lunedì 28 giugno 2010

Emilie Simon: "The Big Machine" (Barclay, 2009)



Dopo un secondo album più che buono, la bella Emilie Simon torna con una raccolta di inediti a distanza di tre anni. “Vegetal” possedeva un fascino irresistibile, così curato, fantasioso, mai banale. Ad accompagnamento della voce colorata trovavamo campionamenti fra i più disparati, una strumentazione variegata e molta fantasia. Nonostante in Italia non abbia avuto alcuna risonanza, il suo esempio di accessibilità coniugata con la ricerca è stato prezioso.

Questo “The Big Machine” segna un deciso passo indietro per quanto riguarda la peculiarità delle melodie e punta a un appeal decisamente più diretto, con ritmi, accordi e intrecci semplici. Pop pur sempre raffinato, ma non inedito. La sensazione è che la cantante abbia voluto attuare un'operazione di normalizzazione per tentare un minimo di approdo nel mercato internazionale. Il risultato non è del tutto riuscito anche se le va riconosciuta una certa capacità di scrittura. La voce è sempre la stessa, anche se alcuni isterismi di troppo (la pur discreta “Chinatown”) rovinano l'incanto di un'ugola che esprime il suo meglio nei toni pacati e meno incessanti.

Qualche magniloquenza fuori fuoco è eccessivamente edulcorata (le percussioni vagamente orientali di “Cycle”, i fiati e le estensioni vocali di “Devil At My Door”) compensata da episodi frizzanti e positivi (la splendida “Rocket To The Moon”, l'enfatica e movimentata “Rainbow”).
Nonostante l'interpretazione positiva delle canzoni in inglese, quando il francese riprende il sopravvento la magia è purissima (alcuni frangenti di “Fools Like Us”).

Nel complesso siamo in presenza di un'opera probabilmente interlocutoria, tuttavia la qualità c'è e le cadute di stile sono bilanciate da un talento mai oscurato completamente. Da recuperare “Vegetal”, e solo dopo questo, “The Big Machine”, per avere un quadro completo dell'artista.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Seabear: "We Built A Fire" (Morr Music, 2010)
















 Dopo le escursioni soliste del frontman Sindri Már Sigfússon (il carnevalesco progetto Sin Fang Bous), e a tre anni dall’esuberante e convincente “The Ghost That Carried Us Away”, la formazione islandese Seabear torna a farsi viva con un album nuovo di zecca.

Sorprendentemente distribuito anche in Italia (con accluso il godibilissimo Ep "While The Fire Dies"), grazie alla fama dell’etichetta Morr Music, “We Built A Fire” ripropone la mistura di folk-pop corale che caratterizzava l’esordio dei Seabear, tornando a rinfrescare con zampilli primaverili il panorama della musica indipendente. Benché non possa gridarsi al miracolo (così come non era possibile farlo in occasione dell’esordio) ogni nota sembra essere al proprio posto e le composizioni dei Seabear sono sempre pervase da una grande armonia melodica, dovuta al perfetto equilibrio e all’amalgama fra strumenti e voci, pur presentando spesso una velata asimmetria, tanto da non risultare mai troppo scontate o leziose. In particolare, nei pezzi più vicini all’estetica folk, la band riesce a esprimere al meglio la propria personalità, creando toccanti bozzetti bucolici, raffinati e asciutti (“Cold Summer”, “Leafmask”,  “Wooden Teeth”).

Canzoni pop che svettano in volo in un cielo violaceo, ritornelli fulminei e focosi, ritmi vulcanici o rilassati. Tutto ciò si ritrova in “We Built A Fire”: le melodie, a volte semplici e immediate, spesso aggrovigliate e tortuose, seducono con discrezione e lasciano una piacevole sensazione di torpore al loro sfumare. Non c'è monotonia alcuna nel tono generale del lavoro grazie ai numerosi cambi di marcia, spesso nell’ambito dello stesso brano (marcette solcate da trepidanti nenie folk, come in “Fire Dies Down”). Talvolta il tono si fa movimentato e allora è un tripudio di strumenti e voci (i cori che si inseguono in “Softship”, l'iniziale “Lion Face Boy”), mentre le pause melodiche divengono un bagno rigenerante di pace serafica (un piano e poco più per “Cold Summer”, la struggente “Warm Blood”).
L'uso della strumentazione orchestrale, già presente nel lavoro d’esordio, arricchisce la già notevole capacità armonica dei brani, regalando frangenti di assoluto nitore (uno su tutti, la parte centrale di “Cold Summer”).

Avvicinandosi a “We Built A Fire” è forte la sensazione di immergersi in un microcosmo sonoro a sé stante (così come accadeva anche nel solistico “Clangour”): il succedersi dei brani, l’alternarsi di ritmo e lentezza, di aperture melodiche e intimismi acustici ha il sapore di una favola a metà fra narrazioni fantasy e racconti folcloristici provenienti dal lontano nord.
Che ci si trovasse di fronte a ottimo artigianato folk-pop era già chiaro dall’esordio e questo lavoro ne è solo una nuova conferma. E, in un’epoca di produzione industriale e di gusti standardizzati, la presenza di lavori cesellati a mano, con cura, pazienza e tanto amore non può che essere salutata con gioia.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Francesco Amoroso

martedì 1 giugno 2010

The Bird And The Bee: "A Tribute To Daryl Hall And John Oates" (Blue Note, 2010)



In attesa del nuovo album, e reduci dal gioiellino dell'anno scorso (“Ray Guns Are Not Just The Future”), i The Bird And The Bee (Greg Kurstin, Inara George) rendono onore alle proprie fonti di ispirazione con il primo capitolo di questa serie commemorativa. In questo caso, la band in oggetto sono Daryl Hall & John Oates, storico duo che ha riversato per due decenni una musica pop garbata, lieve, decisamente chic.
I meccanismi collaudati all'interno della coppia ormai trasformano in oro ogni cosa, aggiornando le melodie e il tenore delle canzoni originali, donando freschezza e un tocco di brio a un materiale già validissimo in partenza. La sobrietà e la mano di Kurstin in sede di produzione e arrangiamento è coadiuvata dalla voce vellutata di Inara, cantante dotata di toni cristallini e vividi. Tutto è così quadrato, preciso e garbato che pare quasi casualmente deliziosa questa sensazione di perfezione che aleggia intorno a questi pezzi, di cui uno è un inedito, probabilmente anticipazione di un imminente nuovo disco. “Heard It On The Radio” è spumeggiante, gioiosa, il “solito” pop a cui ormai siamo abituati dai tempi della prova omonima del 2007.
Queste nove canzoni sono una lezione di gusto e misura in materia di cover.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana