lunedì 26 novembre 2007
Abandoned Toys: "The Witch's Garden" (Mythical, 2007)
Un lontano sibilo di vento gelido e tenebrose note di pianoforte introducono nel giardino della strega, rendendo da subito l’idea delle cupe suggestioni evocate dall’opera prima del misterioso artista che si cela sotto l’alias Abanonded Toys, ovvero Brett Branning, compositore originario dell’Oklahoma, reduce da esperienze nell’ambito delle musiche da film e per videogiochi.
La folgorazione artistica di Branning, che si autodefinisce compositore di “classica contemporanea” operante in un territorio a cavallo tra classicismo e new-age, consiste nell’accostamento alla tecnologia e nell’intento di conciliare la raffinatezza di armonie classiche, a prevalente base pianistica, con suoni elettronici che dipingono paesaggi esoterici dalle tinte gotiche. Il risultato sono le nove composizioni di “The Witch’s Garden”, un unico flusso sonoro oscuro e cristallino, in bilico tra una solennità pianistica per nulla rassicurante e l’uniformità di tappeti ambientali foscamente modulati.
Sovviene in mente un ricordo lontano, disperso nella nebbia; quel ricordo è una nota di piano che non è mai se stessa, non si somiglia nemmeno per un istante. “Within A Liliac Clutch” è un viaggio perduto, una fiaba sonora leggendaria. Scintille brillantissime si disciolgono nel cielo stellato, a tratti smarriscono la loro destinazione, ma non deteriorano il loro prezioso potere d’incanto. La potenza inesplosa delle armonie pianistiche si rivela in un semplice istante, in quel frammento di storia non facile da carpire, ma che sa regalare sensazioni pure più del diamante.
Piccoli accenni di dark-ambient (la più diluita, vedere Lustmord o Alio Die) vengono disciolti all’interno di un tappeto che sa quasi di world-music, con tonalità caratteristiche, inconfondibili e ancorate a un’appartenenza terrena forte come le radici di una pianta secolare.
“The Witch’s Garden (Prelude)” disegna quadri dimenticati di una vallata sconosciuta, con i suoi cori che paiono tramontane dirompenti, colma di epicità orrorifica e silenziosa come la più profonda delle foreste. Si prolunga un soffio, un attimo di assenza, e giunge cavalcando disperata la serafica “Vermillion Reflections”, fortemente piantata su composizioni intrecciate di piano, appena solcate da montagne impetuose di rumore disturbante e rappresentativo. Pare di vedere brillare un lago, con alle sue spalle i suoni della natura liberalmente capaci di esprimersi.
Ancor più profonda (e quasi cinematografica) “Where Red Shadows Slumber”, somigliante a certe colonne sonore per film fantasy o di carattere medievale. Non per questo, ovviamente, il risultato è scontato o di poco rilievo. I cori femminili raggiungono estensioni paradisiache, supportate da timidi archi cristallini che non lasciano scampo ai sensi già parzialmente inebetiti.
Inenarrabile dolcezza classica nel duetto violino-piano si affaccia con l’arrivo di “Flickering Embrace”, adagiata sullo scontro di vari elementi inconciliabili; bordate sotterranee di rumore schiantano gracili rumorini metallici, architettando la colonna sonora per uno strano paradiso.
“The Great Dreaming Swan” parte cauta per poi esplodere in tutta la sua magnificenza, disperdendo attimi preziosi da lasciar senza fiato, la successiva “Spiraling Into The Sun” apprende un pizzico di qualità da ogni episodio appena descritto e racimola gli elementi giusti per fare centro.
La conclusione spetta prima al lascito neo-classico di “Flowering Ashes”, vagamente pessimistica e malinconica, ma pur sempre racchiusa in un fragile bozzolo sonoro, culminante in un progressivo sgretolamento che induce al silenzio finale con tatto rarissimo, e infine alla continuazione della title track già accennata nella seconda traccia: una lunga e rappresentazione di un addio definitivo, attraversata soltanto da torbide scosse sonore di profondità vaporosa, che tagliano in due l’inerzia di tenebre ormai inestricabili.
“Tutto, nel buio, può assumere le forme più strane, trasformarsi, svanire sotto il velo del nulla, che è l’unica logica delle tenebre”, scriveva Haruki Murakami in uno dei suoi più celebri romanzi: sembra quasi che Brett Branning si sia ispirato a questa frase per la sua opera prima che, senza cedimenti a eccessive levità neoclassiche o a disagevoli torsioni dark, corteggia le tenebre descrivendole con la concretezza del pianoforte e l’evanescenza elettronica, in un quadro di seducente, inquietante bellezza.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo
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