giovedì 5 giugno 2008

Andrea Parker: "Kiss My Arp" (Mo Wax, 1999)



non ho mai ben capito se andrea parker, e sopratutto il disco oggetto del topic, sia mai stata famosa o un minimo riconosciuta.

kiss my arp è capolavoro di sintesi, influenze e tensioni, catalizzatore di ritmi e voci provenienti da ambienti fra i più disparati.

dj di grande tocco e finezza (lo dimostra lo splendido dj kicks da lei compilato nel 1998) andrea è un'artista molto taciturna, poco prolifica, capace di lavorare nelle quinte e pur sempre sorprendente.

suo unica vera unica prova sulla lunga distanza (ad eccezione di 'Here's One I Made Earlier' uscito l'anno scorso, raccolta di vecchie registrazioni) le 12 canzoni che compongono questo album si influenzano a vicenda e compongono un flusso melodico di rara compattezza e concisione, capace di instaurare un rapporto empatico con l'ascoltatore dai rari tratti simbiotici.

trip-hop che non è lui e si trasforma in musica colma di sofferenza, nata da inquietitudini urbane, in odor di sensazioni danzerine mai sopite o nascoste.

la gestione delle varie correnti è magistrale: se i pezzi cantati sembrano geniali deviazioni disturbate provenienti da Bristol, gli strumentali, che prevalgono numericamente, si snodano su binari a dir poco inusuali. electro kraftwerkiana che cambia sembianze per diventare ambient luciferina ricoperta da un ritmo che viene fuori a spintoni, devastando la porta principale e per di più senza chiedere il permesso.

l'iniziale Breaking The Code è già un colpo al cuore con la sua enfasi sopra le righe, fra archi celestiali che incespicano davanti ai beats che pullulano i quasi 6 minuti fatti di romanticismo lirico, dolcezze digitali ed emozioni dismesse.

la più pessimista (sia nei suoni che nel testo) In Two Minds possiede capacità d'intrattenimento incredibili; se l'intro splendidamente cinematografico fa da corollario alle parole che verranno, il fiume di lettere che ne consegue balzella indeciso fra i suoni perfettamente calibrati: frammenti di classicità operistica (violino, cello), campionamenti strambi (chissà cosa c'è sotto), splendidi patterns analogici. un duo iniziale che sa di capolavoro.





la potenza di questa manciata di canzoni però è la varietà di sensazioni che non sono disomogeneità scontata, nè confusione amatoriale, ma splendide capacità riassuntive, forte personalità e controllo dei mezzi a disposizione smisurato. il down-tempo scosso e inestriscabile di Clutching At Straws si discosta da stilemi risaputi (non essendo di per sè un difetto avvicinarsi) perchè non è semplice emulazione ma sviluppo e continuazione; l'ossessione per i tagli operistici ritorna con più tatto, in sottofondo. gli squarci digitali provenienti da drum-machine e synth splendono di luce oscura e nebbiosa, sovrastata da rumori e sibili sinistri.

Melodius Thunk percorre tensioni sotterranee pericolose che sanno di colonna sonora per un club a 3000m sotto il livello del terreno, fra frammenti di recitazione gotica (pare di sentire muse misteriose durante lo svolgimento) e certosine concatenazioni ritmiche e strutturali.

Some Other Level ondeggia in senso fisico con i synth che oscillano pericolosamente smossi da ritmi post-techno o post-qualcosa, ciò che volete va benissimo. la fluidità dei suoni è talmente lampante che sembra di sentire la sonorizzazione di una vasca acquatica..

l'epopea elettronica di The Unknown mette in risalto ulteriori capacità in sede di assemblamento timbrico, fra singulti IDM, echi industrial e campionamenti urban. nonostante la composizione superi il limite dei 7 minuti, i secondi scorrono veloci e non c'è il pericolo della prolissità, nè dispersione di idee. il cambio di toni nel finale è testimone di ciò: dalla calma serafica dei primi 6 minuti si passa ad una mitragliatrice digitale da pura crisi epilettica.

estensioni chiarificatrici di questo calderone colorato si posso rintracciare nella successiva Elements Of Style, più accessibile ma enigmatica fino al midollo, o nei tribalismi fumosi di Going Nowhere, splendidamente cantata e recitata ancora da Lei. in quest'ultimo episodio c'è anche un uso sapiente e perfetto delle percussioni acustiche; se in precedenza le macchine prendevano il sopravvento, qua un battito preciso scandisce le frasi che scorrono fra clangori metallici e un groove irresistibile e ipnotizzante.

le strambe fantasie psicotiche di Sneeze (2 minuti di glacialità perfezionistica), sono l'anticamera per Lost Luggage compendio e saggio dell'arte musicale di Andrea Parker. il solito violino contorto fa da apripista ad una serie di percussioni tribali (provenienti direttamente dal dub) che accompagnano la voce, elemento chiave di questo pezzo. non contorno, non mero sostituto di un vuoto ma punto focale. le distorsioni che si dipanano con il passare dei secondi, le stilettate al limite del noise e la ciclicità degli archi sono alcuni degli elementi che vengono a maturare all'interno di 7 minuti, lucenti e ombrosi al tempo stesso.

gemella di sangue è la successiva Return Of The Rocking Chair, opulenta e inesorabilmente dilatata, capace di contenere tutto e niente nello stesso istante. la dolcezza della voce si scontra con beat pachidermici, frammenti di stabilità classici si corrodono al cospetto di una bass-line possente. il pathos graduale e calcolato dell'interpretazione canora è da appluasi, si arriva in fondo con il groppone in gola tanta è la tensione incamerata nei minuti precedenti; lo sfogo in corrispondenza dell'urlo finale è d'obbligo.

la conclusione spetta alla turbolenta Exclamation Mark!, marcio pattume elettronico inebriato da tentazioni concrete, chiusura adatta e progressivamente sbriciolata.

masterpiece.