite alla fantasia, anche quando si spinge sull'acceleratore della sperimentazione (i loop arditi di “Tromle” e “Papirmekanik”, le chincaglierie stentoree nella conclusiva “Knyst”), mentre l'introduzione di suoni propriamente elettrici scuote il tono generalmente ovattato (la chitarra elettrica sclerotica in “Tonkmaskine”).

Siamo di fronte a un prodotto che affronta il tema della fusione fra strumenti acustici ed elettronici con ironia, inventiva e sfrontatezza. Fra umori infantili, sensazioni mitteleuropee e tentazioni avant, “Astra & Knyst” si merita un giudizio decisamente positivo, con la speranza che in futuro il suo autore sappia arricchire ulteriormente il suo teatrino sfavillante.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

martedì 2 marzo 2010

Nightmare Detective [Shinya Tsukamoto, 2006]



comprai il dvd di questo film a natale, rimasto purtroppo sullo scaffale per troppo tempo. ieri sera avevo voglia di una tsuka-ta e dunque mi ci sono messo.

mescolando esperienze passate con nuovi spunti, tsukamoto mette sul piatto nuove ossessioni e stereotipi da spuntare con puntualità certosina.

La trama:

: "All'apice della sua soddisfacente carriera, Keiko Kirishima, una giovane e avvenente detective, decide di farsi trasferire, passando dal lavoro dietro la scrivania alle investigazioni sul campo. Per Keiko, avvezza alla tranquillità della vita d'ufficio, l'impatto con la scena del crimine sarà tutt'altro che piacevole. Nel primo caso che le viene affidato, la giovane dovrà indagare su due suicidi avvenuti in condizioni misteriose. In entrambi i casi, le vittime sembrano essere state uccise in sogno e, sui loro cellulari, l'ultima chiamata era stata effettuata digitando il numero 0. Data la situazione, Keiko e suoi colleghi si vedono costretti a chiedere l'aiuto del Nightmare detective, un ragazzo affetto da forte depressione e con tendenze suicide, dotato però del dono di poter entrare nei sogni altrui."

La componente thriller, l'investigazione e la storia di per sè hanno uno sviluppo classico, lineare, quasi schematico. sono presenti le solite dicotomie care all'autore, come metallo-sangue che risalta in maniera particolare, città-uomo, l'uomo-psiche, la psiche-incubo e così via, tutto un accoppiamento utile per rappresentare l'ossessione di fondo che è lo scontro fra vita e morte.

il succo delle due ore abbondanti qua presenti è ciò che non si vede, o meglio, ciò che si vede ma è solo accennato. Il suicidio, viatico per la resurrezione e consapevolezza di vita, diventa strumento per mostrare le zone più recondite dell'animo umano. risulta straordinario come il registra giapponese riesca a plasmare l'essenza di un evento che sancisce la fine (la morte, appunto) portandola a elemento di rinascista. Le vittime non vogliono morire veramente, ma piuttosto "sentire" la morte per poter poi riprendere in mano la propria vita. una variazione del tema davvero stupefacente, fino all'apice dello scontro che sa di metafora freudiana, lo scontro fra "0" e il tormentato ragazzo che entra nei sogni delle persone.

non voglio anticipare niente perchè la visione è la soluzione migliore per penetrare nei temi del film (se ne può parlare dopo, ovviamente), posso solo anticipare che la scala cromatica è la solita fusione fra il freddo grigio della metropoli ansimante e i colori caldi dei flash-back narranti, mentre gli attori sono diretti con straordinaria fermezza e volutamente mostrano interpretazioni quasi apatiche.