giovedì 30 novembre 2006

Eisley: "Room Noises" (Reprise, 2005)


















cinque ragazzi, veri e propri adolescenti con gli strumenti in mano.

una questione di famiglia: tre sorelle, il fratellino, un amico acquisito per strada.

la band si forma nel 1997 quando l'età media è intorno ai dieci anni.

passano 5-6 anni in cui il gruppo scrive canzoni, girovaga per l'America a suonare, e, infine, nel 2003 si aggiudicano il "Best New Act Award" dal Dallas Observer.

Poco dopo, i primi EP, e infine, l'anno scorso, il loro primo album.

Room Noises è uno di quei album pop di cui si può rimanere seriamente "scottati". L'ispirazione congiunge le chitarre liquide e la caratteristica voce femminile dei mitici The Sundays, attinge dall'attitudine radiofonica dei Sixpence None the Richer, riprende certi passaggi dei mai dimenticati Bon Voyage.

si parte con Memories. la voce di Sherri DuPree è deliziosamente infantile, lo scheletro ritmico mette insieme quel giro di basso-batteria-chitarra da mozzafiato. Piccoli tocchi di piano, sapiente l'uso della distorsione chitarristica, strappa-lacrime il finale in cui le sole parole lasciano poi il posto al silenzio.

Un singolo pop dopo l'altro, senza una pausa. Ogni canzone è perfetta, calibrata, limata fino al più piccolo particolare. Se Telescope Eyes chiede :"Please, make me cry", lasciando sorpresi per come vengono gestite con personalità le varie influenze, l'essenziale I Wasn't Prepared mostra un'anima docile e pacata della formazione. ancora conferme per l'esecuzione di sherri.

Golly Sandra innesta elementi country nella formula, risultando funzionale e molto ben fatta, sopratutto nell'alternarsi delle voci, accompagnate da un impianto strumentale fantasioso, mai ripetitivo.

Marvelous Things è fantastica con i suoi flussi vocali fuori dal tempo, il rimbombare dei tamburi distrae, l'incedere incessante della chitarra contorna e impreziosisce. altro centro preciso preciso.

Brightly Wounds sembra voler mette a fuoco la direzione stilistica, incastrando insieme, ancora, rigoli di voce, Lost At Sea accentua la componente pianistica, lasciando un'ottima impressione su di sé.

My Lovely è decisamente più rock, sopratutto nei frangenti strumentali, dove le capacità prettamente esecutive dei ragazzi vengono tutte fuori. Just Like We Do è una ballata chitarra/voce in cui le intromissioni del synth sono pungenti e affascinanti.

il terzetto finale propone al principio Plenty Of Paper, un gioiellino indie-pop semplicemente bello, mette al centro One Day I Slowly Floated Away con le sue trovate melodiche inusuali, conclude il disco con la bucolica Trolley Wood, fra battiti di mani, canti spensierati e un ritmo amichevole.

giovedì 16 novembre 2006

Anoice: "Remmings" (Important, 2006)
















ci sono quei dischi di cui ti innamori subito al primo ascolto, che ti capitano nella vita e te la cambiano improvvisamente. ti costringono a farsi ascoltare e tu non puoi farne a meno. poi magari c'è anche legata un'emozione particolare, una promessa, un frangente, delle parole. ed allora è proprio il caso di dire che diventano parte di te, si uniscono indissolubilmente all'animo. questo è per me remmings.

formazione tutta giapponese gli anoice, un'opera venuta fuori quasi per caso, scoperta grazie al consiglio di un amico, mai così amata. le coordinate artistiche si collocano intorno al post-rock dei Rachel's, la genialità di certe composizioni di Arvo part, la magia che possono regalarci i migliori sigur ros.

le canzoni sono 9 e alternativamente c'è un non-titolo, il famoso Untitled.

Untitled 1 è piccolo ricamo melodioso, vaghi tocchi di piano si stagliano sul sottofondo, un'atmosfera sognante, screziata, deliziosamente elegiaca si crea e si dipana progressivamente. Suoni ondulati, delicati. Piccoli tocchi di tastiera sul finale ricamano un acquerello che pare mal definito, appena accennato. Mai così compiuto nella sua incompletezza.

Aspirin Music soppianta il silenzio attraverso una struttura composta da basso, violino, piccoli ricami elettronici. La batteria, sovente, sostiene un minimo di ritmo, si scatena in attimi di panico, si calma con lentezza e tatto. Ed allora le chitarre scappano veloci e impazzite, il piano mette insieme quelle due-tre note che scrosciano violente, gli archi avvolgono con il loro manto sensuale, brandelli di melodia qua e la si presentano con un'apparizione fugace e sfuggente. Ancora, la batteria, concorre e partecipa in un finale pieno di rumore melodico.

Untitled 2 spezzetta e taglia un motivo possibilmente regolare, raccoglie i brandelli rimanenti, li giustappone secondo un ordine non ben definito, li presenta così come sono. Glitch-erie assortite, timbri ovattati, silenziosi. Un ambiente nero e oscuro si figura davanti agli occhi, un piccolo puntino bianco nel cielo rappresenta una stella, l'unico suono che rimane costante fino all'ultimo, stremato, ma sopravvissuto.

Kyoto riprende il discorso strumentale, iniziando il suo corso con un sibilo pungente, si fa accompagnare da una coppia di suoni discordanti, quasi rivali. Se da una parte il piano è scostante e umorale, fra picchi di emozionalità e toni sordi, la tastiera è graziosa, soave. Il sopraggiungere degli altri strumenti assalta l'ascoltatore, visto che i rimbombi della batteria sono aggressivi, il violino lacera con le sue note casuali. ma quella tastiera, la sua tendenza al timbro suadente, aggiunta ora a un altro strumento non ben definito, ora al baccano d'alta quota del suono complessivo, si candida come il componente che fa più tremare il cuore.

Untitled 3 accoppia alla solita partitura di piano dagli angoli ben definiti, un drone ciclico e ripetitivo, ossessionante, le solite due anime messe in contrapposizione, bellissime proprio per questo, bellissimo a sua volta il risultato finale, l'effetto complessivo, attraente e meschino.

Liange è una ballata minimale e crepuscolare, sostenuta da languidi attimi di suono amatoriale e caldo, rassicurante. Il rifugio per ogni cuore disperso.

Untitled 4 incrocia, come due serpenti si attorcigliano con forza, il regolare andamento di una chitarra decadente, e un proliferare di suoni che paiono sibili, scrosci, delizie, punteggiature, virgole, infinitesimali, appena percettibili, importanti proprio perchè minuscoli.

Eppoi arriva il pezzo simbolo del disco, dove la componente emozionale, gentilmente repressa nelle tracce precedenti, si fa viva e straripa con forza impressionante. The Three-Days Blow è un sogno. un sogno che parte piano e si carica addosso sensazioni nascoste, gongola tra un un piano suonato con delizia, note di chitarra ancora lontane e "piene", suoni "ambientali". Il violino, strumento cardine della composizione, inizia adagio, senza fretta. Poi, senza preavviso, inizia la melodia più bella che c'è. Un flusso continuo, che colpisce, non può far rimanere indifferenti, lascia senza parole, quelle che mancano a me per descrivere questi attimi. basta soltanto mettersi in silenzio in una stanza tutta nostra, ascoltare, lasciare andare le note, senza sforzarsi di capire e goderne. Fra attimi di (e)stasi e un finale concitato, in cui tutto il gruppo mette insieme un elemento, ognuno importante in egual maniera, i sei minuti scorrono veloce veloci, depositano sul fondo di ogni mente un sedimento indelebile. Una composizione magistrale, perfetta, amabile.

Conclude Untitled 5, il pezzo più posato e gentile di tutti e 9, dove la solita componente di piano viene affiancata a un'impalcatura elettronica, mai invadente, perfettamente coesa con tutti i suoni che si creano eppoi sfuggono, che appaiono eppoi si dissolvono.

il disco che può seriamente scalzare ogni altra opera presente nel 2006, addirittura anche la mia Caroline, almeno per ora, almeno in questi attimi. spero davvero che tutte queste mie parole possano servire a far innamorare tanti fra di voi.

sabato 4 novembre 2006

Asobi Seksu: "Citrus" (Friendly Fire Recordings, 2006)


















gli asobi seksu sono usciti con il loro nuovo album, ed è una notizia niente male già di per sè.

poi, lo si ascolta anche il disco, e ci si accorge che è bellissimo.

le loro intenzioni stilistiche sono le seguenti: unire coordinate tipicamente legate al rock giapponese (vedi lo Shibuya-kei) con la sensibilità shoegaze, in primis, ma guarda po', i My Bloody Valentine, se non, addirittura, influenze che vanno dalle parti dei Sonic Youth e gli Yo La Tengo.

con una cantante come Yuki Chikudate, deliziosissima bimba piccola piccola, una delizia di ugola, sia quando canta in lingua madre, sia quando si cimenta con l'inglese.

il 2004 era l'anno del loro splendido album d'esordio (omonimo) e da allora son passati due anni in cui i ragazzi son rimasti impegnati nel girare il mondo con i loro concerti, mancando l'Italia, a meno di mie clamorose sviste.

Strawberries è una canzoncina delicata e soffice, le linee chirarristiche sono ovattate e gentili, i vocalizzi di Yuki sono l'elemento caratterizzante di questa musica, sempre sospesa fra la terra e il paradiso. L'esplosione rumoristica, con l'aggiunta di ghirighori elettronici, nel finale, regala ben più di un'emozione.

New Years si getta in un oblio di melodia screziata, Thursday alza il tiro e un manto di rumore assopito ricopre tutta la canzone, con un canto dondolante e bambinesco il quadro è completo.

Strings lascia sfogare un'innata vena sognante, in Pink Cloud Tracing Paper Yuki si dedica alle tastiere, il cantato è affidato a un componente della band, risultando meno incisivo rispetto all'interpretazione della ragazza, anche se il contorno strumentale è pur sempre d'ottimo livello.

Le tracce si susseguono con naturalità soave, dove si fa presente un frangente che sa di cielo e stelle (Red Sea), episodi movimentati e più pop si alternano deliziosamente (Goodbye, Nefi+Girls).

E se all'orizzonte pare esserci luce e movimento, con Lions and Tiger si sprofonda in un'atmosfera di suoni corposi e avvolgenti, la voce di Yuki raggiunge qui la sua massima espressione, in modo particolare negli attimi in cui il volume si alza e le sue parole prendono il volo verso le nuvole.

Concludono, con un garbo raffinato, Exotical Animal Paradise e Mizu Asobi. due perle lucenti e raffinatissime.

un disco che, se ascoltato senza fare caso all'anno di pubblicazione e alle influenze da cui attinge la sua linfa vitale, può lasciar nel cuore attimi di puro piacere, amore, caldo tepore, utile per scacciare il freddo che verrà.

Obsil: "Point" (Disasters By Choice, 2006)














L’etichetta romana Disasters By Choice, già in evidenza per il lavoro di ricerca svolto in passato, messo in risalto in queste sedi attraverso la recensione di Melodium, ritorna a proporre un’opera dalle soluzioni melodiche inusuali e inedite. Questa volta, però, la produzione è completamente italiana. Sì, perché Obsil, l’artista in questione, è un ragazzo venticinquenne nato a Siena nel 1981. Il suo nome è Guido Aldinucci. Folgorato dalla musica fin dalla tenera età (con annessi studi), inizia ad interessarsi in maniera decisa all’elettronica verso la metà degli anni 90’. Immerso in una sperduta e bellissima campagna senese, il suo studio è un piccolo rifugio compositivo in cui sono presenti fra i più disparati strumenti: sintetizzatori digitali risalenti ai primi anni 80’, complessi marchingegni “ibridi” digitale/analogico, attualissime procedure di programmazione Max/Msp. A fianco di una così corposa e certosina cernita dei ritmi giusti da inserire nelle sue composizioni, Giulio si è inoltre interessato a numerosi metodi di sintesi, attività che l’hanno condotto all’esecuzione di registrazioni realizzate “sul campo”. I famosi field recordings, a conti fatti.

Analizzando lo scorrere coeso e fluido dell’opera, si nota una forte presenza del piano, strumento a quanto pare molto caro all’artista. Le note vengono smembrate, scomposte, posizionate su vari piani di esecuzione, rese irriconoscibili con trattamenti d’ogni genere. Una forte propensione alla sperimentazione timbrica, quando attutita da una dolce coltre di melodia spumosa, quando pungente e delirante, dove il caos ordinato la fa da padrone.

Altro elemento molto presente ed evidente, è l’amore per i suoni digitali di vecchia data, presenti un po’ ovunque sia nello scheletro che nel contorno delle varie tracce. Bollicine galleggianti, loop amatoriali e granulosi, scintillio digitale, suoni svagatamente disciolti in un manto di rumore assopito.

L’iniziale “Curtains” è un groviglio complicatissimo in cui confluiscono schizofrenie glitch, flussi sonori sinuosi e ululati digitali. Ogni singolo componente si amalgama con precisione e una sensazione di smarrimento pare essere vicina, se non nel finale, dove alcune note di piano, con l’aggiunta di un suono che pare uno xilofono, ci conducono al termine con una carezza, al posto di un pugno soffocante.

“003, _ou” è meno scomposta e “agitata” della precedente, un soffice letto di synth spumosi cesellano nuvolette nell’aria con dolcezza e tatto, timbri ciclici e soavi si alternano con naturalezza e sapienza. Questo è forse il pezzo in cui è più evidente il lavoro (di riesumazione) svolto sui sintetizzatori digitali risalenti ai primi anni ’80. In alcuni frangenti, si sentono flebili richiami a uno dei pionieri del genere che fu: Jean-Michelle Jarre.

L’infatuazione per i tasti del piano, e per il loro suono, si risveglia puntuale in “ae”, dove i frangenti più significativi (e belli) si concentrano al momento in cui “quei” suoni vengono sbattuti in un contesto composto da cincaglierie puntigliose, punteggiature silenti, scomposizioni minuscole e minimali.

Se “Di Paese” si lascia trasportare da qualche intraprendenza di troppo, rimanendo peraltro funzionale e positiva, l’episodio seguente, “Proteso”, è uno sviluppo interessante delle idee accennate nella prima traccia, una suadente ballata elettronica, nelle cui membra si agitano con fervore anime sonore impazienti di implodere, sempre con la presenza (ormai immancabile) del piano.

“Galgano’s Tree” si barcamena con grande disinvoltura fra una serie di suoni che paiono percussioni (ma forse non lo sono) ed un cespuglio intricatissimo di bleep che si autogenerano, cesellando un’atmosfera vagamente sognante, amatoriale, adatta per un’ambientazione rurale, silenziosa e glaciale.

“Wachzustand” attinge un po’ ovunque fra i riferimenti stilistici descritti nelle tracce precedenti, amalgamando tentazioni synth-etiche con tremolanti influenze avanguardistiche, risultando, a conti fatti, una traccia bellissima e oscura, forse l’episodio più significativo (o rappresentativo) di tutto il disco, proprio perché comprendente tutti i tratti dello stile marcato Obsil.

Le due composizioni successive sono accomunate dal titolo bellissimo: “L’arsa metà dei pini” e “Tremolanti concentrazioni luminose sparse (sui crinali)”. E questo elemento riesce a indirizzare l’ascoltatore alla chiave d’ascolto giusta, dove la prima traccia architetta e costruisce la colonna sonora per un pomeriggio falcidiato dal sole, in mezzo a una foresta (probabilmente di pini), la seconda, è tremante, si concentra in silenzi luccicanti, rimane luminosa, splendente, sempre in bilico fra la dolcezza e il rumore, costantemente sul crinale.

“Sui Tetti” completa e conferma quanto di buono è stato fatto riguardo l’esplorazione e la ricerca dei suoni “dolci” per definizione, contestualizzati in uno scheletro compositivo pur sempre di stampo avant, ma mai disturbante o aggressivo. Ed allora, lasciarsi andare, venir trasportati da questi lievi timbri appena accennati, è facile quanto chiudere gli occhi davanti a un paesaggio bellissimo ed immaginare di spiccare il volo.

In “(Presages)” c’è la voglia di perdere la ragione e fermarsi in un limbo tra paradiso e terra, con il canto degli uccellini, le folate di vento e un fulmine che picchia dall’altro, “Stasi Sui Tigli”, la conclusione, è un’ossessionante sequenza di suoni regolari, precisi, colorati e mirati. Pare di sentire l’acqua che cade incessante, le gocce che sbattono su superfici differenti ed emanano suoni poliedrici, le foglie si scompongono, un animale corre, e staziona sotto una pianta, sì, magari proprio un tiglio.

L’emozione, negli album elettronici, soprattutto in questo campo meno generoso di calore, è una cosa rara, solo pochi artisti sono capaci di regalarla. Pare strano tessere lodi per un esordiente, per giunta italiano e giovane. A fronte di tutto questo, però, Obsil fa musica emozionale, dona sensazioni, fa sognare, con un tocco tipicamente inesperto, deliziosamente appartato nel suo mondo fatto di sogni, capace di lasciar il segno nella mente del più casuale degli ascoltatori.


(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana