lunedì 18 maggio 2009

Camera Obscura: "My Maudlin Career" (4AD, 2009)



L’arrivo della freschezza primaverile necessita di suoni frizzanti e solari, a tal proposito la nuova prova di Camera Obscura esce nei negozi nel momento più propizio. Il precedente “Let’s Get Out Of This Country” aveva condito la calda estate del 2006 con la sua variopinta collezione di intoccabili canzoncine pop, chiudendo il cerchio di una compiutezza stilistica tracciato dalla band fin dalla prima prova rilasciata nel 2001. I tre anni che separano “My Maudlin Career” con il predecessore sono stati spesi girovagando per il globo, proponendo concerti esplosivi e decisamente divertenti. La performance del luglio 2008 a Bologna ne è un esempio lampante; l’esecuzione in quel caso fu precisa e rispettosa verso gli originali con rimaneggiamenti che coinvolgevano lunghezza e cantato.

Lasciata intatta la formula a base di country-pop scanzonato, il gruppo riversa tutte le sue potenzialità nelle nuove undici canzoni con dedizione encomiabile. Melodie incontenibili centrifugate con una ritmicità innata, arricchite dalla voce profonda di Tracyanne Campbell, leader affermata del gruppo e chitarrista d’eccellente versatilità. Senza accusare apparenti crisi d’identità o d’ispirazione, l’usuale teatrino prende il via senza indugi.

Arrangiamenti classici condiscono con la loro magnificenza una struttura ben collaudata (la bellezza immacolata dell’incipit “French Navy”, i vortici irresistibili di “The Sweetest Thing”), chitarre polverose e un testo da leggere sono gli elementi degli episodi più scarni (l’afflato romantico di “Away With Murder”, un rullante accarezzato scuote gli animi in “James”). L’eterogeneità  permette cambi di tono molto decisi, utile per non appiattire eccessivamente lo scorrere dei brani. Questa scelta aiuta ad apprezzare sia i frangenti propriamente pop, come del resto quelli con un andamento più posato. Cogliendo con casualità troviamo gemme appartate dal sapore malinconico (il piglio strascicato di “You Told A Lie”, la solarità magniloquente in “Careless Love”) e singoli dalla forte impronta radiofonica (i toni sopra le righe di “Swans”, la title-track, flemmatica e carica di tensione).

Dopo un duetto all’insegna dell’essenzialità (chitarra-voce per “Other Towns And Cities”, il racconto per un road movie in riva al mare di “Forests And Sands”) conclude il disco una fanfara fiatistica in perfetto stile big band, attimo che suggella la conclusione con grande pathos (“Honey In The Sun”).

“My Maudlin Career” mette in campo una genuinità pop a cui non si possono muovere critiche, ogni tassello è al posto giusto, inoltre il tocco di varietà dona al disco un appeal irresistibile. L’unica colpa che si può imputare al collettivo riguarda l’apparente staticità del percorso evolutivo, tuttavia scrutando a fondo ogni singola canzone si possono scovare motivi d’interesse non indifferenti. Le stagioni scorrono e i colori tardo primaverili si concilieranno al bacio con le undici canzoni qui presenti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Barbara Morgenstern: "BM" (Monika, 2008)





La carriera solista di Barbara Morgenstern giunge a compiere dieci anni con il rilascio di un album passato in sordina fra gli appassionati. Fin dalla pubblicazione, sul finire del 1997, del primo mini-album intitolato “Plastikreport”, l’artista ha sviscerato una materia trasversale, mescolando inclinazioni di tipica matrice tedesca (techno) con la sopraffina precisione del pop maturo dei grandi autori europei. Capaci di attraversare tendenze assorbendone le qualità, per poi abbandonarle subito dopo, le sue produzioni si sono distinte per una continua ricerca melodica, ritmica e tonale. La sua voce, attorniata da suoni secchi e concisi, riesce nell’impresa di far risultare piacevole il cantato in tedesco, usualmente non molto apprezzato al di fuori degli appassionati della lingua teutonica. Un’ugola dolce, minuziosa, a tratti perfino presuntuosa nella sua ricercatezza.

“BM” riassume e concentra tutti gli elementi della musica della Morgenstern compiendo un ulteriore passo verso la definitiva consacrazione. Se un disco come “Tesri”, in coppia con Robert Lippok, si faceva apprezzare senza esagerare, ancorato com'era ai canoni del pop elettronico tedesco, le nuove canzoni si slegano da un contesto risaputo per sbocciare in un campionario rigenerato da una revisione completa dei dettagli compositivi. L’uso dell’elettronica viene dosato con perizia, senza sovrabbondare, per decorare gli acquerelli della chitarra o del piano, evidenziando impegno e cura dei particolari. Le progressioni, spesso usate per sviluppare la trama melodica con delicatezza e tatto, sono un metodo sempre efficace, soprattutto negli episodi pop con una durata superiore ai cinque minuti. Da premiare su tutta la durata le splendide partiture di piano, mai troppo magniloquenti né invasive, raffinate e perfettamente calate nella fine atmosfera delle tracce (esemplare lo strumentale “Für Luise”, come del resto il piano-pop “Camouflage”).

Tutti questi componenti vanno a formare un puzzle difficilmente ripetibile, un vero mosaico realizzato a regola d’arte.

Policromie d’alta scuola si intersecano con risultati a tratti superbi (l’intreccio fra tastiere e piano di “Driving My Car”, duetto fra chitarra e vibrafono in “Come To Berlin”), il ritmo spesso nasce dal niente per poi tramutarsi in un’esplosione timbrica quasi orchestrale (da manuale “Reich & Berühmt” e “Deine Geschichte”). Il perfetto connubio fra classicità e moderno approccio al songwriting splende in tutto il suo fervore, giungendo a una quadratura del cerchio senza sbavature.

Gocce di melodia oppressa si distendono con risvolti ombrosi (la rarefatta “Jakarta”, le gracili strutture di “Hochhau”), l’acidità electro funge da diversivo per la parte centrale dell’opera (il techno-pop indomabile di “Morbus Basedow”, la corta “My Velocity”). Da incorniciare le tenere scuciture minimaliste della composizione senza voce che chiude il disco, un vago miscuglio di improvvisazione cameristica e sinistre influenze dark-ambient.

Rimasti altri colpi di coda dal sapore amarognolo (fendenti di violoncello in “Monokultur”, svisate avant-pop su “Meine Aufgabe”), non resta altro se non plaudire l’essenza di “BM”. Nonostante siano passati diversi mesi dall’uscita dell’opera, risulta doveroso riconoscere i meriti della Morgenstern, arrivata a un punto cruciale del suo percorso artistico, con un album che getta le basi per sviluppi ancor più sorprendenti.

(7,5)

recensione di alessandro biancalana

lunedì 11 maggio 2009

Harmonic313: "When Machines Exceed Human Intelligence" (Warp, 2009)



Quando le macchine superarono l'intelligenza umana: un titolo programmatico. Un manifesto, quasi. Gli strumenti che prendono il sopravvento, la tecnologia che vince sul tecnico, la creatura che fagocita il creatore. Sarebbe lo scenario perfetto per un film sci-fi anni 80, oppure per un fumetto di Miguel Angel Martin. Invece, il futuro cupo e senza speranza lo racconta un disco, il primo sulla lunga distanza di Harmonic 313, moniker dietro al quale si cela Mark Pritchard (compagno storico di Tom Middleton nei Global Communication, aka la storia dell'elettronica anni 90). E lo racconta coniugandolo in una lingua nuova, la lingua della cultura underground londinese, la lingua dell'emergente wonky beats, o qualsiasi altro nomignolo si voglia puntare su questa realtà figlia del dubstep e dell'hip-hop, nipote della jungle e della drum'n'bass. Praticamente, un bombardamento a grappolo di bassi grassi, profondi, quasi senza soluzione di continuità, su cui l'artigiano Pritchard costruisce il proprio castello di beat e melodie al synth, con un mood tra breakbeat e house.

Ascoltando il disco, la prima immagine che viene in mente è la copertina: quel ghigno robotico che non è nient'altro che un artefatto della nostra mente, mentre ci fissa algido e impassibile nella sua incontestabile logica. Ce lo immaginiamo mentre pronuncia l'intro di "Word Problems", a metà tra reale e virtuale; oppure mentre supera definitivamente l'intelligenza umana scoprendo le emozioni, così diverse però dalle nostre, quasi delle fredde sequenze di dati da analizzare secondo una prassi precisa ("Falling Away"). Perché per la durata dell'intero disco, Pritchard racconta la propria storia futuribile con una capacità cinematografica impressionante, come se al posto delle parole ci fossero i synth storti, al posto della punteggiatura i beat e le bassline.

L’assetto privo di aperture prettamente melodiche, relegate al sottofondo o martoriate con veemenza, riduce il contatto con l’ascoltatore che si limita ad assistere ammutolito. La perizia della resa glaciale dei suoni è a tratti superba (la progressione matematica di “No Way Out”, i contraccolpi sonici presenti in “Cyclotron”), il complesso intreccio di partiture compositive raggiunge risultati disorientanti (stratificazioni multiple per “Köln”, le colorazioni variegate della pimpante “Galag-A”).

Il ritmo incalzante e adrenalinico prende piede forgiando cortocircuiti digitali ossessionanti, sotto forma di hip-hop (“Battlestar”) o di piccoli divertissment da un minuto (“Cyclotron C64 Sid”).

L’anima di questa musica, avulsa da un contesto empatico, mostra tutta la sua impassibilità con sfrontatezza e distacco, silurando il fruitore con ritmiche scheletriche e suoni aridi (esemplare “Call To Arms” e soprattutto “Flaash”). Risulta sterile o quantomeno cavilloso ricercare una definizione per un agglomerato di bit così perfettamente impastato (i sei minuti di “Quadrant 3” sono quanto di più indefinibile), lasciando da parte il lato analitico per un momento, va privilegiato un ascolto disincantato e attento.

Viene da chiedersi se le macchine riusciranno mai a sostituire l'uomo, se sia proprio la tecnologia che creiamo la prossima tappa dell'evoluzione. A questi quesiti Pritchard non dà risposte, cerca solamente di narrare un racconto futurista (e futuribile) musicale; e come i grandi autori, lo fa utilizzando i mezzi espressivi e comunicativi del proprio periodo.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Mattia Braida

AGF/DELAY: "Symptoms" (Bpitch Control, 2009)




Lo scrosciare di un tuono irrompe un attimo prima dell’incessante beat in apertura di album, in un’atmosfera lugubre e ottenebrante, che occlude ogni spiraglio di solarità pop. Ad accogliere il nuovo sodalizio del duo, coppia ormai anche nella vita reale, è la BPitch Control di Ellen Allien, etichetta che nel nuovo anno ha già licenziato l’ottimo “Immolate Yourself” degli sfortunati Telefon Tel Aviv. Dalla pubblicazione di “Explode” sono passati quasi quattro anni, lasso di tempo in cui Agf ha proseguito un personale tragitto di sperimentazione, incentrato sull’uso estremo della “voce” e degli ambienti (sonorizzazione di chiese, effettuata anche a Milano per audiovisiva), scarnificando l’elettronica ed elevandola a pura ed essenziale entità algebrica. Vladislav Delay, dal canto suo, ha fatto del minimalismo sonico il suo marchio di fabbrica, decorando le proprie creazioni a colpi di beat soffusi in salsa dub-ambientale.

Nella sua essenza multiforme, "Symptoms" gioca a stupire l’ascoltatore, mutando continuamente la sua natura, transitando con disinvoltura fra lidi mai troppo distanti fra loro: synth-pop, trip-hop, dub-techno. La quantità di riferimenti stupisce fino a un certo punto, ciò che davvero salta all’occhio è la padronanza con cui questi elementi vengono fusi fino a raggiungere un livello di coesione complessiva mirabile. Laddove in “Explode” emergeva sostanzialmente un suono scarno e gelido, la situazione in “Symptoms“, almeno parzialmente, evolve. Non più, o non solo, secche sezioni ritmiche, impasti krauti aggiornati al nuovo millennio, magie elettroniche ghiacciate provenienti dal Polo Nord. Il nuovo corso si orienta verso lande decisamente più tiepide, tra minimalismo, reiterazioni sonore ed elettronica avvolgente, rumorosa, talvolta sedotta dal dancefloor.

L'iniziale “Get Lost”, che pare uscita da un disco qualsiasi dei Massive Attack, si sgancia dalle produzioni dei due per proiettarci in un immaginario timbrico molto vicino al trip-hop dei tempi migliori, in bilico col dub. I fendenti astrali che adornano il motivo di “Connection” sembrano giungere direttamente dal Sol Levante. E’ impossibile mantenere il controllo all’ascolto di un algido rimbombo ritmico (“Downtown Snow”), i fantasmi del down-beat più acido emergono tra sinistri presagi futuristi e immaginifiche scuciture melodiche (“Outbreak”). “Generic” ripropone sincopi minimal-techno, anticipando “Most Beautiful”, capace di rimandare a quel pop elettronico brumoso di cui gli Air sono maestri.

Reiterazioni oppiacee ammorbano un’atmosfera già tutt’altro che rassicurante (la splendida voce granulosa di “Bulletproof”, momenti di stasi glaciale in “Second Life”), ispirando derive digitali in forma di racconto errante (la lunga e ipnotica “Congo Hearts”).

Se acidi momenti sintetici non deluderanno gli amanti del synth-pop (la title track e “Smileway”), la conclusiva “In Cycles” riesce a sposare Fennesz a un gusto tutto nordico nel cesellare groove regolari ma quantomai trascinanti.

Artisti acuti e sapienti manipolatori della materia sonora, i coniugi Ripatti consegnano nelle mani del pubblico un’opera di pop futurista difficile da accogliere e soprattutto da comprendere, implosione definitiva dell’inquietudine urbana e rappresentazione pessimistica di un mondo non troppo lontano.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

Asobi Seksu: "Hush" (One Little Indian, 2009)



Nel momento in cui una formazione musicale ottiene consensi quasi unanimi, si possono ingenerare aspettative smisurate. Quando “Citrus” iniziò a circolare per i negozi, gli Asobi Seksu erano ancora una band per lo più sconosciuta, con alla spalle un discreto esordio omonimo passato inosservato. L’estetica azzeccata (dimessa e non troppo cool) e i concerti incontenibili hanno contribuito a farla uscire da questo torpore mediatico, trasportandola sul piedistallo della fama, più o meno di nicchia. Passati tre anni da questo bagno di notorietà, è maturata una spasmodica attesa per il terzo disco. “Hush” è quanto ci aspettavamo, ma fino a un certo punto.

Le dodici tracce contenute in questa nuova prova presentano un collettivo diverso, forse maturato, progredito verso nuovi orizzonti.

In primo luogo, balza all'attenzione la mutazione della voce di Yuki Chikudate. In passato i suoi vocalizzi angelici fondevano purezza lirica tipica delle cantanti giapponesi e un uso massiccio dell’amplificazione per produrre un eco spropositato e ottenebrante. “Hush” cancella quasi totalmente questi punti di forza, normalizzando il tutto con una registrazione purificata, senza trattamenti successivi. A seconda dei gusti, questa scelta potrà essere condivisa o meno, in ogni caso siamo di fronte a un livellamento rischioso. Il contorno strumentale riceve lo stesso trattamento. Le chitarre si fanno cristalline e precise, i muri di rumore onnipresenti di “Citrus” scompaiono quasi in toto, la sezione ritmica evolve verso un andamento meno incessante.

Siamo dunque di fronte a un disco monotono, scialbo e banalmente normalizzato? La risposta è no, perché i quattro ragazzi hanno ancora dalla loro una grande capacità: saper scrivere belle canzoni. Se da un lato la trasformazione risulta un po’ indigesta, la materia prima rimane solida e presente.

Fiabe pop dolci danno il via all’opera con un piglio malinconico (“Layers” spezza l’attesa vigorosamente, “Familiar Light” splende di un fascino infinito), un sapore naif ricopre e colma lacune d’atmosfera (“Mehnomae” è bella solo a metà, “Gliss” recupera sul finale), le esplosioni sul finire sanno regalare emozioni pulsanti (“Sing Tomorrow’s Praise” tambureggia implodendo,  “Sunshower” si compiace con il solito tocco). Dopo una coppia di episodi puntigliosi al punto giusto (“Glacially”, "I Can’t See"), arriva il singolo “Me & Mary”, pronto per una radio alternativa dal buon gusto. Segue la conclusiva “Blind Little Rain”, una silente magia pop irripetibile.

Commistione incantata di evoluzioni e punti di forza ormai saldi, “Hush” mette in tavola un lavoro di sottrazione audace ma apprezzabile, percorrendo una strada di mezzo che metterà d’accordo fan esigenti e ascoltatori estemporanei.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Last Days: "The Safety Of The North" (n5MD, 2009)




A due anni di distanza dall’estatico “These Places Are Now Ruins”, Graham Richardson aggiunge un terzo tassello alle sue mutevoli esplorazioni ambientali, indirizzate stavolta verso un nord immaginario, richiamato nel titolo ma anche nelle composizioni, mai così suggestive e dischiuse a suggestioni tanto impalpabili quanto di pronta e immediata fruizione.

“The Safety Of The North” si presenta come l’album più lungo e complesso di Richardson, con le sue quindici tracce e oltre un’ora di musica; si tratta al contempo di un lavoro molto articolato, che insiste sul medesimo percorso di addizione e apertura a nuove sonorità che già caratterizzava il disco precedente, in relazione alla spessa imperscrutabilità dell’esordio “Sea”.

La maggiore apertura si sostanzia qui in una più decisa impostazione elettroacustica nella quale, accanto a flutti ambientali mai così eterei e incantati, affiorano in superficie melodie acustiche non più filtrate dall’elettronica, modulazioni da colonna sonora placide e sognanti e persino una vera e propria canzone, “May Your Days Be Gold”, impreziosita di ulteriore dolcezza dalla voce di Fabiola Sanchez dei Familiar Trees, che qualcuno ricorderà già dall’ottimo album di RF & Lili De La Mora.

Se appunto la presenza di un brano cantato rappresenta una novità assoluta nei lavori di Last Days, è almeno tutta la parte iniziale di “The Safety Of The North” a mostrare un incedere tiepido e sognante, nel quale le stratificazioni tra distinte note acustiche e fondali da raffinatissima ambient orchestrale disegnano brani dall’aspetto solenne e dai toni decisamente smussati.

Accanto alle immersioni in liquide profondità ambientali dai tratti notturni, ancora solcate da note pianistiche e – nella sola “This Is Not An Ending” – da residue distorsioni elettriche, sono invece numerosi i passaggi in cui il nord evocato dal titolo si congiunge con quello emozionante e onirico dei Sigur Rós, sovente evocati nei loro momenti più rarefatti lungo molti brani dell’album e in particolare nell’esile romanticismo della conclusiva “Onwards”.

La struggente malinconia che contraddistingue i titoli delle canzoni indica mestizia e raccoglimento interiore. Esempi come “Your Silence Is The Loudest Sound” o “Fracture” sottolineano con chiarezza questo concetto, concretizzando le impressioni attraverso un impegno contenutistico mirabile. In entrambe le composizioni il docile svolgimento della melodia rende impalpabile il tempo e il suo scorrere, spargendo scintille di emozione con la solita classe. Non si può certo parlare di “stile Last Days”, tuttavia non v’è dubbio che nel corso delle sue tre opere Graham Richardson abbia messo a punto una formula mutevole dal sicuro successo fra gli appassionati.

Non schematizzazioni imbolsite e furbescamente riproposte, ma uno spirito applicato alla fantasia, un profondo rispetto per la serietà artistica. Abnegazione e incanto sovente colgono l’ascoltatore senza preavviso (i contrappunti invisibili di “The Fields Remember My Father”, la grazia lirica dell’imponente suite “Missing Photos”), una docile ma acidula sensazione di solitudine traspare con prepotenza nel finale (l’elegiaca “You Are The Stars”, ma soprattutto la silente “Blue And White Flowers”).

Nonostante l’eterogeneità dei quindici frammenti, la sensazione dopo svariati ascolti è quella di confrontarsi con un unicum sorprendente, una opera compatta e uniforme, un monolite da vivisezionare in ogni sua sembianza con cura e perizia. Non sappiamo se ciò corrisponda all’intenzione dell’autore, in ogni caso il piacere sublime che promana da “The Safety Of The North” è in grado di trasportare in uno stato di immedesimazione empatica rara e accogliente. Proposito quanto mai ambizioso, ma appropriato per i cuori più adusi a questo tipo di percorsi e pure per quelli meno preparati, condotti per mano con sapienza attraverso territori immaginari di grazia avvincente.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

The Bird And The Bee: s/t (Blue Note, 2009)



Poco meno di due anni fa, durante una torrida primavera, giunse all’orizzonte il duo The Bird And The Bee e fu impossibile non tributargli il dovuto plauso. Quelle marcette retrò dal raffinatissimo gusto cosmopolita diedero una ventata di freschezza al panorama pop indipendente, proponendo una formula non nuova ma confezionata da mani esperte. Come già ampiamente spiegato nella recensione dell’omonima prova, il duo affida le proprie basi musicali al sapiente produttore Greg Kurstin, attivo da diversi anni e rinomato per la sua scrupolosità. Al reparto vocale troviamo sempre la dandy-girl Inara George, impegnata a tinteggiare fraseggi vocali divisa fra croonerismo femminile, profondità cristallina e dolcezza cullante.

Rispetto all’esordio, la cifra stilistica è rimasta pressoché invariata, gli elementi che caratterizzavano la loro musica rimangono intatti nel corso delle quattordici tracce. Canzoni varie, incentrate sull’interpretazione poliedrica della George, sorrette da un campionario compositivo inesauribile. Partendo dalle semplici melodie portanti, fino a giungere al comparto ritmico, non è facile trovare frangenti ripetuti o ridondanti. La ricerca di questa estrema forma di eclettismo non sfocia nella disomogeneità, in virtù di una capacità di controllo solida e sicura.

Pare impossibile scegliere un episodio che si erga al di sopra delle altre tracce, la magia scanzonata prende un ampio spazio già dal principio (la deliziosa “My Love”, il synth-pop irresistibile di “Diamond Dave”), sfociando spesso in una forma di racconto più ragionato (le romantiche ballate “Ray Gun” e “Baby”, nervose tensioni sotterranee in “Whats In The Middle”). Quando la vena danzereccia prende il sopravvento, il divertimento è assicurato (il tributo giapponese “Love Letter To Japan”, la commovente “Polite Dance Song”), con derive a metà fra trasfigurazioni robotiche e indole sentimentale (schizofrenia chitarristica in sottofondo per “Meteor”, la contagiosa “Birthday”). Fra buffe cantilene mistiche (l’altalenante “You’re A Cold”, le avvisaglie sperimentali in “Witch”) e un finale appena sussurrato (“Lifespan Of A Fly”), si giunge alla conclusione con la voglia di ripartire dal principio senza attendere un attimo.

Approdata al secondo passo conscia della propria bravura, la coppia propone quattordici perfette canzoni da ricordare, condite dalla classe di un musicista e dalla sbarazzina spigliatezza di una donna d’altri tempi.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Mokira: "Persona" (Type Records, 2009)



I suoni dello svedese Andreas Tilliander sono manifesto di un’intera generazione di produttori elettronici. Dopo le prime opere glitch all'inizio degli anni Duemila, sono arrivate le trasformazioni legate alle produzioni su Type Records, con risultati a tratti decisamente positivi. Sempre ispirati a una forma adagiata e distesa di ambient, i pattern stratificati del musicista svedese colpiscono per la loro semplice bellezza, che nasce da un'operazione di sottrazione a cui si aggiunge un’attenta ricerca tonale ereditata dai maestri del minimalismo.

La musica di Mokira è fatta di distese glaciali finemente perturbate da punteggiature impercettibili (“Lord, Am I Going Down?”), si concretizza nelle trame di colonne sonore per sogni malinconici e profondi (la lunga e fascinosa “Valla Torg Kraut”), raggiunge l’apice del suo potenziale evocativo quando gioca la carta delle tinte oscure (i contrappunti riverberati di “Contour”), si districa con fatica quando mette in campo melodie puramente digitali (i loop poco consoni al contesto in “Oscillations And Tremolo”).

Il silenzio sferzante che solca tutta la durata di “Invitation To Love” sfocia nella struttura ciclica che riprende il via dall’iniziale “About Last Step And Scale”, lunga e progressiva materializzazione di un limbo immaginario. Un espediente già ampiamente usato in passato e di grande impatto nel caso in cui il tutto funzioni in modo scorrevole. La coesione di queste composizioni favorisce una sensazione di esperienza totale, stimolando il fruitore a ripetere l’ascolto.

Nonostante si inserisca in un filone che fatica a rinnovarsi, “Persona” dimostra e conferma la statura di un artista rimasto nel sottobosco per molti anni (da ricordare la sua attività di produttore per molti album della stessa Type). Un’ora scarsa di placide melodie assonnate, solcate da sussulti mai troppo invadenti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Bola: "Fyuti" (2002, Skam)



Darrell Fitton nel giro di dieci anni ha infilato uno dopo l'altro album irreprensibili e sopra ogni critica. tuttavia, a detta di tutti la sua punta di diamante è questo Fyuti datato 2002.

la statura delle composizioni all'interno di questo album vanno al di fuori del semplice artigianato elettronico in voga in quegli anni, qua dentro si può trovare una perfetta sintesi delle tendenze di un'intera decade. rimbalzi ritmici provenienti dalla IDM vengono dilatati da distese down-tempo immacolate, pulviscoli glitch sporcano una struttura finemente architettata da mani che sanno cosa fare e dove farlo. ascolti album come questo e capisci che l'elettronica a questi livelli esula da una realtà meccanica, si fa musica suonata e composta, studiata e autentica *.

tappeti ambientali dal sapore sognante mettono a tacere i toni più sostenuti (l'acquerello multicolore di Vertiphon), la frequenza dei battiti aumenta progressivamente come il battito adrenalinico di un cuore in apprensione (i timbri sinistri di Shoob,e prima, l'incontenibile agitazione ritmica di Tibular Vader poi). la narrazione artificiale si tramuta in racconto robotico (le voci vocoderate di Pae Paoe), la deriva definitiva verso un apocalisse melodica raggiunge la sua vetta con gli ossessivi sette minuti della magnifica Magnasushi. i continui caledeoscopi sfavillanti vanno avanti con le restanti tracce, fra isterismi digitali e una fantasia che non è mera esposizione di estrosità ma ispirazione strabordante (fra tutte spicca Horizophon).

poco conosciuto, per appassionati, o più semplicemente di nicchia, "Fyuti" è un vero capolavoro in cui sono compresi tutti gli elementi per cui un appassionato di elettronica può innamorarsi. da sentire assolutamente.

* giusto ieri sera riascoltavo dopo molto tempo lo splendido Asect:Dsect di Richard Devine, opera collocabile sullo stesso filone di Bola, anche se leggermente più scomposto. da recuperare pure lui e assimilabile ai commenti di cui sopra.