lunedì 18 novembre 2013

Suuns @ Bloom - Mezzago, Covo - Bologna



















Bloom, Mezzago (MB) - 14/11/2013

Premessa: "Esiste un locale nei dintorni di Milano in cui il livello dei volumi si sia fermato a prima che qualche riforma del caso passasse in parlamento, a quando i concerti non finivano alle 23.45, un luogo che permetta di far vibrare la cassa toracica e contorcere lo stomaco coi bassi, in cui la vecchia di turno espettora acutamente ingiurie nei confronti di una "musica troppo alta"?" Ebbene ne sono rimasto pochi, pochissimi. Il Bloom è uno di questi. Spezzo la lancia a suo favore e chiudo la premessa senza troppi fronzoli.

I Suuns arrivano al Bloom dopo la data torinese allo Spazio 211. Entrano sommessi, un accenno con la mano e niente più. Un colpo in cassa li annuncia, seguito da una cantilena araba che nell'intorno pare essere l'incipit de "L'esorcista", con un frastuono sordo di bassi e sintetizzatori. Vibra lo stomaco e quando "Music Won't Save You" ci aggancia siamo in sintesi già da qualche minuto con le vesti di Ben Shemie, chitarra e voce della band di Montreal; pare un incrocio imbastardito e inquietante tra Lou Reed e Thom Yorke e i gli accordi dissonanti di quell'entrata - in verità chiusura del secondo lavoro "Images Du Futur" - sono dichiarazione d'intenti chiara e semplice: "la musica non vi salverà, state sereni e godetevi il nostro spettacolo".
Il rimorchio è "Bambi" che comincia a inasprire l'aria e inacidire le gambe che rimbalzano sulle note definite della chitarra di Joe Yarmush e i contorni rotondi del duo tastiera/batteria formato da Max Henry e Liam O'Neill: il pubblico sta già fermentando perché questi "mezzi francesi" ci sanno fare. Allora è la volta del singolo "2020", la slide guitar session che ammalia e profuma d'incenso psichedelico le stanze del Bloom, di un profumo forte, acre, non certamente rasserenante ma sicuramente contagioso, che prosegue con le dilatazioni uterine di "Minor Work", più carica live che su album. Entusiasmo.

"Arena" cambia lo scenario e dimostra quanto i Suuns siano una realtà musicalmente valida e con qualcosa da dire: tratta dal primo lavoro "Zeroes QC", "Arena" è un continuo contorcersi, un crescente rigurgito di basso che si quieta quando a metà traccia Shemie sussurra passionevolmente le melodie cantate, in una danza macabra con l'asta del microfono. Intervallata prima da "Up Past The Nursery" parte poi una versione doom di "Powers Of Ten" che sembra di essere ad un concerto dei Sunn O))), senza bussola, senza orientamento, e un trasporto che prosegue con le distorsioni plastiche di "Armed For Peace", una sveglia da schiaffi strappati alla chitarra di Yarmush per ritornare infine alle deformazioni sintetiche di Henry. MDMA nei bicchieri forse non l'han messa, ma quando la chiusura di quel viaggio iniziato con "Arena" si conclude con "Pie IX" un pensiero sovviene: alieni si presentano dietro le nostre spalle, toccandoci le orecchie prima che un ballo di chitarra molto Badalamentiano chiuda il momento migliore della serata.

I quattro anticipano i saluti con "Sunspot" degna chiusura a-là Radiohead di Kid A ma, acclamati da quattro affezionati (il pubblico era caldo, ma poco numeroso), rientrano dopo una pausa durata due-tre minuti per un finale non troppo entusiasmante e forse troppo di dovere; buttan fuori "Mirror Mirror" e una buona "Edie's" Dream" a coronamento di un'ora e venti di psichedelia dark, elettronica plastica e un motivo in più per pensare che questa band, riservata e schiva, dimostri qualità durature nel prossimo futuro.

Covo Club, Bologna - 16/11/2013

A Bologna la serata inizia similmente alla data milanese con cantilena araba in sottofondo e sferragliate di feedback molto rumorose, pare di stare a un concerto di un'altra band. E la cosa continuerà per altri quindici minuti abbondanti, con bordate soniche di potenza non indifferente, con il basso e la batteria a comporre un comparto ritmico di grandissimo rilievo. Con lo svolgersi del live e l'esecuzione dei pezzi, la componente psych/noise si attenua in favore di linee chitarristiche limpide e chiare, più coerenti alla relativa leggerezza di tracce come "Edie's Dream" e "Holocene City". La grande qualità dei Suuns, già evidenziata ampiamente su disco, è quella di fondere in modo quasi impeccabile le tendenze out e la forte componente pop del loro suono, risultando in alcuni casi un riuscitissimo incrocio fra un brit-pop cristallino (qua e là si sentono addirittura i Blur) e le sterzate violente degli Animal Collective o dei Deerhoof.

C'è un'anima malata e distorta nella foga di "Sunspot", eseguita con una batteria in completa trance e un basso che zampilla sangue e sofferenza, in un flusso che si completa con "Bambi", un capolavoro di trasfigurazione pop con pulsazioni electro bastardissime. E che dire delle parole biascicate dal cantante in occasione di "Minor Work"? Il tutto attorniato da spore silenti e spettri demoniaci, in un'atmosfera generale enormemente più soffocante della lineare esecuzione su album. L'apporto dell'elettronica sale di caratura con il passare dei minuti, in cui le rasoiate del synth e della drum-machine sono un perfetto compendio al suono di questo band che non smette mai di stupire. Tutti i componenti hanno perfettamente il controllo della situazione e propongono un live sì violento e in parte dissonante ma pur sempre misurato, calibrato, mai eccessivo o troppo spinto. Sanno mettere lo spettatore in condizione di scatenarsi o di adagiarsi con suoni più delicati, il tutto perfettamente impastoiato con melodie decisamente originali. Un'ora e spicci di musica ispirata e potente, in una notte bolognese vagamente autunnale, i Suuns sanno dare brio e corpo ai nostri momenti più insignificanti.

Questi due live confermano in maniera decisa le impressioni avute con il secondo disco; questa band ha tutto ciò che serve per fare qualcosa di veramente nuovo ed elettrizzante, il tutto sta, come sempre, nella capacità dei canadesi di continuare su questa strada sintetizzando velleità con umiltà, sfrontatezza con misura. Facile a dirsi ma non a farsi probabilmente, fatto sta che noi non vediamo l'ora di ascoltare altre canzoni, non so voi.

articolo di Stefano Macchi e Alessandro Biancalana

lunedì 4 novembre 2013

Poliça: "Shulamith" (Mom + Pop, 2013)
















Il 2013 sarà ricordato come un anno di mancate conferme. Dopo le prove sottotono o quantomeno controverse dei vari Gold Panda, Agnes Obel ed Emika, ad aggiungersi al gruppo arrivano i Poliça. Il gruppo di artisti appena citato aveva l’obbligo di confermare esordi molto positivi, nel caso della band americana il compito era doppiamente arduo. Provenienti dall’esperienza dei Gayngs, i quattro di Minneapolis hanno sconvolto il mercato discografico indipendente solo un anno fa con un esordio abbagliante. Niente chitarra, un basso, due batterie e una voce con davanti un vocoder. Una forma scarnificata di trip-hop, un pop d’ambiente scheletrico, essenziale, musica ombrosa, urbana, perfettamente puntellata dall’esile voce di Channy Leaneagh. “Give You The Ghost” rappresentava qualcosa di nuovo, qualcosa di veramente originale come non si sentiva da moltissimo tempo. Gli interrogativi dopo un ascolto così disarmante erano tutti rivolti a un eventuale secondo disco, a come la band avrebbe reagito a tale clamore e a come avrebbe sviluppato una formula talmente efficace. Andiamo con ordine.

I Poliça hanno deciso di giocare la carta dell’elettronica, trasformando la loro musica in modo abbastanza deciso. Niente più strutture scheletriche, rimangono le linee di basso pulsanti, la batteria non è più un elemento primario e arrivano moltissimi synth e alcune drum-machine. La scelta di inserire l’elettronica non è stata a priori sbagliata, d’altronde cercare di ricalcare quanto di buono era stato fatto poteva rivelarsi un tranello autoreferenziale, semplicemente si è cercato di fare qualcosa di nuovo. Purtroppo, però, le basi elettroniche inserite non hanno la qualità necessaria per mantenere intatti i delicati equilibri di cui queste canzoni hanno bisogno. La voce, non essendo né potente né limpida, non riesce a salire in cattedra e a colmare eventuali lacune di scrittura. Pure in “Give You The Ghost” le tracce salivano di tono grazie a un'atmosfera complessiva avvolgente, non certo per meriti dell’interprete femminile che, nonostante un sapiente uso del vocoder, rimane una cantante dalle doti limitate (vedere i live per rendersene conto).
Detto questo, siamo di fronte a un disco che sa regalare emozioni, altalenante e complessivamente di buona fattura.

Ritmi incalzanti e improvvise esplosioni salgono in cattedra (l’iniziale “Chain My Name”, i bei ritornelli electro di “Vegas” e “Very Cruel”), mentre “Smug” colpisce per un andamento dolcemente svenevole. Da qui in poi c’è un calo di tono che compromette un buon inizio, con sospensioni irrisolte (“Warrior Lord”, “Torre”), momenti electro-pop contraddittori (la buona “Trippin”, i grossolani synth del primo singolo “Tiff”), l’asfissia quasi tribal-techno-pop delle fascinose “Spilling Lines” e “Matty”. Con un finale fuori fuoco (“I Need $” e “So Leave” non colpiscono fino in fondo), “Shulamith” conferma di essere un disco combattuto.

Le qualità non sono svanite, rimane un talento e un’idea di massima inestimabile, tuttavia, se di cambio di rotta vogliamo parlare, forse sarebbe meglio scegliere la strada degli episodi più concitati, dove l’inserimento dell’elettronica risulta essere più funzionale. Considerando tutto, siamo ancora di fronte a qualcosa di molto piacevole, un insieme di tracce mediamente coinvolgenti, la necessità dei Poliça adesso è quella riordinare le idee e scegliere una strada precisa, capace di dare un sbocco definitivo alle potenzialità espresse.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana