domenica 19 febbraio 2017

Piano Magic: "Closure" (2017, Second Language)















Scoccati da non molto i venti anni di militanza e dodici dischi, una delle band più significative degli ambienti rock indipendenti chiude la propria carriera con un album di commiato. La notizia più rilevante che accompagna la cartella stampa di “Closure” è questa. E non è per niente banale accettarlo, dato che da “Popular Mechanics” in poi – correva il 1997 – le flessuose e mutevoli nenie della band franco-inglese ci hanno accompagnato più o meno in maniera costante. Con quella peculiare malinconia sommessa e quel sapore acre delle parole scritte quasi sempre dal frontman Glen Johnson, il gruppo ci ha insegnato molto su come può essere la musica rock, usando varie forme e registri interpretativi. Tutto però ha una fine. Lo stesso Glen Johnson, interrogato a riguardo dello scioglimento della band, parla del concetto di “chiusura fisiologica”, facendo riferimento alle sue recenti esperienze personali come la morte del padre e la fine di una lunga relazione sentimentale. E c'è anche di che sfamarsi per gli inguaribili nostalgici, infatti, i più attenti avranno notato che in “Artists' Rifles” è presente un brano intitolato “No Closure”, sempre incentrato sul concetto di chiusura e fine, come se, già una quindicina di anni fa, la band sapesse che il loro destino fosse già segnato.

Raggiunta la maggiore visibilità con il capolavoro “Disaffected”, i Piano Magic avevano forse capito che la loro carriera stava per spegnersi dopo tre album quantomeno sottotono, forse solo controversi ma non per questo negativi, come “Part-Monster”, “Ovations” e “Life Has Not Finished With Me Yet”. “Closure” giunge a ben quattro anni di distanza dall'ultimo e racchiude un po' tutte le sfumature della musica scritta in un ventennio di carriera, ricomponendo per questa speciale occasione il nucleo originario della band composto oltre ovviamente da Glen Johnson, da Jerome Tcherneyan (batteria e percussioni), Alasdair Steer (basso) e Frank Alba (chitarra). L'elegante dark-rock dai rimandi wave, poi ribattezzato “ghost-rock”, è parte integrante di questo album fin dai primi accenni. Infatti l'iniziale “Closure” è la traccia perfetta per chi ama lo stile della band: compassate sferragliate elettriche, basso cadenzato, coda strumentale che sfocia sopra i dieci minuti di durata, cantato vicino allo spoken word e tanta, tanta, atmosfera. L'album si sviluppa su variazioni di questi temi musicali, con ospiti illustri a impreziosire tracce di grande classe, come la celebre violoncellista Audrey Riley ospitata in “Living For Other People” o il cantante Peter Milton Walsh degli australiani The Apartments presente nella struggente “Attention To Life”. Le delicate pennellate di archi già citate di “Living The Other People” o anche di “You Never Stop Lobing (The One That You Loved)” rendono “Closure” una chiusura di carriera che fa del rock un fatto personale, quasi “da camera”, profondamente catartico, una via di sfogo per le frustrazioni e le emozioni più recondite.

A stagliarsi solitaria e un po' lontana dagli ultimi canoni c'è “Exile”, vicina alle tentazioni elettroniche della magnifica “Saint Maire”, capace di raccontare con la solita freddezza e classe il turbamento e la frustrazione di un rapporto sentimentale complicato, sofferente e claudicante. Il cantato di Johnson è anche qui perfettamente centrato per le suggestioni evocate, mai sopra le righe e integrato fra le pulsazioni di una drum-machine e i flebili accordi di chitarra.

Per chiunque ha bazzicato i territori della musica sotterranea di cui stiamo parlando, sarà un grande colpo al cuore dover dire addio ai Piano Magic. L'unico modo che abbiamo per celebrare i venti anni di carriera di questa straordinaria band è godersi questo loro ultimo album e andare a recuperare tutto ciò che hanno inciso in passato, sempre non dimenticando che, come pronunciava la prima tracca di “Writers Without Homes”, Music won't save you from anything but silence.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 10 febbraio 2017

Gold Panda: "Good Luck And Do Your Best" (City Slang, 2016)















Capace nel corso degli anni di creare un vero culto nei confronti della sua musica, Derwin Panda in arte Gold Panda giunge nel 2016 al suo terzo album. Dopo il discreto “Half Of Where You Live” del 2013 e la valida collaborazione con Charlie XCX in “You (Ha Ha Ha)” - dove il britannico cede la base del suo pezzo ominimo proveniente da “Lucky Shiner” -, il producer si prende una pausa compositiva di tre anni in cui gira il mondo proponendo live set e dj set.

Sembra non essere passato così tanto quando attacca “Metal Bird”, infatti la perfetta fusione e la sua evoluzione fra IDM, house e downtempo viene ripresa dove il precedente disco l'aveva interrotta. Synth melodici e profondamente atmosferici in sottofondo, break di tempo inframezzati da campioni vocali e alcuni punteggi di tastiera, sono il perfetto inizio per un disco che sa di buona musica dai primi minuti. Fortemente influenzato dalla vita in Giappone, le composizioni di Gold Panda assumono una sorta di vitalità zen che porta a non spingere mai fino in fondo sull'accelleratore, lasciando implodere dolcemente le tracce. Ne è un esempio lampante “I Am Real Punk” o “Autumn Fall”, con il loro incedere pachidermico ma seducente, composte semplicemente da qualche accordo di chitarra e qualche arabesco elettronico in sottofondo. L'elettronica d'ascolto che proviene dalla tradizione Warp dei Boards Of Canada viene traghettata verso la modernità attraverso un senso per la composizione e un gusto unico.

Il disco continua su questa falsariga dispensando altre gemme (la serafica “Halyards”), spingendo in alcuni casi più sul ritmo (le più decise “Time Eater” e “Song For A Dead Friend”) senza mai cedere il passo alla noia o a qualche passaggio a vuoto. La stessa “In My Car” ha il flow giusto per essere piazzato in qualche clip girata nelle notte buie di una Tokyo piovosa, mentre “Chiba Nights” pare essere il perfetto compendio per una serata alcolica in qualche club fumoso e desolato. Il disco non perde mai un'oncia di spessore nemmeno sul finale, infatti “Your Good Times Are Just Beginning” - contente un campione di "The Moon Ain't Made of Green Cheese" edita da Billy Cobham – è una stilosa tinteggiatura electro-jazz dal fine sapore cinematico.

Senza strafare e con un polso della situazione da vero navigato, Gold Panda supera a pieni voti la prova del terzo disco e si dirige verso il consolidamento della sua fama e della maturità artistica, lasciando sulle spine i suoi estimatori riguardo eventuali sviluppi.

(7.5)

recensione di Alessandro Biancalana