lunedì 26 novembre 2007

Flunk: "Personal Stereo" (Beatservice Records, 2007)



Per chi, in passato, ha dedicato qualche attenzione alla scena down-tempo, sorta nel periodo immediatamente successivo all’esplosione del trip-hop, si sarà sicuramente imbattuto nei Flunk. Dal 2001, la formazione proveniente dalla Norvegia ci propone una musica che vive come una limpida notte buia, appesa come in un canestro a un’unica stella presente in cielo. La personalità della cantante, Anja Øyen Vister, che, memore di incanti passati, divora le emozioni con il respiro e ce le restituisce attraverso flebili linee di voce. Musica per sogni cinematografici, introspezioni registrate con un nastro troppo vecchio per essere fedele, attraverso un marchingegno colto per caso in un negozio dimenticato.

Un po’ tutti erano rimasti stupefatti al cospetto della perfezione formale e estetica di “Morning Star”, in quel caso pareva impossibile muovere critiche, ignorare tanta bellezza racchiusa in una manciata di canzoni; ed infatti, vengono meritatamente estratti un paio di singoli ed utilizzati per alcuni spot. Era il 2004, e sono passati tre anni di quasi completo silenzio. Escludendo album-remix e mega singoli, “Personal Stereo” è il terzo album. Una terza prova pura, che elargisce pace, romanticismo, amore, calore materno.

All’inizio della title-track, timide vibrazioni sibilano forti e sicure, la voce di Anja è rimasta la stessa, candida e delicata, il battito edulcorato lancia schizzi di luce scintillanti. I suoni, circolari, sorvolano leggeri, come se si cercasse di seguire il centro di una giostra barocca descrivendo tante piccole circonferenze, di scatti insoliti nemmeno l’ombra, la ricerca dell’equilibrio melodico ha coordinate ben precise e non muta mai il suo percorso senza preavviso. La strumentazione cerca sempre di non infrangere la delicatezza imposta dal canto di lady Øyen Vister, neanche quando è Daniel Johnston a salire sul cavallo rosa.

“Haldi” è difatti una suadente cavalcatina lounge, tesa a destabilizzare l’impatto con il binomio iniziale, laddove invece a regnare è solo la pacatezza dei sensi. Provate ad ascoltare gli ultimi istanti di “Heavenly” e avrete un’idea ben precisa della frequenza modulata delle pulsazioni presenti nel disco.

In “See You” (rifacimento di un pezzo dei Depeche Mode) l’ugola di Anja è praticamente racchiusa in un’ampolla di vetro, trattasi di una piccola nenia low-fi circoscritta in apertura e in coda da teneri scricchiolii al laptop. Raramente l’inquietudine prende il sopravvento, due gli episodi prettamente malinconici: in “If We Kiss” una leggera angoscia relazionale affonda l’intera struttura, nei suoi scarsi quattro minuti vengono aperte le pagine più tristi del diario di bordo della Øyen Vister, così come è lo stesso insolito tormento ad avvolgere gli andazzi di “Keep On”, sospinta da un lievissimo down-tempo emozionale. “Out On The Weekend” di Neil Young è presa in prestito in “Change My Ways”, seguendo l’esempio luminoso di Justine Electra, la quale campionò un breve tracciato del celebre brano d’apertura di Harvest in Soft Rock, nella spettacolare “Blues And Reds”.

La chiusura dei battenti di questo magico luna park è affidata alla timida  “Diet Of Water And Love”: con essa sembra quasi di poterci addentrare nell’autunnale crepuscolo del meraviglioso scatto/art work del disco.

Con “Personal Stereo” i Flunk hanno acceso dieci piccoli caroselli eufonici posti ai bordi delle ombrose spiagge delle Norvegia, mostrandoci ancora una volta tutto l’incanto di una terra mai così fertile di talenti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Maia Hirasawa: "Though, I’m Just Me" (Razzia Records, 2007)



C’è uno strano magnetismo nello sguardo di Maia Hirasawa a cui è impossibile sfuggire, anche solo per pochi istanti. L’origine di questo incanto sragionato ci viene suggerito dall’incrocio sanguigno tra due etnie diametralmente opposte. Si crea spesso quel "non so che" di turno, dando uno sguardo alle sue foto. Si ha anche modo di pensare che oltre al cocktail genetico, ci sia ben altro ad attrarre la nostra attenzione: da un lato la graziosa umiltà con cui ci vengono offerte queste undici caramelle armoniche, dall’altro è innegabile il talento artistico della svedesina dalle origini nipponiche, la quale ha arrangiato e prodotto tutto da sola, divisa tra la quiete urbana di Sollentuna e la pastorale Skone.

Siamo di fronte a indie-pop di gran classe, non c’è che dire. Maia attraversa i suoi racconti con la leggiadria di chi è abituato a scoprire ogni giorno, tra le proprie mura, al di là della finestra aperta, scenari a dir poco incantevoli. E’ ben presente quella voglia di dipingere le cose con colori pastello mai invadenti, l’utilizzo del chiaroscuro è limitato solo ad alcuni momenti, piccoli angoli di tela dove i raggi del sole non affondano più di tanto il proprio calore. La quotidianità divisa tra amori perduti, intese amicali e introspezioni familiari, trasformata in musica con quella raffinatezza pop che non t’aspetti, sospinta da un’ugola morbida e ammaliante.

La sola “Stll June” potrebbe illuminare l’intera Stoccolma per mesi e mesi, imprigionata fra liriche tormentate da una perenne ansia di fondersi con la voce limpida che le anima. Lucidi come raso sono gli incastri vocali presenti nei filamenti di “Crackers”, una canzone che alimenta fievolmente la felicità inespressa dell’ascoltatore. Serpeggiano nitidi richiami a un amore soffuso, dischiuso con pathos e coinvolgimento (la incontenibile “Mattis & Maia”); rincasando con il sole che cade verso l’orizzonte, un sibilo di malinconia fa vibrare il cuore (“Parking Lot”).

La passione e la sensualità, note dominanti di tutto l’album, raggiungono apici di tensione e tormento, fondendosi assieme con fermezza e fiorente bellezza, caratteristiche, queste, che riescono a far risaltare una originalità inizialmente sopita. Il genere preso in considerazione, seppur fortemente ricalcato da centinata di gruppi negli ultimi anni, riesce a salvarsi dalla banalità grazie a un’interpretazione quasi “carnale”, a una scrittura inappuntabile e a i piccoli particolari che rendono speciale un disco. Tutte qualità che “Though, I'm Just Me” possiede e custodisce, come il diario di un vecchio pazzo scritto e mai disperso dal tempo che scorre.

Senza mai chetarsi, ora infuriata ora implacabile, la voce di Maia ci accompagna durante tutto il percorso. La raffinata sensibilità di “And I Found This Boy” fa tremare le mani e vibrare l’aria circostante, trasformandosi in canzone-simbolo dell’opera. “Star Again” si srotola armoniosa e flebile, fra contrasti vocali (ottimo il contributo dell’amico Anders Göransson) e timide orchestrazioni, arrangiate con precisione e gusto minimale. Splendida e leggermente sopra le righe l'autobiografica “Gothenburg”, che narra il rapporto di amore-odio fra l’autrice e la sua città natale, con frasi come “Trams coming in, there´s wind from the sea. But I don´t feel cold, it´s not shivering me. And I thought I didn´t like this city but I´ve changed”. I cori in sottofondo, come una forte corrente di vento, tagliano in due il silenzio e trasmettono un vago senso di amara rassegnazione.

Esperienze ingenue, trascritte con semplici parole colme di sfumature, nella spensierata “My New Friend”, ritmi sincopati e camaleontici in “Say Goodbye”, fatta di silenzi e contraddistinta da un violino suonato con l’anima. Una narrazione pennellata, soltanto accennata da questi grumi di parole: "To all of these ghosts in your head, there's one sleeping in your bed. And the scariest from home who don´t seem to care. Cause the ghosts in your head, they won´t stop until you're dead".

Si rivela una sorprendente capacità di estrarre trovate inusuali. “You And Me And Everyone We Know” inizia con un coro di bambini, soltanto la genesi di una toccante ballata piano-voce, supportata dagli archi; episodio che conferma le potenzialità di questa artista, chiamata a ribadire il suo (grande) talento in futuro, ma già capace di spiazzare. A tal proposito, ascoltare la coda di questo pezzo, una esplosione di coralità quasi “familiare”.

Come l’ultima goccia che alimenta una pozza d’acqua in un prato, “Roselin” termina con un sorriso sulla bocca e una grande varietà di tonalità, completando un disegno idealmente iniziato con “Still June”, sviluppato e ideato cammin facendo, lasciato correre senza freni. “Though, I'm Just Me” ha dalla sua tutte le rifiniture per sorprendere, non si concede mai completamente e lancia un segnale ben preciso. Da scoprire, adatto alle giornate di temibile freddo, rampa di lancio verso una musica, quella svedese, che così gelida proprio non è.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Abandoned Toys: "The Witch's Garden" (Mythical, 2007)



Un lontano sibilo di vento gelido e tenebrose note di pianoforte introducono nel giardino della strega, rendendo da subito l’idea delle cupe suggestioni evocate dall’opera prima del misterioso artista che si cela sotto l’alias Abanonded Toys, ovvero Brett Branning, compositore originario dell’Oklahoma, reduce da esperienze nell’ambito delle musiche da film e per videogiochi.

La folgorazione artistica di Branning, che si autodefinisce compositore di “classica contemporanea” operante in un territorio a cavallo tra classicismo e new-age, consiste nell’accostamento alla tecnologia e nell’intento di conciliare la raffinatezza di armonie classiche, a prevalente base pianistica, con suoni elettronici che dipingono paesaggi esoterici dalle tinte gotiche. Il risultato sono le nove composizioni di “The Witch’s Garden”, un unico flusso sonoro oscuro e cristallino, in bilico tra una solennità pianistica per nulla rassicurante e l’uniformità di tappeti ambientali foscamente modulati.

Sovviene in mente un ricordo lontano, disperso nella nebbia; quel ricordo è una nota di piano che non è mai se stessa, non si somiglia nemmeno per un istante. “Within A Liliac Clutch” è un viaggio perduto, una fiaba sonora leggendaria. Scintille brillantissime si disciolgono nel cielo stellato, a tratti smarriscono la loro destinazione, ma non deteriorano il loro prezioso potere d’incanto. La potenza inesplosa delle armonie pianistiche si rivela in un semplice istante, in quel frammento di storia non facile da carpire, ma che sa regalare sensazioni pure più del diamante.

Piccoli accenni di dark-ambient (la più diluita, vedere Lustmord o Alio Die) vengono disciolti all’interno di un tappeto che sa quasi di world-music, con tonalità caratteristiche, inconfondibili e ancorate a un’appartenenza terrena forte come le radici di una pianta secolare.

“The Witch’s Garden (Prelude)” disegna quadri dimenticati di una vallata sconosciuta, con i suoi cori che paiono tramontane dirompenti, colma di epicità orrorifica e silenziosa come la più profonda delle foreste. Si prolunga un soffio, un attimo di assenza, e giunge cavalcando disperata la serafica “Vermillion Reflections”, fortemente piantata su composizioni intrecciate di piano, appena solcate da montagne impetuose di rumore disturbante e rappresentativo. Pare di vedere brillare un lago, con alle sue spalle i suoni della natura liberalmente capaci di esprimersi.

Ancor più profonda (e quasi cinematografica) “Where Red Shadows Slumber”, somigliante a certe colonne sonore per film fantasy o di carattere medievale. Non per questo, ovviamente, il risultato è scontato o di poco rilievo. I cori femminili raggiungono estensioni paradisiache, supportate da timidi archi cristallini che non lasciano scampo ai sensi già parzialmente inebetiti.

Inenarrabile dolcezza classica nel duetto violino-piano si affaccia con l’arrivo di “Flickering Embrace”, adagiata sullo scontro di vari elementi inconciliabili; bordate sotterranee di rumore schiantano gracili rumorini metallici, architettando la colonna sonora per uno strano paradiso.

“The Great Dreaming Swan” parte cauta per poi esplodere in tutta la sua magnificenza, disperdendo attimi preziosi da lasciar senza fiato, la successiva “Spiraling Into The Sun” apprende un pizzico di qualità da ogni episodio appena descritto e racimola gli elementi giusti per fare centro.

La conclusione spetta prima al lascito neo-classico di “Flowering Ashes”, vagamente pessimistica e malinconica, ma pur sempre racchiusa in un fragile bozzolo sonoro, culminante in un progressivo sgretolamento che induce al silenzio finale con tatto rarissimo, e infine alla continuazione della title track già accennata nella seconda traccia: una lunga e rappresentazione di un addio definitivo, attraversata soltanto da torbide scosse sonore di profondità vaporosa, che tagliano in due l’inerzia di tenebre ormai inestricabili.

“Tutto, nel buio, può assumere le forme più strane, trasformarsi, svanire sotto il velo del nulla, che è l’unica logica delle tenebre”, scriveva Haruki Murakami in uno dei suoi più celebri romanzi: sembra quasi che Brett Branning si sia ispirato a questa frase per la sua opera prima che, senza cedimenti a eccessive levità neoclassiche o a disagevoli torsioni dark, corteggia le tenebre descrivendole con la concretezza del pianoforte e l’evanescenza elettronica, in un quadro di seducente, inquietante bellezza.

(7)
 recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

martedì 20 novembre 2007

Last Days: "These Places Are Now Ruins" (n5MD, 2007)



Il viaggio di Last Days riprende. Ci eravamo lasciati con sbigottimento incantato sulle rive di un mare luminoso, raffigurato nella copertina dell’esordio “Sea”. Ricordiamo ancora adesso la forza straripante che animava ogni singolo episodio, la solitudine intrisa in ogni frangente, il sibilo di un vento mai così tagliente. Ci sovviene quel gusto sibillino emanato da quella musica, da quel mistico incrociarsi di toni a volte contrastanti.

“These Places Are Now Ruins” è generato dalla stessa scintilla propulsiva, dallo stesso intento. Se “Sea” aveva come tema fondante il percorso interiore dell’autore (e di ognuno di noi) che, oppresso da una non bene identificata irrequietezza, se ne fuggiva disperato; questo nuovo capitolo rappresenta lo sviluppo di questa minaccia, la sua evoluzione. Infatti, si può intuire ciò leggendo distrattamente sia il titolo dell’opera, sia quello delle canzoni. “Queste luoghi sono adesso delle rovine”, o ancora, “Tutta la città è contro di noi”, finendo con “Ragioni per partire”. E’ evidente che questa odissea è ben lontana dall’essere finita e questa simbiosi fra i vari componenti di essa, rappresenta un valore aggiunto di sicura fascinazione. Nello specifico, qua si da sfogo a sensazioni ben precise, rivolte nei confronti dell’oppressione urbana, dell’incapacità di svolgere (e consumare) una vita con la dovuta serenità all’interno di una sistema troppo piccolo (o troppo grande) per essere tollerato.

Musicalmente, il cambio di rotta, invece, è abbastanza deciso. Seppur “Sea” non era un esempio di musica massimalista, canzoni come “Fear” o “Two Steps Back” avevano dentro di loro qualcosa che le rendeva, forse involontariamente, molto enfatiche e splendidamente melodiche. In “These Places Are Now Ruins” c’è da registrare un ulteriore sviluppo, a favore di una deliziosa storpiatura ambientale, un corpo nato e generato con pochissimi elementi, dalle sembianze spoglie e ridotte, un po’ come le sconfinate vallate montuose dipinte nella foto posta in copertina.

Il timido inizio è così sancito da “Stations”. Sembra di vederlo quel cielo mattutino davanti a una stazione, aspettando un treno qualsiasi, diretti verso una destinazione che nemmeno sappiamo. Un piccolo spiraglio di luce, quel timido tepore misto al gelo delle prime ore del giorno, i rumori di persone mai viste che paiono seguire il nostro stesso tragitto. Sensazioni, che, quasi senza volere, questa prima traccia è capace di rilasciare. La povertà di queste composizioni ribalta pensieri ormai sopiti, li desta senza far baccano e si addormenta senza lasciar tracce.

Mentre chilometri vengono fagocitati dai vagoni danzanti sul crine di binari mai così scintillanti, ci si interroga sul motivo per cui stiamo fuggendo, da cosa stiamo evadendo. Le ragioni ci sovvengono soltanto al sorgere del sole, quando i colori iniziano a farsi nitidi, quando alcuni raggi dorati screziano lo sguardo, costretto a prendersi un attimo di pausa. Piccole stille di melodia volatile, attimi da custodire, diari da riempire e mille indecisioni da sbrogliare. “Reasons To Go” è tutto questo, ed anche di più.

Nella gamma di orizzonti che la mente si immagina, il fato sceglie per noi una distesa sconfinata con un ponte in lontananza, con cui attraversiamo un fiume, per poi immetterci in una lunga galleria buia. “Points Bridge” è perfetta e concisa, con il suo narrare semplice e diretto, sorretta da una chitarra spartana accompagnata da solitarie note di piano che donano movimento a un flusso elettronico flemmatico.

“Devil’s Wood” disegna i contorni di un albero maligno, con rumori pungenti e scostanti; la cortissima “Saved By A Helicopter” si fa notare grazie a un bozzetto pianistico a dir poco incantevole.

Il titolo della sesta traccia lascia senza parole, con quel suo tono catastrofico. “A Storm Tore This House” è una tappa importante, perché tinteggia una tempesta all’interno di una mansione di fortuna, prima aggredita da un forte agglomerato di eventi atmosferici, poi conciliata con la pace attraverso un canto di usignolo chiaro e risolutore.

La luce della filtrata da un vetro spesso quanto l’odio per il buio, pare irriconoscibile, per di più se guardata con il tiepido calore di una piscina permeato nella pelle. Infatti, “Swimming Pools At Night” narra storie di inquietitudini notturne, appena mitigate dal piacere di un bagno oscuro. Il risveglio che succede a una notte così tormentata non può che essere colmo di incertezze, ed infatti “Two Halves Of A Line” rappresenta la difficoltà con cui dobbiamo far fronte nel prendere una decisione, decidendo quale delle due metà scegliere. La musica è sempre la stessa, fra distorsioni digitali, chitarre lasciate al loro destino e fragorosi accenni di ritmo.

Riassumendo le ultime tappe di un percorso lungo ma mai sfiancante, si riesce infine a scorgere le rovine tanto attese (splendida la drum-machine di “Ruins”), constatando che, nonostante la completa disfatta, “le città sono sempre contro, ed avverse a noi” (da incorniciare le dilatazioni cosmiche di “The Whole Town Is Against Us”). Attratti da un finale seducente e sinuoso, “Look After Your Self” si distingue per pregevole fattura, la conseguente seconda parte di “Stations” completa e collabora all’immedesimazione finale, che è poi un viaggio di ritorno identico e simmetrico a quello di andata. Il tutto naufraga fra le braccia di “Travelling Heart”, con grande pathos e sincerità.

Giunti per la seconda volta alla fine, constatiamo con grande felicità ed orgoglio che “Sea” non era uno schiocco casuale, non un flash apparso per sbaglio, ma un’opera saldamente supportata da una fantasia smodata e capacità empatiche e umorali fuori dal comune, trasmesse, con rapporto di evidente dipendenza vitale, alla stessa musica da lui composta. Con uno sguardo al sole che tramonta, siamo già in attesa per l’arrivo del terzo capitolo di un percorso infinito e mai concluso.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Antelope: "Reflector" (Dischord, 2007)



La fine anticipata e disattesa dei Super System aveva lasciato presagire conseguenze a dir poco spiacevoli per gli ex-componenti di una delle formazioni più innovative degli ultimi 4-5 anni, gli El Guapo. Poi, però, l’istrionico tastierista Pete Cafarella si è impegnato, finalmente, con completa dedizione al suo progetto Shy Child, insieme a Nate Smith, per proporre un album fulminante come “Noise Won’t Stop”, un frullato di ballabilità indipendente a dir poco catastrofica.

Il lato più pazzoide del gruppo d’origine (chi ha visto i live saprà il perché) Justin Moyer l'aveva già ribadito con l’interpretazione di una parte scomoda, nello strambo progetto Edie Sedgwick. Dopo diversi mesi di anonimato, capita di vedere (per caso) la copertina con scritto Antelope in copertina e tre facce disegnate. Viene spontaneo chiedersi chi siano. Ebbene sì, Justin Moyer è tornato con altri due scagnozzi per nuove scorribande incontenibili.

“Reflector” è un pugno nello stomaco diretto e sfiancante. Non si concede mai completamente, non è dirompente, ma sgusciante, pulsante, sotterraneo. Come vedere il ritmo devastante degli A Certain Ratio più scomposti costretto nei limiti minimali di un recinto immaginario. Canzoni monche, corte, perfino inesistenti a volte, ma così vive da contorcersi alla velocità della luce.

Lo stile compositivo utilizzato per tornare sulla piazza è evidentemente cambiato rispetto alle ultime esperienze discografiche. Sia gli ultimi El Guapo ma, soprattutto, i Super System facevano un uso pesante di elettronica e ritmi analogici. Inoltre, in quei casi, veniva accentuato il lato ballabile, mentre qui i ritmi, pur essendo estremamente granitici e dritti, stimolano più un "ballo interiore", fatto di scosse elettriche e pulsioni cardiache.

Gli incastri fra basso e chitarra sono la chiave di volta del disco. Non fa eccezione la prima traccia, un antipasto a dir poco succulento, con la voce del comprimario Mike Andre in evidenza, mentre Justin rimane in disparte a suonare la chitarra. “Dead Eye” è puro furore: il solito canto irresistibile di Moyer, il trio basso-batteria-chitarra che si esalta e scompiglia, il vortice vocale posto nel finale che non lascia scampo.

La più posata “Contraction” vive di ovvie “contrazioni” a spirale, “Mirroring” sputa parole taglienti e pericolose; avvolte, distorte, ritorte contro un palpito impossibile da contenere.

Con la consueta immodestia onanistica, come in “Fake French” (in cui si chiamava “Justin Destroyer”), Justin si dedica una canzone, “Justin Jesus”, ulteriore esempio di come l’essenzialità sa ripagare lautamente in termini di risultato finale. Moyer riesce ancora una volta a giocare con la sua voce, con molta maestria e un pizzico di furbizia, visto che sono 7 anni che canta alla stessa maniera. Poco male, visto che non riesce mai a stancare.

L’ossessionante “Wandering Ghost”, se ascoltata per una decina di volte di seguito (e vi assicuro che non è molto difficile riuscirci), può provocare convulsioni e pericolosa dipendenza. “Flower” è forse l’episodio più vicino alla forma-canzone, con le pennellate di chitarra e il ritmo docile della batteria.

I minuti scorrono velocissimi vista la sintesi del disco (nel complesso siamo sotto la mezz’ora). “Concentration” inizia e poi finisce in un soffio di vento a cento chilometri orari, “Demon”, con i suoi coretti in sottofondo, è sfacciatamente di marchio El Guapo, ma niente paura, l’effetto è autentico e stende ugualmente. Saluta con accordi disgiunti di chitarra completamente fuori tempo la marziana “Collective Dream”.

Se credevate veramente che il diavolo della musica indipendente fosse finito con la conclusione della sua ultima incarnazione, dovete ricredervi e correre ad ascoltare il disco in questione. “Reflector” vive di citazioni, si alimenta di musica già esistita, già suonata. Ma, per una volta, non ci interessa e scoppiamo dalla voglia di tornare ad ascoltare questi clangori minimali.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana