martedì 20 novembre 2007

Last Days: "These Places Are Now Ruins" (n5MD, 2007)



Il viaggio di Last Days riprende. Ci eravamo lasciati con sbigottimento incantato sulle rive di un mare luminoso, raffigurato nella copertina dell’esordio “Sea”. Ricordiamo ancora adesso la forza straripante che animava ogni singolo episodio, la solitudine intrisa in ogni frangente, il sibilo di un vento mai così tagliente. Ci sovviene quel gusto sibillino emanato da quella musica, da quel mistico incrociarsi di toni a volte contrastanti.

“These Places Are Now Ruins” è generato dalla stessa scintilla propulsiva, dallo stesso intento. Se “Sea” aveva come tema fondante il percorso interiore dell’autore (e di ognuno di noi) che, oppresso da una non bene identificata irrequietezza, se ne fuggiva disperato; questo nuovo capitolo rappresenta lo sviluppo di questa minaccia, la sua evoluzione. Infatti, si può intuire ciò leggendo distrattamente sia il titolo dell’opera, sia quello delle canzoni. “Queste luoghi sono adesso delle rovine”, o ancora, “Tutta la città è contro di noi”, finendo con “Ragioni per partire”. E’ evidente che questa odissea è ben lontana dall’essere finita e questa simbiosi fra i vari componenti di essa, rappresenta un valore aggiunto di sicura fascinazione. Nello specifico, qua si da sfogo a sensazioni ben precise, rivolte nei confronti dell’oppressione urbana, dell’incapacità di svolgere (e consumare) una vita con la dovuta serenità all’interno di una sistema troppo piccolo (o troppo grande) per essere tollerato.

Musicalmente, il cambio di rotta, invece, è abbastanza deciso. Seppur “Sea” non era un esempio di musica massimalista, canzoni come “Fear” o “Two Steps Back” avevano dentro di loro qualcosa che le rendeva, forse involontariamente, molto enfatiche e splendidamente melodiche. In “These Places Are Now Ruins” c’è da registrare un ulteriore sviluppo, a favore di una deliziosa storpiatura ambientale, un corpo nato e generato con pochissimi elementi, dalle sembianze spoglie e ridotte, un po’ come le sconfinate vallate montuose dipinte nella foto posta in copertina.

Il timido inizio è così sancito da “Stations”. Sembra di vederlo quel cielo mattutino davanti a una stazione, aspettando un treno qualsiasi, diretti verso una destinazione che nemmeno sappiamo. Un piccolo spiraglio di luce, quel timido tepore misto al gelo delle prime ore del giorno, i rumori di persone mai viste che paiono seguire il nostro stesso tragitto. Sensazioni, che, quasi senza volere, questa prima traccia è capace di rilasciare. La povertà di queste composizioni ribalta pensieri ormai sopiti, li desta senza far baccano e si addormenta senza lasciar tracce.

Mentre chilometri vengono fagocitati dai vagoni danzanti sul crine di binari mai così scintillanti, ci si interroga sul motivo per cui stiamo fuggendo, da cosa stiamo evadendo. Le ragioni ci sovvengono soltanto al sorgere del sole, quando i colori iniziano a farsi nitidi, quando alcuni raggi dorati screziano lo sguardo, costretto a prendersi un attimo di pausa. Piccole stille di melodia volatile, attimi da custodire, diari da riempire e mille indecisioni da sbrogliare. “Reasons To Go” è tutto questo, ed anche di più.

Nella gamma di orizzonti che la mente si immagina, il fato sceglie per noi una distesa sconfinata con un ponte in lontananza, con cui attraversiamo un fiume, per poi immetterci in una lunga galleria buia. “Points Bridge” è perfetta e concisa, con il suo narrare semplice e diretto, sorretta da una chitarra spartana accompagnata da solitarie note di piano che donano movimento a un flusso elettronico flemmatico.

“Devil’s Wood” disegna i contorni di un albero maligno, con rumori pungenti e scostanti; la cortissima “Saved By A Helicopter” si fa notare grazie a un bozzetto pianistico a dir poco incantevole.

Il titolo della sesta traccia lascia senza parole, con quel suo tono catastrofico. “A Storm Tore This House” è una tappa importante, perché tinteggia una tempesta all’interno di una mansione di fortuna, prima aggredita da un forte agglomerato di eventi atmosferici, poi conciliata con la pace attraverso un canto di usignolo chiaro e risolutore.

La luce della filtrata da un vetro spesso quanto l’odio per il buio, pare irriconoscibile, per di più se guardata con il tiepido calore di una piscina permeato nella pelle. Infatti, “Swimming Pools At Night” narra storie di inquietitudini notturne, appena mitigate dal piacere di un bagno oscuro. Il risveglio che succede a una notte così tormentata non può che essere colmo di incertezze, ed infatti “Two Halves Of A Line” rappresenta la difficoltà con cui dobbiamo far fronte nel prendere una decisione, decidendo quale delle due metà scegliere. La musica è sempre la stessa, fra distorsioni digitali, chitarre lasciate al loro destino e fragorosi accenni di ritmo.

Riassumendo le ultime tappe di un percorso lungo ma mai sfiancante, si riesce infine a scorgere le rovine tanto attese (splendida la drum-machine di “Ruins”), constatando che, nonostante la completa disfatta, “le città sono sempre contro, ed avverse a noi” (da incorniciare le dilatazioni cosmiche di “The Whole Town Is Against Us”). Attratti da un finale seducente e sinuoso, “Look After Your Self” si distingue per pregevole fattura, la conseguente seconda parte di “Stations” completa e collabora all’immedesimazione finale, che è poi un viaggio di ritorno identico e simmetrico a quello di andata. Il tutto naufraga fra le braccia di “Travelling Heart”, con grande pathos e sincerità.

Giunti per la seconda volta alla fine, constatiamo con grande felicità ed orgoglio che “Sea” non era uno schiocco casuale, non un flash apparso per sbaglio, ma un’opera saldamente supportata da una fantasia smodata e capacità empatiche e umorali fuori dal comune, trasmesse, con rapporto di evidente dipendenza vitale, alla stessa musica da lui composta. Con uno sguardo al sole che tramonta, siamo già in attesa per l’arrivo del terzo capitolo di un percorso infinito e mai concluso.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

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