sabato 4 novembre 2006

Obsil: "Point" (Disasters By Choice, 2006)














L’etichetta romana Disasters By Choice, già in evidenza per il lavoro di ricerca svolto in passato, messo in risalto in queste sedi attraverso la recensione di Melodium, ritorna a proporre un’opera dalle soluzioni melodiche inusuali e inedite. Questa volta, però, la produzione è completamente italiana. Sì, perché Obsil, l’artista in questione, è un ragazzo venticinquenne nato a Siena nel 1981. Il suo nome è Guido Aldinucci. Folgorato dalla musica fin dalla tenera età (con annessi studi), inizia ad interessarsi in maniera decisa all’elettronica verso la metà degli anni 90’. Immerso in una sperduta e bellissima campagna senese, il suo studio è un piccolo rifugio compositivo in cui sono presenti fra i più disparati strumenti: sintetizzatori digitali risalenti ai primi anni 80’, complessi marchingegni “ibridi” digitale/analogico, attualissime procedure di programmazione Max/Msp. A fianco di una così corposa e certosina cernita dei ritmi giusti da inserire nelle sue composizioni, Giulio si è inoltre interessato a numerosi metodi di sintesi, attività che l’hanno condotto all’esecuzione di registrazioni realizzate “sul campo”. I famosi field recordings, a conti fatti.

Analizzando lo scorrere coeso e fluido dell’opera, si nota una forte presenza del piano, strumento a quanto pare molto caro all’artista. Le note vengono smembrate, scomposte, posizionate su vari piani di esecuzione, rese irriconoscibili con trattamenti d’ogni genere. Una forte propensione alla sperimentazione timbrica, quando attutita da una dolce coltre di melodia spumosa, quando pungente e delirante, dove il caos ordinato la fa da padrone.

Altro elemento molto presente ed evidente, è l’amore per i suoni digitali di vecchia data, presenti un po’ ovunque sia nello scheletro che nel contorno delle varie tracce. Bollicine galleggianti, loop amatoriali e granulosi, scintillio digitale, suoni svagatamente disciolti in un manto di rumore assopito.

L’iniziale “Curtains” è un groviglio complicatissimo in cui confluiscono schizofrenie glitch, flussi sonori sinuosi e ululati digitali. Ogni singolo componente si amalgama con precisione e una sensazione di smarrimento pare essere vicina, se non nel finale, dove alcune note di piano, con l’aggiunta di un suono che pare uno xilofono, ci conducono al termine con una carezza, al posto di un pugno soffocante.

“003, _ou” è meno scomposta e “agitata” della precedente, un soffice letto di synth spumosi cesellano nuvolette nell’aria con dolcezza e tatto, timbri ciclici e soavi si alternano con naturalezza e sapienza. Questo è forse il pezzo in cui è più evidente il lavoro (di riesumazione) svolto sui sintetizzatori digitali risalenti ai primi anni ’80. In alcuni frangenti, si sentono flebili richiami a uno dei pionieri del genere che fu: Jean-Michelle Jarre.

L’infatuazione per i tasti del piano, e per il loro suono, si risveglia puntuale in “ae”, dove i frangenti più significativi (e belli) si concentrano al momento in cui “quei” suoni vengono sbattuti in un contesto composto da cincaglierie puntigliose, punteggiature silenti, scomposizioni minuscole e minimali.

Se “Di Paese” si lascia trasportare da qualche intraprendenza di troppo, rimanendo peraltro funzionale e positiva, l’episodio seguente, “Proteso”, è uno sviluppo interessante delle idee accennate nella prima traccia, una suadente ballata elettronica, nelle cui membra si agitano con fervore anime sonore impazienti di implodere, sempre con la presenza (ormai immancabile) del piano.

“Galgano’s Tree” si barcamena con grande disinvoltura fra una serie di suoni che paiono percussioni (ma forse non lo sono) ed un cespuglio intricatissimo di bleep che si autogenerano, cesellando un’atmosfera vagamente sognante, amatoriale, adatta per un’ambientazione rurale, silenziosa e glaciale.

“Wachzustand” attinge un po’ ovunque fra i riferimenti stilistici descritti nelle tracce precedenti, amalgamando tentazioni synth-etiche con tremolanti influenze avanguardistiche, risultando, a conti fatti, una traccia bellissima e oscura, forse l’episodio più significativo (o rappresentativo) di tutto il disco, proprio perché comprendente tutti i tratti dello stile marcato Obsil.

Le due composizioni successive sono accomunate dal titolo bellissimo: “L’arsa metà dei pini” e “Tremolanti concentrazioni luminose sparse (sui crinali)”. E questo elemento riesce a indirizzare l’ascoltatore alla chiave d’ascolto giusta, dove la prima traccia architetta e costruisce la colonna sonora per un pomeriggio falcidiato dal sole, in mezzo a una foresta (probabilmente di pini), la seconda, è tremante, si concentra in silenzi luccicanti, rimane luminosa, splendente, sempre in bilico fra la dolcezza e il rumore, costantemente sul crinale.

“Sui Tetti” completa e conferma quanto di buono è stato fatto riguardo l’esplorazione e la ricerca dei suoni “dolci” per definizione, contestualizzati in uno scheletro compositivo pur sempre di stampo avant, ma mai disturbante o aggressivo. Ed allora, lasciarsi andare, venir trasportati da questi lievi timbri appena accennati, è facile quanto chiudere gli occhi davanti a un paesaggio bellissimo ed immaginare di spiccare il volo.

In “(Presages)” c’è la voglia di perdere la ragione e fermarsi in un limbo tra paradiso e terra, con il canto degli uccellini, le folate di vento e un fulmine che picchia dall’altro, “Stasi Sui Tigli”, la conclusione, è un’ossessionante sequenza di suoni regolari, precisi, colorati e mirati. Pare di sentire l’acqua che cade incessante, le gocce che sbattono su superfici differenti ed emanano suoni poliedrici, le foglie si scompongono, un animale corre, e staziona sotto una pianta, sì, magari proprio un tiglio.

L’emozione, negli album elettronici, soprattutto in questo campo meno generoso di calore, è una cosa rara, solo pochi artisti sono capaci di regalarla. Pare strano tessere lodi per un esordiente, per giunta italiano e giovane. A fronte di tutto questo, però, Obsil fa musica emozionale, dona sensazioni, fa sognare, con un tocco tipicamente inesperto, deliziosamente appartato nel suo mondo fatto di sogni, capace di lasciar il segno nella mente del più casuale degli ascoltatori.


(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

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