lunedì 26 novembre 2007
Maia Hirasawa: "Though, I’m Just Me" (Razzia Records, 2007)
C’è uno strano magnetismo nello sguardo di Maia Hirasawa a cui è impossibile sfuggire, anche solo per pochi istanti. L’origine di questo incanto sragionato ci viene suggerito dall’incrocio sanguigno tra due etnie diametralmente opposte. Si crea spesso quel "non so che" di turno, dando uno sguardo alle sue foto. Si ha anche modo di pensare che oltre al cocktail genetico, ci sia ben altro ad attrarre la nostra attenzione: da un lato la graziosa umiltà con cui ci vengono offerte queste undici caramelle armoniche, dall’altro è innegabile il talento artistico della svedesina dalle origini nipponiche, la quale ha arrangiato e prodotto tutto da sola, divisa tra la quiete urbana di Sollentuna e la pastorale Skone.
Siamo di fronte a indie-pop di gran classe, non c’è che dire. Maia attraversa i suoi racconti con la leggiadria di chi è abituato a scoprire ogni giorno, tra le proprie mura, al di là della finestra aperta, scenari a dir poco incantevoli. E’ ben presente quella voglia di dipingere le cose con colori pastello mai invadenti, l’utilizzo del chiaroscuro è limitato solo ad alcuni momenti, piccoli angoli di tela dove i raggi del sole non affondano più di tanto il proprio calore. La quotidianità divisa tra amori perduti, intese amicali e introspezioni familiari, trasformata in musica con quella raffinatezza pop che non t’aspetti, sospinta da un’ugola morbida e ammaliante.
La sola “Stll June” potrebbe illuminare l’intera Stoccolma per mesi e mesi, imprigionata fra liriche tormentate da una perenne ansia di fondersi con la voce limpida che le anima. Lucidi come raso sono gli incastri vocali presenti nei filamenti di “Crackers”, una canzone che alimenta fievolmente la felicità inespressa dell’ascoltatore. Serpeggiano nitidi richiami a un amore soffuso, dischiuso con pathos e coinvolgimento (la incontenibile “Mattis & Maia”); rincasando con il sole che cade verso l’orizzonte, un sibilo di malinconia fa vibrare il cuore (“Parking Lot”).
La passione e la sensualità, note dominanti di tutto l’album, raggiungono apici di tensione e tormento, fondendosi assieme con fermezza e fiorente bellezza, caratteristiche, queste, che riescono a far risaltare una originalità inizialmente sopita. Il genere preso in considerazione, seppur fortemente ricalcato da centinata di gruppi negli ultimi anni, riesce a salvarsi dalla banalità grazie a un’interpretazione quasi “carnale”, a una scrittura inappuntabile e a i piccoli particolari che rendono speciale un disco. Tutte qualità che “Though, I'm Just Me” possiede e custodisce, come il diario di un vecchio pazzo scritto e mai disperso dal tempo che scorre.
Senza mai chetarsi, ora infuriata ora implacabile, la voce di Maia ci accompagna durante tutto il percorso. La raffinata sensibilità di “And I Found This Boy” fa tremare le mani e vibrare l’aria circostante, trasformandosi in canzone-simbolo dell’opera. “Star Again” si srotola armoniosa e flebile, fra contrasti vocali (ottimo il contributo dell’amico Anders Göransson) e timide orchestrazioni, arrangiate con precisione e gusto minimale. Splendida e leggermente sopra le righe l'autobiografica “Gothenburg”, che narra il rapporto di amore-odio fra l’autrice e la sua città natale, con frasi come “Trams coming in, there´s wind from the sea. But I don´t feel cold, it´s not shivering me. And I thought I didn´t like this city but I´ve changed”. I cori in sottofondo, come una forte corrente di vento, tagliano in due il silenzio e trasmettono un vago senso di amara rassegnazione.
Esperienze ingenue, trascritte con semplici parole colme di sfumature, nella spensierata “My New Friend”, ritmi sincopati e camaleontici in “Say Goodbye”, fatta di silenzi e contraddistinta da un violino suonato con l’anima. Una narrazione pennellata, soltanto accennata da questi grumi di parole: "To all of these ghosts in your head, there's one sleeping in your bed. And the scariest from home who don´t seem to care. Cause the ghosts in your head, they won´t stop until you're dead".
Si rivela una sorprendente capacità di estrarre trovate inusuali. “You And Me And Everyone We Know” inizia con un coro di bambini, soltanto la genesi di una toccante ballata piano-voce, supportata dagli archi; episodio che conferma le potenzialità di questa artista, chiamata a ribadire il suo (grande) talento in futuro, ma già capace di spiazzare. A tal proposito, ascoltare la coda di questo pezzo, una esplosione di coralità quasi “familiare”.
Come l’ultima goccia che alimenta una pozza d’acqua in un prato, “Roselin” termina con un sorriso sulla bocca e una grande varietà di tonalità, completando un disegno idealmente iniziato con “Still June”, sviluppato e ideato cammin facendo, lasciato correre senza freni. “Though, I'm Just Me” ha dalla sua tutte le rifiniture per sorprendere, non si concede mai completamente e lancia un segnale ben preciso. Da scoprire, adatto alle giornate di temibile freddo, rampa di lancio verso una musica, quella svedese, che così gelida proprio non è.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli
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